Il Tribunale di Monza, sez. dist. Desio, con sentenza 8.11.2005, dichiarò C.M.V., direttore del quotidiano "(Omissis)", responsabile del delitto di cui all'art. 57 c.p. in relazione all'articolo a firma di S.V. "(Omissis)", ritenuto lesivo della reputazione di R.F., all'epoca sindaco della capitale.
La posizione di S. venne separata e successivamente archiviata a seguito di delibera di insindacabilità pronunziata, ai sensi dell'art. 68 Cost., dalla Camera di appartenenza.
La Corte di appello di Milano, investita della impugnazione proposta nell'interesse del solo C., con sentenza 1.6.2007, in riforma della pronunzia di primo grado, ha assolto l'imputato perché il fatto non sussiste. Secondo la Corte territoriale, la natura sostanziale dell'art. 68 Cost., in quanto configurante un vero e proprio diritto del parlamentare, determina la insussistenza del delitto di diffamazione (nel caso in esame, a mezzo stampa) e dunque la insussistenza del delitto di omesso controllo da parte del direttore del periodico.
Ricorre per cassazione il difensore della P.C. R. e deduce violazione di legge per errata e illogica applicazione dell'art. 68 Cost. e dell'art. 119 c.p..
A parere del ricorrente, l'insindacabilità parlamentare ex art. 68 Cost. (ed ex L. n. 140 del 2003) è considerata dalla dottrina ora causa di incapacità penale, ora causa di giustificazione, ora causa di non punibilità, ora mero limite alla giurisdizione ordinaria.
La giurisprudenza di legittimità citata dalla Corte di appello di Milano non è condivisibile perché assimila la prerogativa parlamentare alle cause di giustificazione di carattere oggettivo, ritenendo che non ci si trovi di fronte a un soggetto semplicemente non punibile, ma a un fatto oggettivamente non illecito. Una simile impostazione, tuttavia, non è accettabile perché si tradurrebbe in una inammissibile compressione dei diritti delle PPOO. In realtà, ratio della norma è solo quella di consentire al parlamentare di esprimere liberamente le sue opinioni politiche e di esercitare, in tal modo, il suo mandato. Conseguentemente, il parlamentare viene tutelato anche a fronte di espressioni travalicanti i limiti imposti al corretto esercizio del diritto di critica politica. E tuttavia quella stessa condotta, se posta in essere da altri, sarebbe punibile.
Nel caso in esame, l'attribuzione al R. di fatti non veri e di valenza negativa ha natura indubbiamente diffamatoria e chiunque altro (che non fosse un parlamentare) sarebbe stato condannato per tale condotta. Si tratta pertanto di un comportamento che continua a sostanziare l'elemento della illiceità penale, il quale comportamento, tuttavia, non determina conseguenze in quanto la condotta predetta viene tenuta da un soggetto esercitante il mandato parlamentare, che conferisce una particolare immunità al soggetto in questione. La "copertura" dunque è offerta solo a coloro che rivestono la qualifica parlamentare e determina semplicemente una causa personale di esclusione della pena, lasciando sussistere la illiceità penale del fatto e, dunque, l'esistenza del reato.
Non deve pertanto trovare applicazione, come viceversa erroneamente ritiene la Corte di appello, l'art. 119 c.p., comma 2, ma il comma 1 del medesimo articolo, che non consente la estensione ai concorrenti nel reato delle circostanze soggettive che escludono la pena per taluno dei concorrenti.
Va anche valutata la ricordata L. n. 140 del 2003, art. 3, comma 2 che dispone che "quando in un procedimento giurisdizionale è rilevata o eccepita l'applicabilità dell'art. 68 Cost., comma 1, il giudice dispone, anche d'ufficio, se del caso, l'immediata separazione del procedimento stesso da quelli eventualmente riuniti.
Ora è di tutta evidenza che la separazione ha senso proprio in ragione della non comunicabilità della prerogativa parlamentare agli altri imputati non parlamentari.
Viceversa la Corte milanese assume che la "causa di giustificazione" è estensibile alle posizioni connesse (e dunque si comunica al C.) ex art. 119 c.p., comma 2. L'assunto è errato anche sotto altro angolo visuale, atteso che comunque il C. non è concorrente nel reato con S., ma è chiamato a rispondere di un autonomo reato (art. 57 c.p.) a fronte del reato (art. 595 c.p.) a suo tempo ascritto al parlamentare. A ben vedere poi, il richiamo al precedente di legittimità operato dai giudici di appello è, proprio per tale ragione, non calzante, atteso che, nella citata sentenza, la Corte di cassazione si occupò di un'ipotesi di concorso in diffamazione (commessa mediante il mezzo televisivo) e non del reato di omesso controllo ex art. 57 c.p.. E tanto è vero che i due reati (ex artt. 57 e 595 c.p.) sono autonomi, che la stessa Corte di legittimità ha, ad es., ritenuto che la remissione di querela presentata nei confronti del giornalista imputato di diffamazione non spieghi alcun effetto nei confronti del direttore del giornale, chiamato a rispondere della fattispecie colposa ex art. 57 c.p..
Analogo ragionamento si faceva, prima della abrogazione dell'art. 577 c.p.p., a proposito della impugnazione ad opera della PC con riferimento ai delitti di ingiuria e diffamazione, diritto che si riteneva non esteso alla separata fattispecie criminosa ex art. 57 c.p..
Il ricorso, non solo non è inammissibile, ma è fondato.
Esso non è inammissibile (come pretende la difesa dell'imputato) in quanto, essendo stato proposto dalla PC, non poteva che far riferimento agli effetti civili della sentenza. Invero, a parte il fatto che l'impugnazione è stata proposta dopo l'entrata in vigore della L. n. 46 del 2006, essa ha comunque riferimento al delitto ex art. 57 c.p., in relazione al quale la parte privata non ha mai avuto altro diritto di impugnazione, se non per gli interessi civili.
Tanto chiarito, conviene prendere le mosse dalla considerazione, appena formulata (e sottolineata dal ricorrente) che il C. non è imputato del delitto (doloso) di diffamazione in concorso con lo S., ma del distinto e autonomo delitto (colposo) di cui all'art. 57 c.p..
Ebbene, la giurisprudenza di questa Corte è concorde nel ritenere (da ultimo: ASN 200319827-RV 2244404) che il reato di diffamazione a mezzo stampa rappresenti in realtà l'evento del reato di omesso controllo da parte del direttore del giornale. Correttamente dunque la ricorrente PC pone in evidenza come non doveva esser fatto nessun rinvio alla norma di cui all'art. 119 c.p., che, come è noto, riguarda la doverosa estensione delle circostanze oggettive (intendendosi circostanze in senso lato - ex art. 59 c.p. - e dunque anche quelle che "escludono la pena") a tutti coloro che abbiano concorso nel medesimo reato.
Ciò nonostante, se la condotta commissiva addebitata allo S. non avesse carattere di antigiuridicità penale, non potrebbe in ogni caso essere punibile neanche la condotta omissiva addebitata al C., per la buona ragione che non sussistendo l'evento-reato (la diffamazione), non potrebbe sussistere neanche il presupposto-reato (il mancato controllo), che in tanto si realizza, in quanto il soggetto (il direttore), con il suo comportamento ispirato a imperizia, ovvero a imprudenza, ovvero ancora (e più spesso) a negligenza, ha consentito che altri offendesse, con un articolo o altro scritto pubblicato sul giornale, la reputazione di una o più persone.
È questo, come si è visto, "il punto forte" della sentenza di secondo grado che evidentemente fa riferimento a una recente pronunzia di questa sezione (ASN 200638944-RV 235332), con la quale si è affermato che la speciale causa di giustificazione prevista dall'art. 68 Cost., comma 1, in favore del parlamentare che esprima opinioni nell'esercizio delle proprie funzioni, configura una ipotesi di legittimo esercizio di un diritto (art. 51 c.p.) ed integra, come tale, una causa di giustificazione. Conseguentemente, per la suddetta pronunzia, la condotta sarebbe in sé lecita, in quanto espressione dell'esercizio di un diritto; essa dunque non configurerebbe una mera causa di esclusione della colpevolezza (la quale lascerebbe sussistere la oggettiva illiceità del fatto), ma avrebbe un vero e proprio effetto scriminante (per elisione della stessa antigiuridicità). Come ulteriore conseguenza, ha ritenuto la predetta sentenza, che la insindacabilità delle espressioni usate dal parlamentare ex art. 68 Cost., in quanto fondata su di una obiettiva causa di esclusione della antigiuridicità, dovesse giovare anche al concorrente nel reato.
Ebbene, per le considerazioni sopra espresse (e se si accettasse il principio di diritto appena sintetizzato), non dovrebbe poi avere (più) pratico rilievo la circostanza che la condotta dell'extraneus sia - come nel caso della appena citata sentenza di legittimità - concorsuale rispetto a quella del parlamentare, ovvero - come nel caso in esame - ne rappresenti, ex art. 57 c.p., la conditio sine qua non, vale a dire l'ineliminabile antecedente logico, fattuale e giuridico.
E tuttavia è proprio dal principio appena enunziato che è lecito dissentire, anche (ma non solo) alla luce della recente sentenza (390/07) della Corte cost.le, sentenza che va a incidere sulla "confinante" materia delle cc.dd. intercettazioni indirette (rectius casuali) nei confronti dei parlamentari, atteso che, come è noto, anche in tal caso, viene in rilievo la applicazione dell'art. 68 Cost. (e della L. attuativa n. 140 del 2003) per quel che attiene la eventuale estensione "ai laici" delle garanzie previste per i parlamentari: tale estensione, come è noto, la Corte ha ritenuto contro Constitutionem (tanto che ha dichiarato la illegittimità costituzionale della L. n. 140 del 2003, art. 6, commi 2, 5, 6).
Ebbene il Giudice delle leggi ha chiarito - se pur ce ne fosse stato bisogno - che il sistema delle immunità e delle prerogative parlamentari è ispirato unicamente dalla esigenza di preservare la funzione (appunto) parlamentare da indebite interferenze o da illeciti condizionamenti, di talché le disposizioni che tali immunità sanciscono sono poste a tutela del buon andamento del "meccanismo" che regola le Camere; solo per tal motivo, dunque, l'ordinamento consente deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. In altre parole, ciò che rileva è la strumentalità della norma di salvaguardia, che non è certo volta a garantire interessi sostanziali del singolo parlamentare (riconoscendogli una sorta di jus diffamandi, vel injuriandi), ma ad assicurare protezione allo svolgimento di una delicata funzione politica, la quale deve potersi esplicare con la massima libertà, vale a dire senza condizionamenti (anche meramente potenziali) e pressioni da parte di soggetti estranei alla dinamica parlamentare; e ciò anche se, in tal maniera, si pongono a rischio o addirittura si sacrificano diritti e interessi altrui.
Il parlamentare, dunque, nei casi individuati dalle norme sopra ricordate, ha la possibilità (non il diritto) di dire impunemente il falso, ma ha poi il diritto di non essere per questo giudicato.
A tutto quanto premesso è da aggiungere che, se si volesse, viceversa, ricondurre la ipotesi ex art. 68 Cost. al mero diritto di critica (così la ricordata sentenza di questa sezione n. 38944 del 2006), allora sarebbe necessario che di tale diritto si tenessero presenti i limiti, come enucleati dalla giurisprudenza di legittimità. E se, come è noto, il diritto di critica si distingue da quello di cronaca essenzialmente in quanto il primo non si concretizza, come l'altro, nella narrazione di fatti, bensì nell'espressione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva (posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata sull'interpretazione, necessariamente soggettiva, di fatti e comportamenti: cfr. ASN 199900935-RV 212342), non di meno esso presuppone la certa sussistenza del fatto oggetto di critica e (va da sè) la certa riferibilità del predetto fatto al criticato (ASN 200220474-RV 221904); è ovvio infatti che opinioni e valutazioni espresse, in riferimento a un fatto inesistente o a una condotta non tenuta dal soggetto su cui la critica si appunta, rappresentano nient'altro che una gratuita aggressione all'altrui patrimonio morale.
Viceversa, il parlamentare, quando esprime opinioni o voti nell'esercizio delle sue funzioni (art. 68 Cost., comma 1), vale a dire quando presenta disegni o proposte di legge, emendamenti, ordini del giorno, mozioni, risoluzioni, interpellanze, interrogazioni, quando interviene nelle assemblee e negli altri organi delle Camere e comunque quando tiene un comportamento comunicativo connesso alla funzione parlamentare (L. n. 140 del 2003, art. 3, comma 1) è, per ciò solo (e dunque, come si è visto, anche se mente e/o diffama), non punibile. Ciò che lo manda esente da pena non è dunque l'esercizio legittimo di un diritto costituzionalmente tutelato (quello, appunto, di critica), ma, come si diceva, la esigenza - cui il legislatore non sa approntare altra tutela che quella della immunità del dichiarante - di poter rendere dichiarazioni (in sede parlamentare o "assimilata") senza il rischio di essere censurato da chi si ritenga diffamato e quindi senza il rischio di essere chiamato a rispondere innanzi all'A.G.. A ben vedere dunque, l'istituto, più che richiamarsi al diritto di critica, è in qualche modo assimilabile alla causa di non punibilità ex art. 598 c.p., in quanto, come è noto, la libertas convicii è riconosciuta per ragioni strettamente funzionali all'espletamento del munus difensivo, ma non determina la liceità dell'offesa, tanto che - ferma la non perseguibilità dell'offensore - il giudice può comunque ordinare la cancellazione delle espressioni offensive e disporre che l'offeso sia risarcito (art. 598 c.p., comma 2, art. 89 c.p.c.). Insomma, l'art. 598 c.p., come ha avuto modo di affermare la Corte cost.le (sent. 128/79), non attribuisce affatto un diritto all'ingiuria, ma tutela la libertà della difesa, che sarebbe non efficiente e quindi non libera da preoccupazioni di possibili incriminazioni per offese all'altrui onore o decoro.
La medesima logica (e una ratio assimilabile) regola gli istituti previsti dall'art. 68 Cost. e dalla L. n. 140 del 2003, art. 3.
D'altronde, come è ovvio, in un ordinamento giuridico, anche le cause di esclusione dell'antigiuridicità non dovrebbero essere multiplicanda sine necessitate e, pertanto, una volta accertata la sussistenza (ex art. 21 Cost. e art. 51 c.p.) del diritto di critica per il cittadino, non vi sarebbe necessità alcuna di costruire un analogo istituto "riservato" al parlamentare.
Anche in base a tali considerazioni, dunque, deve giungersi alla conclusione che il quid pluris che è riconosciuto al senatore e al deputato in tema di libertà di espressione, da un lato, non incontra i limiti del diritto di critica, dall'altro, ha un'efficacia di mera esclusione (per ragioni di equilibrio "politico" e di funzionalità istituzionale) della punibilità.
A tutto ciò consegue che, quando il parlamentare, nell'esercizio delle sue funzioni e superando i limiti del diritto di critica, esprima opinioni lesive dell'altrui reputazione, egli non agisce in presenza di una causa di giustificazione, che elide l'antigiuridicità, ma si avvale (nei limiti per altro di cui alle sentenze della Corte cost. 10/00, 11/00, 289/01 e successive) di una mera causa di non punibilità, espressamente prevista dall'ordinamento a tutela della funzione parlamentare. Ne consegue ulteriormente che tale (soggettiva) causa di esclusione della punibilità, non giova né all'eventuale concorrente nel reato, né - nel caso in cui la condotta diffamatoria abbia avuto come mezzo di diffusione la stampa - al direttore del giornale che, violando il precetto di cui all'art. 57 c.p., non abbia impedito la pubblicazione della notizia diffamatoria.
Nel caso in esame, la valenza diffamatoria dell'articolo "incriminato" è stata individuata dai giudici del merito, non in uno scorretto esercizio del diritto di critica in quanto tale (in tema di polemica politica, è pacifico che le espressioni possano essere anche molto pungenti e i toni molto aspri, di talché dare del talebano a un avversario politico, non può, di per sé, considerarsi locuzione violatrice del limite della continenza), ma nella falsità della notizia storica posta alla base della valutazione critica (si legge nella sentenza di appello che l'accusa mossa al R. era priva di fondamento, atteso che la concessione originariamente rilasciata per l'abbattimento della cd. "(Omissis)", era stata poi tempestivamente revocata). E pertanto, se per lo S., autore dell'articolo diffamatorio, era intervenuta delibera di insindacabilità della Camera di appartenenza, tale delibera nessun effetto doveva avere, per tutte le ragioni sopra ricordate, sulla posizione del direttore del giornale, chiamato a rispondere ex art. 57 c.p..
In accoglimento, dunque, del ricorso della PC, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice civile competente in grado di appello. In ordine alle spese in favore della PC deciderà il predetto giudice di rinvio.
PQM
La Corte annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, che provvederà in ordine alle spese dell'intero giudizio.