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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654
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Le Sezioni Unite sanciscono che il profitto del reato oggetto di confisca ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 231/01 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto; inoltre la Corte chiarisce la nozione di profitto oggetto di confisca, precisando che essa non possa essere estesa fino ad arrivare ad una duplicazione della sanzione, quando l’ente, in adempimento del contratto, abbia posto in essere un’attività, per i cui risultati economici manchi un nesso diretto ed immediato con il reato.

Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654

F A T T O
 
1- Il Gip del Tribunale di Napoli, con provvedimento 26/6/2007, applicava alle società I. s.p.a., F. s.p.a, F.C. s.p.a., F. I. s.p.a., componenti dell’Associazione Temporanea di Imprese (ATI), che si era aggiudicata l’appalto del servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani della Campania, ed indagate in ordine all’illecito amministrativo di cui all’art. 24 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, collegato al delitto di cui agli art. 81 cpv., 110 e 640/1°-2° n. 1 c.p. ascritto - tra gli altri - a soggetti apicali delle medesime società e a persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di tali soggetti,  la misura interdittiva del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, limitatamente alle attività relative allo smaltimento, trattamento e recupero energetico dei rifiuti, per il periodo di un anno (art. 45 d.lgs. n. 231/01) e disponeva in via cautelare, ai sensi degli art. 19 e 53 del richiamato d. lgs. n. 231, il sequestro preventivo, al fine di garantire la futura confisca per equivalente, della somma complessiva di circa 750.000.000,00 di euro, corrispondente al valore del profitto tratto dall’illecito penale consumato nell’interesse o a vantaggio degli enti collettivi.
In particolare, la cautela reale andava ad incidere sulle seguenti somme:
- € 53.000.000,00 pari a quanto anticipato dal Commissariato per la costruzione degli impianti delle province campane diverse da quella di Napoli;
- € 301.641.238,98 relativi alla tariffa di smaltimento regolarmente incassata;
- € 141.701.456,56 di cui ai documenti rappresentativi di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni e non ancora incassati;
- € 99.092.457,23 relativi a spese sostenute dal Commissariato per lo smaltimento dei rifiuti e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR, spese che invece, per previsione contrattuale, dovevano essere a carico delle società affidatarie;
- € 51.645.689,90 corrispondenti al mancato deposito cauzionale;
- importo percepito a titolo di aggio per l’attività di riscossione espletata per conto del Commissariato e dei Comuni;
- € 103.404.000,00 pari al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra sino al 31/12/2005.
Chiariva il Gip che gli impegni contrattuali assunti dall’ATI, in relazione all’appalto di cui si era resa aggiudicataria, riguardavano: 1) l’edificazione di sette impianti di produzione di combustibile derivato da rifiuti (CDR) e di due termovalorizzatori per il recupero energetico dello stesso; 2) la gestione per dieci anni del servizio appaltato, consistente nella ricezione dei rifiuti solidi urbani (RSU) e nella lavorazione degli stessi presso gli impianti di CDR, onde ricavarne tre distinte frazioni, caratterizzate da un preciso standard qualitativo : a) il combustibile derivato da rifiuti, cioè la frazione secca dei rifiuti da avviare al recupero energetico attraverso la combustione nei termovalorizzatori; b) la frazione organica stabilizzata (FOS o compost) da utilizzare in operazioni di bonifica e recupero ambientale; c) lo scarto (sovvallo) da smaltire in discarica; 3) la garanzia, nelle more della costruzione degli impianti citati, del recupero energetico dei RSU mediante conferimento del CDR in termovalorizzatori già esistenti.
Secondo la prospettazione accusatoria, la condotta posta in essere dalle persone fisiche coinvolte nella vicenda era stata caratterizzata da evidenti profili di fraudolenza sia nella fase dell’aggiudicazione dell’appalto, nella quale si era fatto ricorso ad una serie di artifici documentali per accreditare il possesso dei requisiti necessari -in realtà inesistenti- ad aggiudicarsi l’appalto, sia nella fase esecutiva dei contratti, nel corso della quale erano state rappresentate “situazioni non corrispondenti alla realtà”, finalizzate ad occultare il sistematico inadempimento degli obblighi contrattuali assunti e a garantirsi - quindi - il mantenimento in vita del rapporto di appalto.
Gli inadempimenti si erano sostanziati nella mancata produzione di compost e di CDR conformi ai convenuti indici qualitativi, nel mancato recupero energetico dei RSU, nel subappalto - espressamente vietato - delle attività di conferimento dei materiali prodotti a valle della lavorazione presso gli impianti di CDR e di gestione delle discariche, nella mancata costruzione di alcuni degli impianti previsti e nella realizzazione di quelli edificati in maniera difforme dalle previsioni progettuali.
La fraudolenta violazione di tali obblighi contrattuali aveva determinato l’illecito conseguimento da parte del gruppo d’imprese delle utilità previste dall’accordo e, quindi, di un “profitto” sostanzialmente coincidente, sotto il profilo quantitativo, con  le somme oggetto del sequestro preventivo.
2- Il Tribunale di Napoli, con pronuncia 24/7/2007, decidendo sulla richiesta di riesame avanzata dalle quattro società, confermava la misura cautelare reale.
Il Tribunale riteneva, preliminarmente, manifestamente infondata la questione di costituzionalità sollevata dalla difesa in relazione all’art. 53 d. lgs. n. 231 per eccesso di delega [art. 11 lett. o) legge n. 300/00].  Privilegiando - po i- la tesi del significato unitario che il termine “profitto” assumerebbe nei diversi contesti normativi, riteneva di identificare il “profitto” con il “ricavo” derivante dal reato e non con il “guadagno”, inteso come “ricavo meno costi”. Aggiungeva che il profitto rilevante, nell’economia della fattispecie di truffa, è quello “ingiusto”, cioè non legittimato da un valido titolo, con l’effetto che le utilità ricavate dalle società appaltatrici nell’ambito dei rapporti contrattuali in esame, essendo il frutto diretto di condotte fraudolente, dovevano considerarsi, proprio perché ingiustamente percepite, come “profitti” destinati alla confisca anche per equivalente. Analizzava quindi le singole voci delle somme e dei crediti sequestrati, per giustificare, in relazione a ciascuna di esse, la legittimità della misura reale adottata. Poneva specificamente in evidenza, con riferimento alla voce più consistente del provvedimento di sequestro (tariffa per lo smaltimento dei rifiuti), che gli impegni contrattuali prevedevano l’attuazione di un progetto di smaltimento orientato verso un ben preciso risultato sul piano ambientale, obiettivo assolutamente eluso dalle società aggiudicatarie, che, pur avendo provveduto alla fisica eliminazione dei rifiuti, avevano omesso, occultando fraudolentemente la circostanza, quella complessa ed imprescindibile attività collaterale in grado di garantire, in linea con le aspettative della stazione appaltante, un impatto ambientale contenuto, attraverso soprattutto il minimo versamento in discarica. Sottolineava che ciò, riverberatosi negativamente su tutta la variegata attività posta in essere dagli enti affidatari, non permetteva di circoscrivere il sequestro all’utile netto, perché si sarebbe così consentito agli enti di lucrare i costi di realizzazione della stessa condotta criminosa.  Precisava, infine, che il calcolo delle somme sottoposte a vincolo era stato effettuato, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa delle imprese, con esclusivo riguardo a quelle percepite dopo l’entrata in vigore del d. lgs. n. 231/’01 e che il disposto sequestro per equivalente non era in contrasto con la corrispondente richiesta formulata dal P.M..
3- Avverso la pronuncia di riesame hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, la F.  I. s.p.a., la F. s.p.a., la F.C. s.p.a., la I. s.p.a., che concordemente hanno sollecitato l’annullamento della medesima pronuncia.                                                                                                                                      
Non si contesta specificamente la sussistenza dei presupposti della responsabilità degli enti, al di là di un generico riferimento (cfr. ricorsi della F.C. spa, della F. spa, della I. spa) alla qualificazione giuridica del fatto, che non sarebbe stata correttamente individuata, considerato che, data anche l’ipotizzata “collusione tra organi controllanti e organi controllati”, doveva escludersi il requisito dell’induzione in errore caratterizzante la truffa e configurarsi - in astratto - il reato di frode in pubbliche forniture, inidoneo a fondare la responsabilità degli enti collettivi.
Doglianza centrale e comune a tutti i ricorsi è l’errata interpretazione della nozione di profitto recepita nell’art. 19 del d. lgs. n. 231/01 e rilevante ai fini dell’applicazione dell’art. 53 dello stesso decreto.
Si rileva, innanzi tutto, l’arbitrarietà della identificazione del “profitto” con il ricavo complessivo conseguito dalle attività poste in essere in esecuzione dei contratti stipulati nell’ambito del rapporto di appalto, laddove il profitto destinato alla confisca deve farsi coincidere con l’eventuale “utile netto” ritratto dalle stesse attività, vale a dire con il vantaggio economico a queste direttamente collegabile. Il profitto va tenuto distinto dal prezzo e dal prodotto del reato, quest’ultimo menzionato nell’art. 240 c.p. in tema di confisca ordinaria e non nell’art. 19 del d. lgs n. 231/’01, circostanza che evidenzia l’intenzione del legislatore del 2001 di accogliere una nozione più ristretta del termine “profitto”. La stessa Relazione governativa allo schema del d. lgs n. 231 definisce il profitto come la “conseguenza economica immediata ricavata dal fatto del reato”, il che sottintende “una valutazione complessiva degli effetti scaturiti dalla condotta delittuosa, nella quale, a fronte di operazioni complesse aventi un significato economico unitario, non può…esservi spazio per un’artificiosa scissione delle sole poste attive”.
Sotto il profilo sistematico, si sostiene che il termine “profitto”, a seconda del differenziato contesto in cui viene utilizzato nell’ambito del d. lgs. n. 231, assume significati diversi: ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui all’art. 13, infatti, il “profitto di rilevante entità” menzionato in tale norma evoca un concetto di portata più ampia rispetto a quello del profitto oggetto di confisca di cui all’art. 19 dello stesso decreto e -al riguardo- si richiama la sentenza 23/6/2006 n. 32627 della Sesta Sezione penale di questa Corte, che, evidenziando tale differenza concettuale, circoscriverebbe l’oggetto del provvedimento ablativo al solo utile netto ricavato.
Sempre sul piano sistematico, si propende, invece, per una visione unitaria dell’istituto della confisca di cui agli art. 6/5°, 15/4°, 17 lett. c) e 19 del d. lgs. n. 231, finalizzato al ripristino dell’equilibrio economico turbato dalla commissione del reato. L’effettivo contenuto della misura ablativa, che trova applicazione in situazioni oggettivamente diverse, deve essere determinato considerando l’ipotesi disciplinata dall’art. 6/5°, secondo cui la confisca del profitto del reato deve essere disposta anche quando l’ente non sia punibile per avere validamente adottato e attuato adeguati modelli organizzativi: è evidente che una misura così severa, applicata anche in assenza di responsabilità, non può che riguardare “l’acquisizione del mero surplus di arricchimento eventualmente derivato dal reato”. Ad analoga conclusione porta la previsione della confisca del profitto conseguente, ex art. 15/4°, alla gestione commissariale dell’ente: sarebbe, infatti, palesemente irragionevole estendere la misura ablativa all’ammontare del lordo delle entrate di tale gestione, giacché in tale modo si precluderebbe la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, laddove proprio l’esigenza di garantire tale prosecuzione costituisce la ragione della nomina del commissario.
In sostanza, gli enti ricorrenti sottolineano che l’individuazione del profitto rilevante ai fini della confisca di cui d. lgs. n. 231/’01 deve prescindere dalla tradizionale concezione del profitto accolta dalla giurisprudenza penale e ciò perché, nell’ottica della responsabilità degli enti, il reato è un fatto illecito addebitabile a soggetto distinto (la persona fisica autrice della condotta tipica) e si inserisce nella dinamica dell’attività d’impresa propria dell’ente. Sarebbe dunque del tutto irragionevole espropriare il risultato lordo della gestione economica, considerando i costi di svolgimento dell’attività imprenditoriale tout court come costi di realizzazione del reato. Con riferimento al caso di specie, l’erroneità dell’impostazione seguita dal Tribunale è -secondo le società ricorrenti- evidenziata esemplificativamente dal rilievo che la confisca della tariffa “lorda” percepita per lo smaltimento dei rifiuti comporterebbe l’assurda conseguenza di trasformare in profitto anche l’I.V.A. incorporata nella detta tariffa e versata dalle società al fisco. L’incompatibilità del mancato scomputo dei costi dell’attività d’impresa con le finalità proprie della confisca trova ulteriore conferma nel fatto che deve essere comunque rispettato il principio di proporzionalità tra tale misura, definita dalla legge speciale come sanzione, e l’effettivo contenuto dell’illecito addebitato.
La scelta interpretativa di ritenere confiscabile il ricavo lordo, nel presupposto della totale illiceità dell’attività posta in essere, è smentita dall’oggetto dei contratti e dalle previste modalità di esecuzione, oltre che dalla specifica circostanza  che, a partire dal dicembre 2005 (data della risoluzione dei contratti per effetto del d. l. n. 245/’05 convertito nella legge n. 21/’06), “l’attività delle società impegnate nell’esecuzione del contratto d’appalto è addirittura proseguita , con le identiche modalità, sotto la direzione ed il coordinamento esclusivi del Commissario delegato”.
Sempre con riferimento alla delimitazione del profitto confiscabile, si contestano (cfr. in particolare memoria 17/1/2008 della Impregilo spa) le singole voci della misura cautelare reale: a) sequestro disposto per 750.000.000,00 euro, laddove l’ammontare dei ricavi effettivamente conseguiti dall’ATI non supererebbe i 440.000.000,00 euro; b) le spese sostenute dal Commissario delegato per garantire gli adempimenti asseritamente omessi dall’ATI integrerebbero un danno risarcibile e non un profitto confiscabile, al di là del fatto che tali spese sarebbero state quantificate in misura eccedente quella reale (non 99.000.000,00 euro bensì 43.000.000,00 euro); c) il mancato deposito della cauzione, sostituita legittimamente da una polizza fideiussoria, sarebbe incompatibile con la nozione di profitto; d) l’impianto di termovalorizzazione non costituirebbe profitto, ma tutt’al più un credito nei confronti del Commissariato; e) sui 53.000.000,00 euro anticipati dal Commissario graverebbe un obbligo di restituzione con maggiorazione di interessi e la confisca duplicherebbe tale obbligo; f) quanto all’aggio di riscossione, non era stata neppure quantificata l’utilità che le società avrebbero lucrato.
Era stata omessa qualunque motivazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per farsi luogo al sequestro ai fini della confisca per equivalente: non erano state indicate le ragioni dell’impossibilità di apprendere direttamente il profitto del reato.
Il provvedimento di sequestro non aveva indicato le porzioni di profitto attribuibili a ciascuna società, con l’inaccettabile conseguenza di vincolare il patrimonio del singolo ente ben oltre il valore dell’eventuale utile tratto dal reato.
La Impregilo, in particolare, deduce che il suo ruolo nella vicenda era stato quello di finanziare, in quanto capogruppo, le società controllate e di non avere pertanto percepito alcuna delle somme di cui si discute, con l’effetto che il suo patrimonio sarebbe stato illegittimamente colpito dalla misura cautelare.
Il sequestro preventivo, rimesso - secondo la previsione dell’art. 53- al potere discrezionale del giudice, non era stato adeguatamente motivato.
La sola Impregilo deduce anche la violazione dell’art. 46/4° d. lgl. n. 231, che vieta l’applicazione congiunta di misure cautelari a carico degli enti: poiché l’art. 53 è collocato all’interno della sezione dedicata alle misure cautelari, tale è da considerarsi il sequestro, che non  può operare congiuntamente alla pure applicata misura interdittiva del divieto di contrattare con la P.A..
4- I ricorsi, assegnati alla Seconda Sezione penale di questa Corte, sono stati rimessi, con ordinanza 23/1/2008, alle Sezioni Unite ex art. 618 c.p.p., sul rilievo, in relazione alla doglianza principale formulata, di un potenziale contrasto interpretativo in ordine alla identificazione della nozione di profitto confiscabile ai sensi dell’art. 19 d. lgs. n. 231/’01, avuto riguardo all’affermazione incidentale fatta sul punto dalla sentenza 23/6/2006 n. 32627 della Sesta Sezione penale, richiamata nei ricorsi.
La Sezione rimettente contesta, in sostanza, che dal profitto generato da attività illecite siano scorporabili i costi sostenuti per produrlo, a prescindere dal contesto in cui tale attività venga realizzata; sottolinea in modo esplicito che soltanto detto profitto sia destinato alla confisca e che da esso debba rimanere distinto il provento dell’attività lecita d’impresa, che invece non può essere sottoposto alla misura ablativa, sicché frutto di equivoco sarebbe l’affermazione difensiva secondo cui l’attività svolta dagli enti, essendo proseguita sotto la direzione del Commissario governativo dopo l’entrata in vigore del d.l. n. 245/’05, sarebbe per definizione lecita: l’attività svolta sotto la gestione commissariale è certamente lecita (come quella proseguita dal commissario giudiziale ex art. 15 d. lgl. n. 231), ma è ben diversa e va tenuta distinta da quella di perpetrazione del reato, posta in essere prima della gestione commissariale.
5- Le difese delle società ricorrenti hanno depositato, in data 14, 21 e 22 marzo, memorie con le quali hanno ulteriormente illustrato i motivi di ricorso e hanno insistito per il loro accoglimento.
6- Il Primo Presidente ha assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite, fissando per la loro trattazione l’odierna udienza camerale.
Le parti presenti hanno concluso come da epigrafe.

D I R I T T O

1- Preliminarmente, devesi ritenere l’ammissibilità dei proposti ricorsi.
L’art. 53 del d. lgs. n. 231/’01, che disciplina il sequestro preventivo, in verità, nel fare rinvio alle norme codicistiche relative allo stesso istituto, non richiama espressamente l’art. 325 c.p.p. sul ricorso per cassazione, il che ha indotto alcuni studiosi della materia ad escludere la praticabilità di tale mezzo d’impugnazione sia avverso la decisione del riesame, sia -per saltum- avverso il provvedimento dispositivo della misura.
La tesi non può essere condivisa.
Osserva, invero, la Corte che la lettura ragionevole e sistematica della norma di cui all’art. 53 del d. lgs. n. 231 impone di ritenere in essa implicitamente richiamato l’art. 325 c.p.p.. La previsione, infatti, del riesame del provvedimento di sequestro preventivo (con richiamo espresso all’art. 322 c.p.p., che rinvia all’art. 324) e dell’appello avverso gli altri e diversi provvedimenti in materia (con esplicito richiamo all’art. 322bis c.p.p.) comporta il rinvio al complessivo regime delle impugnazioni previsto al riguardo dal codice di rito, stante lo stretto e diretto collegamento delle norme di cui agli art. 322bis e 324 con quella di cui all’art. 325 c.p.p..
Né tale conclusione è contraddetta dall’art. 52 del d. lgs. n. 231 che, in tema di misure interdittive, prevede espressamente, a differenza dell’art. 53 sulla cautela reale, oltre all’appello il ricorso per cassazione, quasi a voler sottolineare una deliberata scelta del legislatore di differenziare, per le due situazioni, la regolamentazione delle impugnazioni. La diversa formulazione delle due norme è giustificata, invece, dalla peculiarità del regime delle impugnazioni disciplinato dall’art. 52, che, al contrario dell’art. 53, non recepisce in toto la disciplina dell’appello di cui all’art. 322bis c.p.p. e quindi implicitamente quella dell’eventuale ricorso per cassazione, ma richiama i soli commi 1bis e 2 della norma da ultimo citata, con la conseguente necessità, per intuitive ragioni di coordinamento, di una esplicita previsione del ricorso di legittimità, che altrimenti non avrebbe trovato spazio. E’ sufficiente considerare, per comprendere la ragione dell’omesso rinvio, nell’art. 52/1° d. lgs. n. 231, all’intera disciplina dell’art. 322bis c.p.p., che la legittimazione a proporre appello avverso la misura interdittiva è riservata soltanto al pubblico ministero e all’ente, per mezzo del suo difensore, dato questo che avrebbe reso distonico il recepimento tout court anche della disposizione di cui al primo comma dell’art. 322 bis c.p.p.; ed ancora, il rinvio, nel secondo comma del citato art. 52, alle disposizioni di cui all’art. 325 c.p.p. deve ritenersi circoscritto ai soli commi 3 e 4 della medesima norma, gli unici concretamente applicabili: il comma 1 dell’art. 325, infatti, è inapplicabile, prevalendo la disposizione specifica di cui all’art. 52/2° d. lgs. n. 231; anche il comma 2 dell’art. 325, disciplinando il ricorso diretto per cassazione, non può trovare operatività, dal momento che oggetto dell’impugnazione prevista dall’art. 52/2° è soltanto la decisone del giudice di appello e non anche il provvedimento genetico della misura.
L’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso il riesame del sequestro preventivo è stata sostenuta anche in base alla considerazione che il giudizio di riesame, ai sensi del comma 6 dell’art. 324 c.p.p., si svolge con le forme previste dall’art. 127 c.p.p., il quale al comma 7 stabilisce che “il giudice provvede con ordinanza comunicata o notificata senza ritardo ai soggetti indicati nel comma 1, che possono proporre ricorso per cassazione”. Tale opzione ermeneutica, però, si rivela piuttosto riduttiva (porterebbe, infatti, ad escludere il ricorso per saltum) ed è superata dalle argomentazioni di più ampio respiro sistematico innanzi sviluppate.
2- Deve, inoltre, premettersi che non è oggetto del sollecitato sindacato di legittimità la sussistenza, nel caso in esame, dei presupposti legittimanti il disposto sequestro preventivo, vale a dire la ricorrenza del fumus commissi delicti e del periculum in mora, non essendo sviluppato nei ricorsi alcun motivo specifico sul punto.
Soltanto alcune delle società ricorrenti prospettano che, nella specie, non sarebbe configurabile l’ipotizzato reato di truffa, ma piuttosto quello di frode in pubbliche forniture, in relazione al quale non è evocabile una responsabilità amministrativa in capo agli enti. La doglianza, però, è estremamente generica e non tiene conto delle diffuse argomentazioni articolate - al riguardo - nell’ordinanza genetica, che da quella in verifica è espressamente richiamata. Nel provvedimento di sequestro, infatti, è specificamente illustrato il compendio degli elementi indiziari indicativi del reato-presupposto di truffa, che concorre formalmente con quello di frode in pubbliche forniture, pure ipotizzato a carico delle persone fisiche indagate (cfr. pgg. 24 e ss.).
E’ il caso di ricordare, peraltro, quanto alla sussistenza del requisito del periculum, che nella specie si verte in ipotesi di confisca obbligatoria, stante la previsione dell’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01, che, analogamente alla disposizione contenuta nell’art. 321/2° c.p.p., valuta tipicamente la presenza del periculum medesimo.  
3- La questione centrale portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: come debba configurarsi il “profitto del reato” nel sequestro preventivo funzionale alla confisca disposto, ai sensi degli art. 19 e 53 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, nei confronti di una società indagata per un illecito amministrativo dipendente da reato.
4- Il d. lgs. 8/6/2001 n. 231 disciplina la responsabilità degli enti collettivi “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” e rappresenta l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare il fenomeno della criminalità d’impresa, attraverso il superamento del principio, insito nella tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest e nella prospettiva di omogeneizzare la normativa interna a quella internazionale di matrice prevalentemente anglosassone, ispirata al c.d. pragmatismo giuridico.
La legge delega n. 300/2000, infatti, ha ratificato e dato attuazione alla Convenzione OCSE 17/12/1997 (sulla lotta contro la corruzione dei funzionari pubblici stranieri), che -all’art. 2- obbligava gli Stati aderenti ad assumere “le misure necessarie [conformemente ai propri principi giuridici] a stabilire la responsabilità delle persone morali” per i reati evocati nella stessa Convenzione.
Questa, peraltro, non è l’unico strumento internazionale al quale si è ispirato il legislatore delegante nel formulare il testo dell’art. 11 della citata legge n. 300. Egli ha ritenuto, al di là delle generiche indicazioni offerte dalla Convenzione OCSE, di dovere dare attuazione al secondo protocollo della Convenzione PIF, il cui art. 3 dettava, in tema di responsabilità degli enti, direttive più puntuali, distinguendo due ipotesi, a seconda che il reato fosse stato commesso da soggetti in una posizione dominante (basata sul potere di rappresentanza, sull’autorità di prendere decisioni, sull’esercizio del controllo in seno alla persona giuridica) ovvero da soggetti in posizione subordinata (che, per carenza di sorveglianza o controllo da parte dei soggetti apicali, avessero reso possibile la perpetrazione del reato a beneficio della persona giuridica). L’art. 11 della legge delega, pur nel recepimento delle indicazioni degli strumenti internazionali, ha dotato il nuovo illecito di un volto dai contorni ancora più precisi, contemperando i profili di generalprevenzione, primario obiettivo della responsabilità degli enti, con “le garanzie che ne devono rappresentare il necessario contraltare”. Sulla stessa linea d’ispirazione si è mantenuto il legislatore delegato del decreto n. 231/01.
Ne è risultata un’architettura normativa complessa che, per quanto farraginosa e -sotto alcuni aspetti- problematica, evidenzia una fisionomia ben definita, con l’introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla struttura dell’illecito, all’apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell’ente, al procedimento di cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale. Una innovazione legislativa particolarmente importante, dunque, che segna il superamento del principio societas delinquere et puniri non potest.
Il sistema sanzionatorio proposto dal d. lgs. n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto penale -per così dire- “nucleare”, incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti criminologiche delineate nel citato decreto. Il sistema è “sfaccettato”, legittima distinzioni soltanto sul piano contenutistico, nel senso che rivela uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare, opera certamente sul piano della deterrenza e persegue una massiccia finalità specialpreventiva.
La tipologia delle sanzioni, come si chiarisce nella relazione al decreto, si presta ad una distinzione binaria tra sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive; al di fuori di tale perimetro, si collocano inoltre la confisca e la pubblicazione della sentenza.
Il decreto legislativo riserva, poi, grande attenzione alle misure cautelari, che hanno una importanza strategica per garantire l’effettività del sistema di responsabilità degli enti collettivi nella fase strumentale del processo, momento particolarmente delicato e determinante per la stessa vita del soggetto collettivo e per la tutela degli interessi pubblicistici che possono essere coinvolti.
Per quanto qui specificamente interessa, deve soffermarsi l’attenzione sulla misura cautelare reale del sequestro preventivo, previsto e disciplinato dall’art. 53 in relazione all’art. 19 del d. lgs. n. 231, in prospettiva della futura confisca, anche per equivalente, del profitto del reato.
Stante la stretta connessione tra la cautela reale e la confisca, è opportuna una breve analisi di quest’ultimo istituto, per individuarne la collocazione e la natura che esso assume nell’ambito del decreto legislativo; seguirà, quindi, l’approfondimento della nozione di “profitto”, punto focale della questione controversa.
5- La confisca ha costantemente conservato, nell’ordinamento italiano, una natura “proteiforme”.
Nel codice Zanardelli del 1889, era elencata tra gli “effetti penali della condanna”, anche se erano contemplate ipotesi in assenza di questa, che anticipavano in qualche maniera gli sviluppi della disciplina dell’istituto.
Il codice Rocco ha catalogato la confisca di cui all’art. 240 c.p. tra le misure di sicurezza, pur prescindendo dall’accertamento della pericolosità dell’autore del reato, come accade per l’applicazione delle misure di sicurezza personali (l’art. 236 c.p., che disciplina le misure di sicurezza patrimoniali, non richiama -infatti- l’art. 202 dello stesso codice).
La giurisprudenza ha sempre riconosciuto nella confisca disciplinata dal codice penale, in linea con la scelta del legislatore, una effettiva misura di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche se i corrispondenti effetti ablativi si risolvono sostanzialmente in una sanzione pecuniaria (cfr. Cass. S.U. 22/1/1983, Costa).
Successivamente sono state introdotte nell’ordinamento, in maniera sempre più esponenziale, ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto ricavato, le quali hanno posto in crisi le costruzioni dommatiche elaborate in passato e la identificazione, attraverso il nomen iuris, di un istituto unitario, superando così i ristretti confini tracciati dalla norma generale di cui all’art. 240 c.p. (si pensi esemplificativamente alla confisca di cui agli art. 322ter, 600septies, 640quater, 644, 648quater c.p., 2641 c.c., 187 d. lgs. n. 58/’98, 44/2° dpr n. 380/’01).
A conferma della determinazione con cui il legislatore ha inteso e intende perseguire l’obiettivo di privare l’autore del reato soprattutto del profitto che ne deriva, non va sottaciuta la progressiva moltiplicazione delle ipotesi di confisca nella forma per equivalente, che va ad incidere cioè, di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto “principale”, su somme di denaro, beni o altre utilità di pertinenza del condannato per un valore corrispondente a quello dello stesso profitto. L’obiettivo perseguito, non più incentrato sull’equivoca pretesa della pericolosità delle cose, tende a superare la rigida catalogazione codicistica dell’istituto. La confisca c.d. di valore è stata introdotta in molte norme del codice penale (artt. 322ter, 600septies, 640quater, 644, 648quater) e in  disposizioni della legislazione speciale (artt. 187 T.U.F., 2641 c.c., 11 legge n. 146/’06).
Vi sono, poi, ipotesi di confisca c.d. “speciale”, come quella prevista dall’art. 12sexies della legge n. 356/’92 (avente ad oggetto i valori di cui il condannato per determinati reati non è in grado di giustificare la legittima provenienza e comunque sproporzionati rispetto alla capacità reddituale del medesimo condannato) o quella prevista in materia di prevenzione dall’art. 2ter della legge n. 575/’65.
Sulla base della tracciata evoluzione normativa, appare assai arduo, oggi, catalogare l’istituto della confisca nel rigido schema della misura di sicurezza, essendo agevole per esempio riconoscere, in quella di valore, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione e, in quella “speciale”, una natura ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo. Con il termine “confisca”, in sostanza, al di là del mero aspetto nominalistico, si identificano misure ablative di natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso termine viene utilizzato. D’altra parte, la stessa Corte Costituzionale, sin dagli anni sessanta (cfr. sentenze 25/5/1961 n. 29 e 4/6/1964 n. 46), avvertiva che “la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica” e che “il suo contenuto…è sempre la…privazione di beni economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa”, con l’effetto che viene in rilievo “non una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge”.
L’istituto della confisca previsto dal d. lgs. n. 231/’01 sulla responsabilità degli enti si connota in maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare.
L’art. 9/1° lett. c) prevede la confisca come sanzione, il cui contenuto e i cui presupposti applicativi sono precisati nell’art. 19/1°, che testualmente recita: “Nei confronti dell’ente è sempre disposta, con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte che può essere restituita al danneggiato…”. Il secondo comma di quest’ultima disposizione autorizza la confisca anche nella forma per equivalente, replicando lo schema normativo di disposizioni già presenti nel codice penale o in leggi penali speciali. Chiara, quindi, la configurazione della confisca come sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre pure previste nel decreto in esame.
L’art. 6/5° prevede, però, la confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono funzioni apicali, anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità, per avere validamente adottato e attuato i modelli organizzativi (compliance programs) previsti e disciplinati dalla stessa norma.
In questa ipotesi, riesce difficile cogliere la natura sanzionatoria della misura ablativa, che si differenzia strutturalmente da quella di cui all’art. 19, proprio perché difetta una responsabilità dell’ente. Una parte della dottrina ha ritenuto di ravvisare in tale tipo di confisca una finalità squisitamente preventiva, collegata alla pericolosità del profitto di provenienza criminale. Ritiene la Corte che, in questo specifico caso, dovendosi -di norma- escludere un necessario profilo di intrinseca pericolosità della res oggetto di espropriazione, la confisca assume più semplicemente la fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmente) un profitto geneticamente illecito. Ciò è tanto vero che, in relazione alla confisca di cui all’art. 6/5°, non può disporsi il sequestro preventivo, considerato che a tale norma non fa riferimento l’art. 53 del decreto, che richiama esclusivamente l’art. 19.
L’art. 15/4° prevede che, in caso di commissariamento dell’ente, “il profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” debba essere confiscato. La nomina del commissario è disposta, in base alla previsione della citata norma, dal giudice in sostituzione della sanzione interdittiva che determinerebbe l’interruzione dell’attività dell’ente, con grave pregiudizio per la collettività (interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità) o per i livelli occupazionali (avuto riguardo alle dimensioni dell’ente e alle condizioni economiche del territorio). In questo caso, la confisca ha natura di sanzione sostitutiva e tanto emerge anche dalla Relazione allo schema del decreto legislativo, nella quale si precisa che “è intimamente collegata alla natura comunque sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico servizio, sarebbe stata interdetta”.
La confisca, infine, si atteggia nuovamente come sanzione principale nell’art. 23/2°, che configura la responsabilità dell’ente per il delitto di cui al primo comma della stessa norma, commesso nell’interesse o a vantaggio del medesimo ente.
6- Quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che non è rinvenibile in alcuna disposizione legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del tipo di “profitto lordo” o “profitto netto”, concetti questi sui quali s’incentra la principale doglianza delle società ricorrenti, ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera meramente enunciativa, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via interpretativa.
Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti positive e negative del reddito.
In particolare, il profitto del reato a cui fa riferimento il primo comma dell’art. 240 c.p. va identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone al “prodotto” e al “prezzo” del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito. Carattere onnicomprensivo si attribuisce -poi- alla locuzione “provento del reato”, che ricomprenderebbe “tutto ciò che deriva dalla commissione del reato” e, quindi, le diverse nozioni di “prodotto”, “profitto” e “prezzo” (S.U. 28/4/1999 n. 9, Bacherotti).
La nozione di profitto come “vantaggio economico” ritratto dal reato è tradizionalmente presente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr. S.U. 3/7/1996 n. 9149, Chabni; S.U. 24/5/2004 n. 29951, Curatela fall. in  proc. Focarelli), che, però, ha avuto modo anche di precisare che all’espressione non va attribuito il significato di “utile netto” o di “reddito”, ma quello di “beneficio aggiunto di tipo patrimoniale”, a superamento quindi dell’ambiguità che il termine “vantaggio” può ingenerare (cfr. S.U. 24/5/2004 n. 29952, Curatela fall. in proc. Romagnoli; sez. VI 6/5/2003 n. 26747, Liguori).
Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità e che qui va ribadito è che il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente. Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito (cfr. le citate sentenze Focarelli e Romagnoli delle S.U.; sez. II 14/6/2006 n. 31988, Chetta; sez. VI 4/11/2003 n. 46780, Falci).
A tale criterio di selezione s’ispira anche la recente pronuncia delle Sezioni Unite 25/10/2007 n. 10280 (ric. Miragliotta), che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della concussione, ha privilegiato - è vero - una nozione di profitto in senso “estensivo”, ricomprendendovi anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato che tale reimpiego è comunque casualmente ricollegabile al reato e al profitto “immediato” dello stesso. Si ribadisce in tale decisione, quindi, la necessità di un rapporto diretto tra profitto e reato, si nega, però, che l’autore di quest’ultimo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo all’escamotage di trasformare l’identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque individuabile nel frutto del reimpiego, anch’esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla base di chiari elementi indiziari evincibili dalla concreta fattispecie, all’attività criminosa posta in essere dall’agente.
6a- La validità di tale approdo interpretativo, maturato nell’ambito della previsione di cui all’art. 240 c.p. e riferito al profitto tratto da condotte totalmente illecite, va verificata anche in relazione alle previsioni di cui al d. lgs. n. 231/’01.
Il termine “profitto” è menzionato in diverse disposizioni del decreto, che disciplinano situazioni eterogenee.
Il profitto del reato è, innanzi tutto, come si è detto, l’oggetto della confisca-sanzione di cui agli art. 9, 19 e 23, nonché di quella, diversa sotto il profilo classificatorio, di cui all’ultimo comma dell’art. 6.
Il profitto è oggetto di confisca anche ai sensi dell’art. 15/4°, ma in questo caso non si tratta del profitto ricavato dal reato, bensì di quello conseguito dalla gestione commissariale disposta in sostituzione delle sanzioni o delle misure cautelari interdittive.
L’art. 13 /1° lett. a) individua nel “profitto di rilevante entità” la condizione, alternativa alla recidiva, per l’applicazione nei confronti dell’ente delle sanzioni interdittive ed analoga previsione è contenuta nel primo comma dell’art. 16 per l’applicazione delle medesime sanzioni in via definitiva.
Alla messa a disposizione del “profitto conseguito ai fini della confisca” fa riferimento l’art. 17 lett. c) quale oggetto di una delle condotte “riparatorie” che l’ente deve porre in essere, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, per evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive.
Negli art. 24/2°, 25/3°, 25ter/2° e 25sexies/2°, infine, il conseguimento di un profitto di rilevante entità integra una circostanza aggravante degli illeciti connessi ai reati-presupposto rispettivamente contemplati da dette norme.
Pur in assenza, anche nel sistema delineato dal d. lgs. n. 231/01, di una definizione della nozione di profitto, è indubbio che questa assume significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui è inserita.
Il profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 (ma anche negli art. 16, 24/2°, 25/3°, 25ter/2°, 25sexies/2°), che ha tradotto il criterio di delega (“casi di particolare gravità”) contenuto nella direttiva di cui all’art. 11 lett. L) della legge 29/9/2000 n. 300, evoca un concetto di profitto “dinamico”, che è rapportato alla natura e al volume dell’attività d’impresa e ricomprende vantaggi economici anche non immediati (cfr. Cass. sez. VI 23/6/2006 n. 32627, La Fiorita) ma, per così dire, di prospettiva in relazione alla posizione di privilegio che l’ente collettivo può acquisire sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi.
Per quanto qui interessa, deve, invece, farsi riferimento al profitto collegato alle ipotesi di confisca di cui agli art. 6, 15, 17 e 19, che si preoccupano di assicurare allo Stato quanto conseguito in concreto dall’ente, sia pure in situazioni diverse, per effetto della commissione dei reati-presupposto.
La ratio sottesa a queste ultime norme, ad eccezione -come si dirà- dell’art. 15, e alcuni passaggi della Relazione allo schema del decreto legislativo additano all’interprete, per l’individuazione dell’oggetto della confisca e della cautela reale ad essa funzionale (ove prevista), sempre la pertinenzialità del profitto al reato quale unico criterio selettivo, essendo il primo definito “come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato”.
Interessante è il passaggio della Relazione che chiarisce il disegno sotteso alle condotte riparatorie di cui all’art. 17 e il ruolo svolto in tale contesto dalla messa a disposizione del profitto da parte dell’ente. Si legge testualmente: “come terzo concorrente requisito, si prevede che l’ente metta a disposizione il profitto conseguito. La ratio della disposizione è trasparente: visto che il profitto costituisce, di regola, il movente che ispira la consumazione dei reati, l’inapplicabilità della sanzione interdittiva postula inevitabilmente che si rinunci ad esso e lo si metta a disposizione dell’autorità procedente…In definitiva le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatoria e riorganizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall’illecito e, pertanto, la rielaborazione del conflitto sociale sotteso all’illecito e al reato avviene non solo attraverso una logica di stampo repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi dell’offesa”. L’esplicito riferimento alla natura “compensativa” delle condotte riparatorie accredita, al di là di ogni ambiguità, una funzione della confisca del profitto come strumento di riequilibrio dello status quo economico antecedente alla consumazione del reato, il che contrasta con la tesi del profitto quale “utile netto”.
Nella parte della Relazione dedicata alla confisca di valore si legge: “la confisca , già conosciuta nel nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile l’apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di evitare che l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”. L’esplicito riferimento alla necessità di evitare l’illegittimo godimento da parte dell’ente dei “proventi del reato” induce a ritenere che con tale espressione si sia inteso evocare quanto complessivamente percepito dall’ente in seguito alla consumazione del reato, prescindendo da qualunque raffronto tra profitto lordo e profitto netto.
La sentenza della Sesta Sezione penale 23/6/2006 n. 32627 (ric. La Fiorita), sulla quale i ricorsi fanno leva, non si è posta il problema, perché estraneo alla sua indagine, di definire la nozione di profitto oggetto di confisca, ma ha evocato tale nozione solo incidentalmente e, peraltro, in maniera perplessa, nell’economia di un discorso giustificativo attinente al diverso problema dell’applicazione delle misure interdittive, sicché non offre alcun argomento idoneo a contrastare la tesi qui seguita.
Anche gli Atti internazionali ai quali la legge delega n. 300 del 2000 ha inteso dare esecuzione (Convenzione 26/7/1995 sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e relativi protocolli; Convenzione 26/5/1997 relativa alla lotta contro la corruzione; Convenzione OCSE 17/12/1997) impegnano gli Stati aderenti ad adottare misure idonee alla confisca o comunque alla “sottrazione” dei “proventi” dei reati di cui si occupano.
Il termine ”proventi” è, nella versione italiana delle menzionate Convenzioni, la traduzione del corrispondente termine “proceeds” utilizzato nel testo ufficiale inglese delle medesime. Nel Rapporto esplicativo alla Convenzione OCSE, però, si precisa che con quest’ultimo termine devono intendersi “i profitti o gli altri benefici derivanti al corruttore dalla transazione o gli altri vantaggi ottenuti o mantenuti attraverso la corruzione”; tale precisazione chiarisce, in definitiva, che con il termine “proventi” (proceeds) si sono voluti indicare tutti i vantaggi ricavati dalla commissione dei reati.
Sulla stessa linea è anche la più recente decisione quadro 24/2/2005 relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato (2005/212/GAI). Con legge 25/2/2008 n. 34, si è conferita delega al Governo per l’attuazione della decisione quadro della U.E. e l’art. 31, primo comma lett. b) n. 1, chiarisce che per “proventi del reato” dovranno intendersi il prodotto e il prezzo del reato, nonché il “profitto derivato direttamente o indirettamente  dal reato” o il suo impiego; la stessa disposizione, al n. 3, impone la previsione della confisca per equivalente dei beni costituenti il prodotto, il prezzo o il profitto del reato; la lett. f) del primo comma dell’art. 31, infine, delega il Governo ad adeguare anche le disposizioni del d. lgs. n. 231/’01 alle medesime direttive.
E’ agevole rilevare che il legislatore, ancora una volta, nel disciplinare la confisca del profitto del reato, non opera alcuna distinzione fondata sul margine di guadagno “netto” tratto dal reato e, anzi, nel menzionare specificamente il “profitto indiretto”, dà rilievo, ai fini dell’applicazione della misura ablativa, anche ai vantaggi indotti dal profitto direttamente acquisito per effetto della consumazione dell’illecito.
La strategia internazionale, quindi, in maniera sempre più esponenziale, affida alla confisca dei “proventi del reato”, intesi in senso sempre più ampio e onnicomprensivo, il ruolo di contrasto alla criminalità economica e a quella organizzata e, a tal fine, elabora strumenti funzionali alla promozione dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia. La citata legge delega n. 34/2008 si muove proprio in questa direzione.
La Repubblica Federale Tedesca, per esempio, sin dal 1992, a superamento di ogni incertezza interpretativa, ha adottato una normativa interna che orienta chiaramente la misura ablativa verso il “profitto lordo” tratto dall’attività illecita (il termine usato è etwas, che significa “qualsiasi cosa” conseguita attraverso il reato).
La vigente normativa italiana, invece, utilizzando un lessico che sotto il profilo semantico lascia ampi spazi, affida all’interprete il compito d’individuare, nell’ambito del complessivo sistema, il contenuto e la portata dell’oggetto della confisca.
Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico.
La confisca del profitto di cui all’art. 19 d. lgs. n. 231/01, concepita come misura afflittiva che assolve anche una funzione di deterrenza, risponde sicuramente ad esigenze di giustizia e, al contempo, di prevenzione generale e speciale, generalmente condivise. Il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del “profitto netto” finirebbe per riversare sullo Stato, come incisivamente è stato osservato, il rischio di esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio di perdita economica.
Soltanto nell’ipotesi di confisca del profitto della gestione commissariale di cui all’art. 15 d. lgs. n. 231/’01, misura concepita come sanzione sostitutiva, il profitto s’identifica con l’utile netto, conclusione -questa- legittimata dalla lettura combinata della citata norma e di quella di cui al successivo art. 79/2°. In questo caso la confisca, come si è sopra precisato, ha una funzione diversa, essendo collegata ad un’attività lecita che viene proseguita -sotto il controllo del giudice- da un commissario giudiziale nell’interesse della collettività (garantire un servizio pubblico o di pubblica necessità ovvero i livelli occupazionali) e non può che avere ad oggetto, proprio per il venire meno di ogni nesso causale con l’illecito, la grandezza contabile residuale, da assicurare comunque alla sfera statuale, non potendo l’ente beneficiare degli esiti di un’attività dalla quale, in luogo dell’applicazione della corrispondente sanzione interdittiva, è stato estromesso.
Né può farsi leva su quest’ultima disposizione, per accreditare la tesi -sostenuta nei ricorsi- che il profitto del reato tratto dall’ente collettivo debba sempre essere inteso come “utile netto”, e ciò sulla base del rilievo della sostanziale coincidenza tra l’attività proseguita sotto la gestione commissariale e quella oggetto di incriminazione. Si omette, invero, di considerare che l’intervento del commissario giudiziale determina una netta cesura della pregressa attività illecita e non si pone in continuità con questa. Significativamente, peraltro, il quarto comma dell’art. 15 citato si riferisce al “profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” e non al “profitto derivante dal reato”.
Le stesse ragioni inducono a ritenere priva di consistenza l’ulteriore argomentazione dei ricorrenti, con riferimento specifico al caso in esame, circa la prosecuzione del servizio di smaltimento dei rifiuti nella regione Campania sotto la direzione e il coordinamento esclusivi del Commissario delegato, dopo la risoluzione dei contratti d’appalto disposta con d.l. n. 245/05 convertito nella legge n. 21/06, per inferirne che proprio la prosecuzione dell’attività in tutto omogenea a quella oggetto dei contratti di appalto stipulati con l’ATI confermerebbe che i corrispondenti profitti non possono che essere calcolati, nell’uno e nell’altro caso, sulla base del principio economico-contabile.  
6b- La delineata nozione di profitto del reato s’inserisce -certo- validamente, senza alcuna possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita.
Può anche accadere, però, di dovere distinguere da quest’ultima, specialmente nel settore della responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica, l’attività lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato.
E’ di agevole intuizione, infatti, la diversità strutturale tra l’impresa criminale - la cui attività economica si polarizza esclusivamente sul crimine (si pensi ad una società che opera nel solo traffico di droga) - e quella che opera lecitamente e soltanto in via episodica deborda nella commissione di un delitto.
Deve, inoltre, considerarsi che un comportamento sanzionato penalmente, dal quale derivi l’instaurazione di un rapporto contrattuale, può avere riflessi diversi sul medesimo.
Più nel dettaglio, nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col negozio giuridico (c.d. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca.
Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.
E’ il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un “reato contratto”, considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in  danno dell’altra. Trattasi, quindi, di un “reato in contratto” e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del profitto illecito tratto dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento.
Sussistono, perciò, ipotesi in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto del reato, così come illustrato al punto che precede, può subire, per così dire, una deroga o un ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che viene in considerazione.
Ciò è evidente, in particolare, come si è detto, nell’attività d’impresa impegnata nella dinamica di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, in cui può essere difficile individuare e distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti.
V’è, quindi, l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile).
S’impone, pertanto, la scelta di sottrarre alla confisca quest’ultimo corrispettivo che, essendo estraneo all’attività criminosa a monte, è distonico rispetto ad essa.
In sostanza, non può sottacersi che la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi, l’ente collettivo di riferimento.
Più concretamente, in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur acquisito a seguito di aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l’appaltatore che, nel dare esecuzione agli obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo, che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure.
D’altra parte, non va sottaciuto che, in base alla previsione di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01, la confisca del profitto del reato non va disposta per quella “parte che può essere restituita al danneggiato”. Costui quindi ha diritto di riottenere, fatte salve le ulteriori pretese risarcitorie, ciò di cui è stato privato per effetto dell’illecito penale subito. Nella peculiarità che caratterizza il rapporto sinallagmatico, si verifica una situazione speculare alla citata previsione normativa, nel senso che la parte di utilità eventualmente conseguita ed accettata dalla  vittima va inevitabilmente ad incidere, per l’equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo corrispettivo versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell’ambito di un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatio, con la conseguenza che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale) la controprestazione ricevuta, perché non costituente profitto illecito.
Diversamente opinando, vi sarebbe un’irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto al soggetto coinvolto nell’illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione legittimamente eseguita e comunque accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la controparte fosse l’Amministrazione statale, un ingiustificato arricchimento di questa.
7- Alla luce di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve essere enunciato, ai sensi dell’art. 173/3° disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: “il profitto del reato nel sequestro preventivo funzionale alla confisca, disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/’01- nei confronti dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”.
8- Altra doglianza articolata nei ricorsi concerne la mancata imputazione, nel provvedimento di cautela reale, ad ognuno degli enti coinvolti nella  vicenda della sola porzione di profitto a ciascuno rispettivamente attribuibile.
Osserva la Corte che il rilievo non ha pregio.
Ed invero, si è precisato che la confisca per equivalente del profitto di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01 ha natura di sanzione principale e autonoma. Non v’è, peraltro, rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente tra la detta disposizione e le norme del codice penale che prevedono la stessa misura ablativa a carico delle persone fisiche responsabili del reato, fermo restando logicamente che l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto.
La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune. Il criterio d’imputazione del fatto all’ente è la commissione del reato “a vantaggio” o “nell’interesse” del medesimo ente da parte di determinate categorie di soggetti. V’è, quindi, una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel paradigma penalistico della responsabilità concorsuale. Pur se la responsabilità dell’ente ha una sua autonomia, tanto che sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile (art. 8 d. lgs. n. 231), è imprescindibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione del reato, integro in tutti gli elementi strutturali che ne fondano lo specifico disvalore, da parte di un soggetto fisico qualificato.
Non va sottaciuto, inoltre, che, nel caso in esame, viene in considerazione un raggruppamento temporaneo di imprese, nel quale il legame tra le medesime si sostanzia in  un  rapporto contrattuale basato su un mandato con rappresentanza, gratuito e irrevocabile, conferito collettivamente da più imprese ad altra “capogruppo-mandataria” legittimata a compiere, nei rapporti con la stazione appaltante, ogni attività giuridica connessa all’appalto e produttiva di effetti giuridici direttamente nei confronti delle imprese mandanti sino all’estinzione del rapporto. Non costituendo l’ATI un nuovo e autonomo soggetto giuridico, ciascuna delle imprese che vi partecipano conserva la propria autonomia anche se, sotto il profilo civilistico, tutte sono solidalmente responsabili nei confronti dell’appaltante. Gli effetti positivi del rapporto d’appalto sono voluti e perseguiti non dall’una o dall’altra società coinvolta nell’operazione, ma da tutte le società del gruppo.
Va aggiunto, per quanto specificamente qui interessa, che è postulata la responsabilità di ciascuna impresa partecipante al raggruppamento temporaneo per reati commessi da soggetti apicali o sottoposti, che funzionalmente hanno operato nell’interesse dell’ente di rispettiva appartenenza, sicché è innegabile la convergenza di responsabilità, da inquadrarsi nell’ottica del concorso.
Di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Più in particolare, perduta l’individualità storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti, all’arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi (cfr. Cass. sez. II 14/6/2006 n. 31989, Troso; 20/9/2007 n. 38599, Angelucci; 21/2/2007 n. 9786, Alfieri; 20/12/2006 n. 10838, Napoletano; 6/7/2006 n. 30729, Carere).
Sul punto si registra un orientamento giurisprudenziale solo apparentemente contrastante, secondo cui, in caso di pluralità di indagati, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente non  può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di profitto del reato a lui attribuibile, sempre che tale quota sia individuata o risulti chiaramente individuabile (cfr. Cass. sez. VI 23/6/2006 n. 25877; sez. VI 5/6/2007 n. 31690; sez. VI 14/6/2007 n. 30966). E’ chiaro quindi che, ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti.  
9- Non ha fondamento l’ulteriore argomento introdotto dalla ricorrente “I. spa” che, facendo leva sul disposto di cui al quarto comma dell’art. 46 del decreto n. 231/’01, sostiene la non praticabilità della contestuale applicazione della misura cautelare interdittiva e di quella reale.
E’ vero che la richiamata norma, in deroga alla regola generale posta dall’art. 14, prevede espressamente la non cumulabilità delle “misure cautelari”. Deve, però, ritenersi che tale espressione, in base a una lettura sistematica e coordinata della normativa, sia riferita alle sole misure interdittive e non coinvolga anche la cautela reale.
L’impianto della sezione IV del decreto n. 231/’01, avuto riguardo all’aspetto contenutistico delle relative norme, può essere diviso in due parti: la prima è costituita dalle norme contenute negli articoli dal 45 al 52, che disciplinano chiaramente le misure interdittive, quanto ai presupposti che le legittimano, ai criteri di scelta, al procedimento di applicazione, agli adempimenti esecutivi, all’eventuale revoca o sostituzione, alla durata, alle impugnazioni; la seconda parte (artt. 53 e 54) disciplina, in maniera esaustiva ed autonoma, anche attraverso l’espresso richiamo delle corrispondenti norme codicistiche, i sequestri (preventivo e conservativo) e non è -pertanto- estensibile al sequestro preventivo la norma di cui al quarto comma del precedente art. 46.
Quest’ultima disposizione è raccordata alle altre che la precedono nello stesso articolo, a quelle dell’art. 45 e, sia pure in deroga, a quella di cui al terzo comma dell’art. 14, disposizioni tutte queste che, in modo chiaro, disciplinano le cautele o le sanzioni interdittive.
10- Deve ora verificarsi la tenuta, sul piano della legittimità, della pronuncia di riesame oggetto dei proposti ricorsi.
Il percorso argomentativo su cui questa riposa, pur dando atto dei peculiari aspetti fattuali della vicenda esaminata, sviluppa considerazioni giuridiche parziali e riduttive in ordine al concetto di “profitto”, non ne recepisce la nozione così come innanzi specificamente delineata e, facendo leva sul mero dato dei gravi inadempimenti contrattuali delle imprese affidatarie, finisce con l’individuare le utilità confiscabili in maniera astratta, trascurando di verificare la sussistenza, in concreto, del necessario rapporto causale fra illecito e vantaggio conseguito.
La voce di profitto più consistente è quella relativa alla tariffa di smaltimento dei rifiuti effettivamente incassata dall’ATI (€ 301.641.238,00). Al riguardo, il giudice del riesame ritiene semplicisticamente confiscabile per intero tale somma, per essere state disattese, attraverso le postulate condotte fraudolenti, le aspettative della stazione appaltante circa la puntuale esecuzione della complessa e articolata attività di smaltimento, da apprezzarsi nella sua unitarietà. Trattasi di argomento generico che non si fa carico di verificare se l’Amministrazione pubblica abbia o no comunque tratto una qualche utilità, sia pure parziale, dal servizio prestato dall’ATI, che non è stato connotato costantemente di illiceità e si è protratto per lungo periodo, senza alcuna formale contestazione da parte dell’Amministrazione beneficiaria in relazione, quanto meno, a quella parte di attività non dissimulata. Non può rientrare, inoltre, nella voce profitto l’eventuale IVA versata sulle somme incassate.
Scarsa chiarezza si riscontra nella imposizione del vincolo d’indisponibilità sui crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni e non ancora incassati per un importo di € 141.701.456,56. Nella parte motiva del provvedimento genetico della misura, infatti, si parla di “vincolo per equivalente”, laddove nella parte dispositiva si orienta equivocamente il sequestro sui “documenti rappresentativi dei crediti” o sulla “maggiore o minore somma nell’importo da determinarsi in sede di esecuzione”. Osserva sul punto la Corte che l’imputazione a profitto di semplici crediti, anche se certi, liquidi ed esigibili, non può essere condivisa, trattandosi di utilità non ancora effettivamente conseguite. Il provvedimento di confisca (e quindi quello di sequestro ad essa funzionale) dovrebbe in questo caso ricadere sui crediti stessi (confisca diretta), considerato che la confisca di questi per equivalente porrebbe il destinatario nella condizione di vedersi privato di un bene già a sua disposizione in ragione di una utilità non ancora concretamente realizzata.
Non è dato comprendere dal provvedimento impugnato e neppure da quello genetico la relazione che intercorre tra il contestato delitto di truffa e l’importo di 53.000.000,00 euro, corrispondente a quello anticipato dal Commissariato per la costruzione degli impianti di CDR nelle province diverse da quella di Napoli. Sembrerebbe essersi in presenza di una eventuale pretesa restitutoria o risarcitoria della controparte pubblica e non di un profitto da reato. Né può propriamente parlarsi, per quello che emerge, di “risparmio di spesa”, presupponendo tale concetto un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta di truffa. E’ necessario chiarire in maniera puntuale la situazione di fatto e, in particolare, il rapporto di immediatezza causale tra il reato e la voce di asserito profitto in esame, per trarne le corrette conseguenze.
Analoghe considerazioni vanno fatte con riferimento alle spese sostenute (€ 99.092.457,23) dal Commissariato, a seguito dei verificatisi inadempimenti, per lo smaltimento fuori regione dei RSU e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR.
Quanto alla somma di € 51.645.689,90, corrispondente al mancato deposito cauzionale, non si riesce a cogliere il collegamento causale diretto con l’illecito e non è chiarito se, in sostituzione della cauzione, le imprese aggiudicatarie abbiano o no offerto fideiussioni bancarie.
Quanto al sequestro della somma, non determinata, corrispondente all’aggio riconosciuto all’ATI per l’attività di riscossore diretto delle somme da consegnare - poi - al Commissariato e ai Comuni aventi diritto, il discorso giustificativo dell’ordinanza impugnata è ancora più oscuro. Non si comprende se, in dipendenza delle condotte truffaldine, gli enti abbiano o no incassato l’aggio. Sembrerebbe di no ed allora, in questo caso, si porrebbe la questione della confiscabilità, nella forma per equivalente, di beni futuri, non ancora entrati a fare parte del patrimonio dell’ente al momento dell’applicazione della misura ablativa. In quest’ultima ipotesi, deve ritenersi non confiscabile un profitto solo atteso o sperato.
Anche la somma di € 103.404.000,00, corrispondente al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra, non sembra potersi considerare, allo stato, profitto del reato, considerato che pacificamente la realizzazione di dette opere è stata fronteggiata con capitali delle società appaltatrici. Il giudice a quo giustifica il sequestro funzionale alla confisca di valore, perché, a seguito della risoluzione per legge dei contratti, per effetto del d.l. n. 245/’05, e in base a quanto previsto dal nuovo bando di gara, graverebbe sulla nuova affidataria l’onere di rimborsare al gruppo “Impregilo” la citata somma. Il giudice a quo, inoltre, omette di precisare se tale rimborso abbia o no avuto seguito e non si fa carico di verificare, al fine di una più esatta determinazione del profitto del reato, l’eventuale utilitas concretamente tratta dall’Amministrazione pubblica, nella cui disponibilità, per espressa previsione del richiamato d.l. 245, è stato posto il termovalorizzatore di Acerra, per completarne la realizzazione.
L’ordinanza impugnata deve, pertanto, essere annullata con rinvio, per nuovo esame, al Tribunale di Napoli, che dovrà, uniformandosi al fissato principio di diritto, tenere conto dei rilievi di cui innanzi.

P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Napoli per nuovo esame.Così deciso in Roma il 27/3/2008.
ll Presidente
(Torquato Gemelli)Il Consigliere est.
(Nicola Milo)
 
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