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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione III Penale, sentenza 5 giugno 2008 (dep. 7 luglio 2008), n. 27469

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Corte di Cassazione, Sezione III Penale, sentenza 5 giugno 2008 (dep. 7 luglio 2008), n. 27469
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Le molestie e gli abusi sessuali nell'ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, possono integrare il delitto di maltrattamenti ex art. 572 c.p. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte, le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto e consistevano oltre che in ripetute e petulanti molestie sessuali, nel tentativo di violenza sessuale, nonché nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga.

Udienza pubblica del 5 giugno del 2008
Sentenza n. 27469/08
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
 
Composta dai sigg. magistrati:
Dott. Enrico Alfieri
Dott. Ciro Petti
Dott. Alfredo Teresi
Dott. Maria Silvia Sensini
Dott. Santi Gazzara
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA
 

Sul ricorso proposto dal difensore di D.V.A., nato ad Enna il 14 giugno del 1979, avverso la sentenza della corte d'appello di Caltanisetta del 5 giugno del 2007;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. Ciro Petti;

sentito il sostituto procuratore generale nella persona del dott. Carlo Di Casola, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito il difensore della parte civile avv Salvatore De Maria,quale sostituto dell'avv Di Gioia, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

sentiti i difensori dell'imputato avv.ti Rosario Pellegrino e Tavella Francesco, i quali hanno concluso per l'accoglimento del ricorso;

letti il ricorso e la sentenza denunciata, osserva quanto segue:
IN FATTO

La corte d'appello di Caltanisetta, con sentenza del 5 giugno del 2007, confermava quella resa dal Tribunale di Enna il 13-12-2005, con la quale l'imputato era stato dichiarato colpevole dei reati di violenza sessuale e di maltrattamenti, in quest'ultimo reato assorbito quello di tentata violenza sessuale contestato al capo B) e, ritenuta l'attenuante del fatto di minore gravità e concesse le attenuanti generiche, dichiarate prevalenti sull'aggravante contestata, ritenuta la continuazione tra i predetti reati, condannato alla pena di anni uno e mesi due di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie ed pagamento delle spese processuali. Con la medesima sentenza era condannato anche al risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, ed alla rifusione delle spese processuali in favore della parte civile I.E. Emilia; assegnava alla predetta una provvisionale di € 10.000,00; concedeva il beneficio della sospensione condizionale della pena subordinandolo al pagamento, entro il termine di giorni 30 dal passaggio in giudicato della sentenza, della somma liquidata a titolo di provvisionale. Il D.V. era stato ritenuto responsabile dei seguenti reati:

- del reato p. e p. dall'art. 609 bis c.p. per avere, bloccando la vittima tra una sedia e il muro della stanza ove entrambi si trovavano e, profittando di tale situazione volutamente creata, toccando - malgrado il chiaro dissenso dell'interessata - la gamba sinistra, compiuto atti di violenza sessuale nei confronti della dipendente I.E. Emilia,con l'aggravante (art. 61 n. 11 c.p.) di avere commesso il fatto con abuso della sua qualità di datore di lavoro; fatto ritenuto compiuto in Enna in un giorno imprecisato degli ultimi mesi dell'anno 2002;

- del reato p. e p. dagli arti 56,81,609 bis c.p. per avere, mediante minacce consistite nel ripetuto rifiuto di regolarizzare la posizione lavorativa della vittima, sua dipendente, se prima costei non avesse ceduto alle sue avance, tentato più volte di ottenere da I.E. Emilia rapporti sessuali non riuscendo nel suo intento per cause indipendenti dalla sua volontà, con l'aggravante (art. 61 n. 11 c.p.) di avere commesso il fatto con abuso di relazioni di prestazioni d'opera; in Enna fino al maggio 2003;
 
- del reato p. e p. dall'art. 572 c.p. per avere, sottoponendola a continue molestie sessuali sul posto di lavoro maltrattato la propria dipendente I.E. fino al 17 luglio del 2003. In quest'ultimo reato come prima accennato i giudici del merito hanno ritenuto assorbito quello di cui al capo b).
 

Secondo la ricostruzione fattuale contenuta nella sentenza impugnata il rapporto dì lavoro della predetta alle dipendenze del D.V. - iniziato nel mese di aprile del 2001 e conclusosi nel mese di luglio del 2003 - era caratterizzato sin dall'inizio da un particolare interesse manifestato dal D.V. per la dipendente. A quest'ultima il datore di lavoro chiese infatti se fosse sentimentalmente legata a qualcuno. Una mattina, qualche giorno dopo averla assunta, le propose di guardare insieme una videocassetta che l'I.E. accettò di visionare. Questa resasi conto, però, che la pellicola conteneva immagini pornografiche, uscì turbata dalla stanza. L'imputato, a fronte di tale reazione, sì scusò con lei per l'accaduto. A tale comportamento, tuttavia, ne seguirono altri animati dal medesimo intento. Accadeva, infatti, che l'imputato convocasse l'I.E. nella sua stanza e dopo una normale conversazione finisse col proporle in maniera esplicita il compimento di atti sessuali, dicendole "... che l'aveva stampata nella testa la ... ", che "voleva praticamente farle provare tutte le emozioni per farla arrivare al settimo cielo". Una volta il D.V. aveva cercato insistentemente di convincere l' I.E. a denudare una parte del proprio corpo in cui la stessa aveva riportato una scottatura. In occasione del compleanno della predetta le aveva regalato un profumo ed aveva insistito affinché lo usasse e gli consentisse di annusarlo sul collo. Altro comportamento dell'imputato, interpretato dall'I.E. come volto a persuaderla a cedere alle sue proposte, consisteva nel ripetuto rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro, regolarizzazione che, secondo l'accordo tra le parti, sarebbe dovuta avvenire sei mesi dopo l'assunzione. Le anzidette condotte - verificatesi per tutta la durata del rapporto di lavoro e tenute, principalmente, nei giorni di venerdì e sabato mattina - ed altre riferite in dibattimento dalla I.E., anch'esse, sia pure in minor misura, sintomatiche dell'intento dell'imputato di ottenere i favori sessuali della predetta - quali i frequenti inviti a prendere insieme un caffè, l'offerta di passaggi o l'invito ad accompagnarla fuori città - si alternavano ad aspri e mortificanti rimproveri per gli errori che la dipendente commetteva nell'espletamento delle sue mansioni e per il suo carattere, a dire dell'imputato, superbo e prepotente.. Tra la fine del 2002 ed i primi mesi del 2003, secondo quanto precisato in dibattimento dalla parte lesa, si era verificato l'episodio del toccamento della gamba descritto al capo a), che non aveva avuto seguito perché la I.E. si era messa ad urlare. In epoca successiva a tale episodio si colloca la regolarizzazione del rapporto di lavoro , avvenuta nel mese di maggio del 2003 e seguita a breve dalla cessazione del rapporto stesso determinata dal rifiuto della I.E. di percepire una retribuzione inferiore rispetto a quella indicata nella busta paga.

Tanto premesso, la corte dopo avere rilevato che i fatti sessuali erano comunque perseguibili d'ufficio perché connessi con il delitto di maltrattamenti, osservava che le parte lesa era attendibile anche perché le sue dichiarazioni erano state confermate dai propri genitori e dalle altre persone alle quali i fatti erano stati raccontati.

Ricorre per cassazione l'imputato per mezzo del suo difensore sulla base di quattro mezzi d'annullamento.

IN DIRITTO

Con il primo motivo il ricorrente ripropone l'eccezione di tardività della querela: assume che questa era stata presentata il 13 luglio del 2002 per un presunto abuso sessuale ,quello di cui al capo a) , che inizialmente era stato riferito come accaduto alla fine del 2001 e che non v'è alcuna connessione sostanziale con il delitto di cui all'articolo 572, peraltro insussistente;

Con il secondo motivo deduce la violazione dei criteri di valutazione della prova perché la parte lesa era inattendibile, sia perché le sue dichiarazioni erano state inspirate dal malanimo indotto dalla conflittualità insorta con il proprio datore di lavoro, sia per le sue deficienze psichiche che determinavano errate percezioni della realtà con conseguenti errori di giudizio

Con il terzo motivo deduce la violazione della norma incriminatrice perché il fatto attribuito al capo a) non configurava gli estremi del reato contestato né nella forma consumata né in quella tentata, trattandosi di toccamento fugace di una zona non erogena.

Con il quarto motivo deduce la violazione dell'articolo 572 c.p. per la non configurabilità del reato.

Il ricorso è fondato parzialmente solo con riferimento al terzo motivo che sarà esaminato dopo gli altri.

Il primo motivo è infondato. Al dibattimento la parte offesa ha precisato che il reato di cui al capo a) non si era verificato alla fine del 2001, come risultava dal verbale ,bensì tra la fine del 2002 e gli inizi del 2003. Inoltre il tentativo di violenza sessuale di cui al capo b) era stato commesso nel mese di maggio del 2003 ossia in occasione della regolarizzazione del rapporto e, quindi, per tale fatto la querela era sicuramente tempestiva. Infine entrambi i reati erano connessi con quello di cui all'articolo 572 che è perseguibile d'ufficio Secondo l'orientamento di questa corte ai fini della perseguibilità d'ufficio dei delitti contro la libertà sessuale,la connessione di cui all'articolo 609 septies comma terzo codice penale tra due o più fatti costituenti reato non è solo quella di cui all'articolo 12 cod proc pen , ma anche quella investigativa di cui all'articolo 371 comma secondo (cfr Cass n 2876 del 2006; n. 32971 del 2005, n. 43139 del 2003). La connessione in definitiva sussiste non solo in presenza di reati commessi in occasione di altri ovvero allorché la prova di un reato o di una circostanza influisce sulla prova di altro reato, ma in genere in tutti i casi in cui viene meno l'esigenza di riservatezza posta a base dell'attribuzione del diritto di querela alla persona offesa. L'orientamento a favore di un ampio concetto di connessione ha trovato un'implicita conferma nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Questa, invero, con la decisione n 64 del 1998, ha ritenuto infondata la questione relativa alla procedibilità d'ufficio per connessione con reato procedibile d'ufficio estinto prima dell'esercizio dell'azione penale, in quanto l'estinzione non esclude la sopravvivenza del reato come fatto giuridico ai fini di qualsiasi altro effetto diverso dalla punibilità. In definitiva ai fini della sussistenza della connessione è sufficiente che nella denuncia di un reato sessuale si indichi un delitto perseguibile d'ufficio ,il cui accertamento implichi l'esame anche del fatto sessuale.

Nella fattispecie il pubblico ministero per indagare sulle molestie sessuali e sugli altri atti vessatori commessi in danno della dipendente(rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro, corresponsione di una retribuzione inferiore a quella dovuta) era necessariamente costretto a prendere in esame gli abusi sessuali trattandosi di fatti che assorbono le semplici molestie.

Il secondo motivo si risolve in censure in fatto sull'apprezzamento delle prove da parte dei giudici del merito le cui motivazioni, che si integrano a vicenda, non presentano incongruenze o manifeste illogicità.

Anche il quarto motivo è infondato. L'articolo 572 del vigente codice penale, rispetto all'analoga norma contenuta nel codice del 1989, ha ampliato la categoria delle persone che possono essere vittima di maltrattamenti, aggiungendo nella previsione normativa ogni persona sottoposta all'autorità dell'agente, ovvero al medesimo affidata per ragioni d'istruzione, educazione, ecc. Sussiste il rapporto d'autorità ogni qualvolta una persona dipenda da altra mediante un vincolo di soggezione particolare (ricovero, carcerazione, rapporto di lavoro subordinato, ecc). Invero non v' è dubbio che all'imprenditore o a chi lo rappresenti spetti l'autorità sui propri dipendenti riconosciuta da precise norme di legge (artt 2086, 2106 e 2134 cod. civile) il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest'ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale testé richiamata di "persona sottoposta alla sua autorità", il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente. La fattispecie in esame a differenza del maltrattamento in famiglia non richiede la convivenza ma la semplice sussistenza di un rapporto continuativo. In definitiva, gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell'ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti (Cass. 33624 del 2007).

Nella fattispecie le vessazioni si erano protratte per tutta la durata del rapporto e consistevano oltre che in ripetute e petulanti molestie sessuali, nell'abuso sessuale contestato al capo a) nonché nel rifiuto di regolarizzare il rapporto di lavoro e nella pretesa di corrispondere la retribuzione in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga.

Come accennato nella premessa parzialmente fondato è solo il terzo motivo. Secondo la contestazione e secondo la sentenza di primo grado l'imputato si era limitato a toccare la gamba sinistra della parte offesa desistendo subito dopo per la pronta reazione della vittima. La parte del corpo presa di mira non era la gamba ma la coscia e la zona genitale o comunque una zona erogena. Orbene il problema che pone la fattispecie consiste nello stabilire se l'iniziale toccamento della gamba, finalizzato a raggiungere altre parti corporee qualificate come erogene, configuri di per sé l'abuso sessuale nella forma consumata ovvero in quella tentata. In definitiva si tratta di stabilire se, fermo restando lo scopo libidinoso del toccamento,che deve comunque sussistere, per la consumazione del reato sia indispensabile che il contatto riguardi una zona erogena o ritenta tale dall'agente, perché idonea a suscitare il desiderio sessuale, o debba considerarsi sufficiente un qualsiasi contatto con il copro della vittima ancorché diverso da quello considerato erogeno o effettivamente preso di mira. Si tratta ancora una volta di fornire la nozione dell'atto sessuale e di distinguere l'ipotesi consumata da quella tentata.

Secondo l'opinione prevalente sia in dottrina che in giurisprudenza (cfr in giurisprudenza per tutte: Cass. 22 luglio 2007 n 19718; 44246 del 2005), la nozione di atto sessuale è la risultante della somma dei concetti di congiunzione carnale ed atti di libidine, previsti dalle previgenti fattispecie di violenza carnale ed atti di libidine violenti, per cui essa viene a comprendere tutti gli atti che, secondo il senso comune e l'elaborazione giurisprudenziale, esprimono l'impulso sessuale dell'agente con invasione della sfera sessuale del soggetto passivo. Orbene se la nozione di atto sessuale è riconducibile alla fusione delle precedenti nozioni di congiunzione carnale ed atti di libidine, la soluzione più lineare è quella di leggere l'atto sessuale come equivalente o della congiunzione carnale o dell'atto di libidine escludendo le condotte non rientranti in una di tali categorie. Devono pertanto essere inclusi i toccamenti, palpeggiamenti e sfregamenti sulle parti intime delle vittime, o comunque su zone erogene suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale anche in modo non completo e/o di breve durata, essendo irrilevante, ai fini della consumazione del reato, che il soggetto attivo consegua la soddisfazione erotica. I toccamenti di parti corporee diverse dai genitali o dalle zone che la scienza medica, psicologica, antropologica, qualifica come zone erogene, o comunque diverse da quelle che l'agente considera tali, configurano l'ipotesi del tentativo allorché, per la pronta reazione della vittima o per altre ragioni, l'agente non riesca a toccare la parte corporea presa di mira. In definitiva se il contatto corporeo riguardi una zona diversa da quella erogena o comunque diversa da quella effettivamente presa di mira dall'agente, perché quest'ultimo è costretto ad interrompere l'azione criminosa per la reazione della vittima o per altre ragioni, l'agente risponderà del solo tentativo, se l'intenzione era comunque libidinosa. Opinando diversamente dovrebbe rispondere del delitto consumato colui il quale afferri per le braccia una ragazza per baciarla senza raggiungere lo scopo per la reazione della vittima o per altre ragioni. In conclusione si può affermare il principio in forza del quale il tentativo di violenza sessuale sussiste, non solo quando gli atti idonei diretti in modo non equivoco alla perpetrazione dell'abuso sessuale non si siano estrinsecati in un contatto corporeo, ma anche quando il contatto corporeo, superficiale e fugace, non ha potuto raggiungere una zona erogena o comunque considerata tale e presa di mira dal reo per la reazione della vittima o per altri fattori indipendenti dalla sua volontà.

Il fatto contestato al prevenuto al capo a) non può essere qualificato come molestia sessuale, che è cosa diversa dall'abuso sessuale sia pure nella forma tentata. La molestia sessuale che è attualmente una forma particolare di molestia già prevista come reato dall'articolo 660 c.p., prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con altrettante petulanti telefonate o con espressioni volgari nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta. In definitiva coincide con tutte quelle condotte, sessualmente connotate, diverse dall'abuso sessuale, che vanno oltre il semplice complimento o la mera proposta dì instaurazione dì un rapporto interpersonale. Nel momento in cui dalle espressioni volgari a sfondo sessuale o dal corteggiamento invasivo ed insistito si passa a toccamenti non casuali suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale si é fuori della molestia e si realizza quanto meno il tentativo di atto sessuale. Quest'ultimo, a sua volta, si distingue dal reato consumato, che come sopra precisato può prescindere dalla congiunzione carnale e può estrinsecarsi anche mediante un atto libidinoso, allorché la condotta, pure in mancanza di atti di contatto fisico tra imputato e persona offesa, denoti il requisito soggettivo di raggiungere l'appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell'idoneità a violare la libertà di autoderminazione della vittima (Cass. sez III 24 aprile 2001, Schiraldi), il che si può verificare sia quando il contatto fisico sia impedito dalla reazione della vittima sia quando esso non abbia raggiunto una zona erogena o comunque quella ritenuta tale dall'agente per la pronta reazione della vittima o per altra causa.

Alla stregua delle considerazioni svolte il reato di cui al capo a) va qualificato come tentativo. Di conseguenza la sentenza va annullata con rinvio limitatamente a tale punto. Il giudice del rinvio, ferma restando l'affermazione di responsabilità per gli altri reati contestati e per lo stesso tentativo di abuso sessuale, così qualificato il delitto di cui al capo a), dovrà limitarsi a rideterminare la pena.

La liquidazione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile , va rimessa al giudice del rinvio.

P.Q.M.
LA CORTE
Letto l'articolo 623 c.p.p.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo a), che qualifica come tentativo, con rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Caltanisetta Rigetta nel resto il ricorso. Rimette la liquidazione delle spese sostenute in questo grado dalla parte civile al giudice del rinvio.
Così deciso in Roma il 5 giugno del 2008
 
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