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L'ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite circa il ricorso per cassazione avverso la decisione del Tribunale del Riesame di Napoli sul sequestro da 750 milioni di euro disposto nell'ambito del procedimento sullo smaltimento dei rifiuti campani.
Corte Suprema di Cassazione
Sezione II Penale
Ordinanza n. 4018/2008
(ud. 23 gennaio 2008)
(dep. del 24 gennaio 2008)
Motivi della decisione
Con decreto del 26.6.2007, il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli dispose il sequestro preventivo, finalizzato alla confisca per equivalente, nei confronti delle società I. S.p.A., F. S.p.A., F. C. S.p.A. e F. I. S.p.A., componenti dell'Associazione Temporanea di Imprese, aggiudicataria dei contratti per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani per le province della Campania, ai sensi degli artt. 19 e 53 D.Lgs. 231/2001, quale profitto di reato, delle seguenti somme: - Euro 53.000.000,00 pari a quanto anticipato dal Commissariato per la costruzione degli impianti delle province campane diverse da quella di Napoli; - Euro 301.641.238,98 relativo alla tariffa di smaltimento regolarmente incassata (ovvero la diversa somma effettivamente incassata a tale titolo da determinarsi in sede di esecuzione del provvedimento); - Euro 141.701.456,56 portati dai documenti rappresentativi di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni (ovvero la diversa somma da determinarsi in sede di esecuzione del provvedimento); - Euro 99.092.457,23 relativo a spese sostenute, per lo smaltimento di R.S.U. e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR, dal Commissariato, ma contrattualmente a carico delle società affidatane (ovvero la diversa somma effettivamente incassata a tale titolo da determinarsi in sede di esecuzione del provvedimento); - Euro 51.645.689,90 pari al
mancato deposito cauzionale; - quanto percepito a titolo di aggio per l'attività di riscossione svolta per conto del Commissariato e dei Comuni nell'importo da determinarsi in sede di esecuzione; - Euro 103.404.000,00 pari al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra sino al 31.12.2005.
Contestualmente il G.I.P. del Tribunale di Napoli applicò alle menzionate società la misura interdittiva di cui all'art. 9 comma 2 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'illecito di cui all'art. 24 dello steso D.Lgs. con riferimento al reato di cui agli artt. 81, 110, 640 commi 1 e 2 n. 1 cod. pen.
Avverso il provvedimento di sequestro F. S.pA., F. C. S.p.A., F. I. S.p.A. e I. S.p.A., proposero istanze di riesame, ma il Tribunale di Napoli, Sezione VIII penale, con ordinanza del 24.7.2007, le respinse.
Ricorrono per cassazione i difensori e procuratori delle menzionate società.
I difensori e procuratori di F. S.pA e F. C. S.p.A., con un unico atto, richiamando anche quanto dedotto dai difensori di F. I. e I., deducono:
1. violazione della legge sostanziale e processuale (per omessa motivazione ai sensi dell'art. 125 comma 3 cod. proc. pen.) in relazione alla nozione di profitto di cui agli arti 19 e 53 D.Lgs. 231/2001 in quanto il Tribunale del riesame avrebbe disatteso la pronunzia di questa Corte, Sez. VI, n. 32627 del 23.6.2006 dep. 2.10.2006, la quale aveva affermato che il profitto confiscabile nell'ipotesi di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 "può corrispondere all'utile netto ricavato” dalla società, senza peraltro motivare il diverso orientamento; secondo i ricorrenti la fondatezza dell'interpretazione offerta nella citata sentenza deriva anzitutto dal tenore letterale dell'art. 19 D.Lgs. 231/2001; inoltre l'inserimento nel concetto di profitto di crediti non ancora riscossi e le spese non sostenute si porrebbe in contrasto con l'insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte, secondo il quale per profitto si deve intendere "l'utile ottenuto in seguito alla commissione del reato" (Cass. Sez. Un. Sent. n. 41936 del 25.10.2005); non potrebbero essere utilizzati i canoni interpretativi del profitto riferiti all'ambito della responsabilità individuale per la palese diversità dei principi ispiratori della responsabilità degli enti, nonché per la dicotomia tra prezzo e profitto che supererebbe il disposto di cui all'art. 240 cod. pen. che si riferisce al prodotto o al profitto del reato; poiché nel caso in esame non vi sarebbe stato alcun utile non vi sarebbe alcun profitto da confiscare; nel D.Lgs. 231/2001 il profitto rappresenterebbe un tertium genus rispetto ai concetti di interesse e vantaggio, utilizzato non solo per definire l'oggetto della confisca, ma anche come aggravante tale da terminare (se rilevante) l'applicazione di sanzioni interdittive, come aggravante della sanzione pecuniaria per gli illeciti dipendenti da alcuni reati e come parametro per la commisurazione della sanzione pecuniaria, distinguendolo dal danno arrecato dalla condotta illecita posta in essere;
2. violazione di legge in relazione al sequestro di poste attive che non costituiscono conseguenza immediata del reato presupposto in quanto (a prescindere dalla configurabilità del reato presupposto di truffa, stante l'assenza di inganno conseguente all'ipotizzata collusione fra organi controllanti e controllati) uno dei contratti sarebbe stato perfezionato in epoca anteriore all'entrata in vigore del D.Lgs. 231/2001; inoltre se si ritiene che il risultato della condotta delittuosa sia consistito nell'aggiudicazione e nel mantenimento dei contratti di appalto, la diretta conseguenza del reato presupposto sarebbe solo la conclusione e prosecuzione dell'affare, mentre i diversi ricavi derivati dal rapporto contrattuale sarebbero conseguenza indiretta del reato presupposto, sicché la valutazione del vantaggio avrebbe dovuto essere condotta con riferimento al lucro conseguibile attraverso l'esecuzione dei contratti; in ogni caso la mancata restituzione di somme ed il mancato pagamento di debiti non sarebbero conseguenza del reato presupposto e la prima potrebbe al più integrare il delitto di appropriazione indebita e non di truffa;
3. violazione di legge per la mancata indicazione dei beni da sottoporre a sequestro, limitandosi il decreto di sequestro a ad una parziale quantificazione dei beni in parte da individuare in fase esecutiva e l'ordinanza impugnata ha taciuto su tale doglianza svolta nell'istanza di riesame. Il difensore e procuratore di F. I., dopo aver premesso una ricostruzione dei fatti (negando che l'emergenza rifiuti a Napoli sia conseguenza dell'attività del concessionario) e contestato la configurabilità del reato presupposto, deduce:
1. violazione della legge sostanziale e processuale (per omessa motivazione ai sensi dell'art. 125 comma 3 cod. proc. pen.) in relazione alla nozione di profitto di cui agli arti 19 e 53 D.Lgs. 231/2001 in quanto il Tribunale del riesame avrebbe inteso la nozione di profitto nel senso di ricavo anziché nel senso di utile netto (vale a dire il ricavo dedotti i costi sostenuti) disattendendo la sentenza di questa Corte, Sez. VI, n. 32627 del 23.6.2006 dep. 2.10.2006, la quale aveva affermato che il profitto confiscabile nell'ipotesi di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 “può corrispondere all'utile netto ricavato” dalla società, orientamento seguito anche dalla giurisprudenza di merito; non potrebbero essere utilizzati i canoni interpretativi del profitto riferiti all'ambito della responsabilità individuale per la palese diversità dei principi ispiratori della responsabilità degli enti, anche in considerazione che nella responsabilità degli enti ci si trova in presenza di attività (quale quella d'impresa) in sé lecita e riconosciuta dall'ordinamento e non di attività strutturalmente illecite; poiché in tale contesto il reato assumerebbe carattere episodico, allo stesso dovrebbe conseguire una reazione proporzionata che permetta la conservazione di una realtà economica comunque utile e che riverbera su soggetti estranei; infatti l'art. 16 comma 3 D.Lgs. 231/2001 distinguerebbe tra ipotesi di criminalità d'impresa e quelle di impresa criminale (quando l'ente o una sua struttura organizzativa è stabilmente utilizzata allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione di determinati reati); nel caso in esame l'attività delle società non potrebbe essere considerata intrinsecamente illecita, anche perché la stessa è proseguita, per disposizione del D.L. 30 novembre 2005, n. 245, convertito con legge 27 gennaio 2006, n. 21, sotto la direzione del Commissario delegato, sicché non solo dopo tale decreto legge è certamente lecita, ma, essendo coincidente a quella svolta in precedenza, ne conseguirebbe la liceità anche di quella precedente; inoltre poiché le contestazioni riguardano le modalità di esecuzione del contratto e non l'aggiudicazione della gara ne conseguirebbe l'impossibilità di qualificare come strutturalmente illecita l'attività; a ciò si aggiungono considerazioni di carattere sistematico che militerebbero a favore della tesi per la quale il profitto di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 coincide con l'utile netto: anzitutto il profitto rappresenterebbe un tertium genus rispetto ai concetti di interesse e vantaggio, utilizzato non solo per definire l'oggetto della confisca, ma anche come aggravante tale da terminare (se rilevante) l'applicazione di sanzioni interdittive, come aggravante della sanzione pecuniaria per gli illeciti dipendenti da alcuni reati e come parametro per la commisurazione della sanzione pecuniaria, distinguendolo dal danno arrecato dalla condotta illecita posta in essere, sicché non potrebbe essere inteso nel senso di ricavo globale, ma quale guadagno o risultato economico positivo conseguito dall'ente; nel D.Lgs. 231/2001 la confisca avrebbe natura sanzionatoria, essendo compresa fra le "sanzioni amministrative" e tale natura è stata affermata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. II sent. n. 9829 del 16.2.2006); se di sanzione si tratta è necessaria una lettura costituzionalmente orientata con rispetto del principio di legalità con i corollari di determinatezza, tassatività e precisione, oltre che di proporzionalità così da evitare eccessi sanzionatori; l'ablazione del profitto,
prevista anche per l'ipotesi di assenza di colpevolezza dell'ente (nella quale la confisca manterrebbe al natura di misura di sicurezza), imporrebbe un'interpretazione restrittiva del termine profitto, così come la previsione di confisca nell'ipotesi di "patteggiamento"; tale lettura conseguirebbe altresì alla considerazione che la parte di ricavo già spesa non sarebbe suscettibile di utilizzo o reinvestimento in attività pericolose; delimitato il concetto di profitto alla conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato, le somme sequestrate non potrebbero essere considerate profitto di reato: la somma di Euro 53.000.000,00 anticipata dal Commissariato deve essere decurtata del controvalore dei lavori e delle prestazioni eseguite pari a Euro 36.000.000,00, la somma di Euro 301.641.238,98 o quella diversa incassata dovrebbe essere limitata alla parte in cui la tariffa ecceda le spese di smaltimento ed in ogni caso dovrebbe essere esclusa l'Iva già versata all'erario, altrettanto per la somma di Euro 141.701.456,56 portati dai documenti rappresentativi di crediti certi, liquidi ed esigibili vantati nei confronti dei Comuni (ovvero la diversa somma da determinarsi in sede di esecuzione del provvedimento) dovrebbe essere decurtata dei costi sostenuti e dell'Iva, escluso comunque quanto incassato e trattenuto dal Commissariato (pari ad Euro 33.743.101,32 all'epoca del riesame), la somma di Euro 99.092.457,23 relativo a spese sostenute, per lo smaltimento di R.S.U. e delle frazioni a valle della lavorazione degli impianti di CDR, dal Commissariato, ma contrattualmente a carico delle società affidatarie non è voce di profitto ma di danno e comunque errata nell'ammontare in quanto fa riferimento anche al credito vantato da E. anche per attività antecedente a quella dell'affidataria, la somma di Euro 51.645.689,90 pari al mancato deposito cauzionale non rientra nella nozione di profitto ma consegue alla sostituzione della cauzione con fideiussione consentita dalle norme, la somma percepita a titolo di aggio per l'attività di riscossione svolta per conto del Commissariato e dei Comuni sarebbe indeterminata, la somma di Euro 103.404.000,00 pari al valore delle opere realizzate nella costruzione del termovalorizzatore di Acerra sino al 31.12.2005 attiene a costi relativi ad attività lecita; il sequestro inoltre avrebbe colpito le società indistintamente e senza accertamento dei benefici da ciascuna di esse asseritamene realizzati;
2. violazione della legge sostanziale e processuale (per omessa motivazione ai sensi dell'art. 125 comma 3 cod. proc. pen.) in relazione alla sussistenza dei presupposti previsti per l'applicazione della confisca per equivalente che consisterebbero nella necessità di quantificazione certa del profitto derivante da reato (costituito da beni la cui esistenza sia certa), nella dimostrata attuale impossibilità di rinvenire o apprendere i beni costituenti profitto di reato (nel caso di specie sarebbe stato apprensibile il termovalorizzatore di Acerra ed invece è stato sequestratoli valore equivalente) e nella individuazione di beni di valore equivalente anche solo attraverso una mera comparazione di massima fra il valore dei beni confiscabili e di quelli sequestrati riconducibili all'ente e non a terzi; l'ordinanza impugnata non avrebbe affrontato nessuno degli aspetti indicati benché dedotti nella richiesta di riesame.
Il difensore e procuratore di I. S.p.A. deduce:
I. violazione dell'art. 53 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'art. 19 dello stesso D.Lgs. per erronea interpretazione della nozione di profitto in quanto il provvedimento cautelare e l'ordinanza impugnata sarebbero fondati su due errori: da un lato il profitto di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 è stato identificato nella nozione di ricavo, dall'altro è stato inteso quale dato eventuale ed incerto, costituito da debiti da saldare, presunti risparmi di spesa e da spese effettuate senza alcun ritorno; citando la sentenza 23 giugno 2006 della VI Sezione penale di questa Corte, il ricorrente afferma che il profitto di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 sarebbe il profitto in senso stretto, coincidente con l'utile netto; tale interpretazione deriverebbe dall'interpretazione letterale del menzionato articolo 19 e dalla dicotomia tra prezzo e profitto di reato in contrapposizione a quella di cui all'art. 240 cod. pen. tra prodotto e profitto di reato, mancherebbe altresì (nel citato art. 19) qualunque riferimento ai beni utilizzati per commettere il reato; il profitto nel citato art. 19 sarebbe quello realizzato dall'ente come concretizzazione post factum dell'interre imprenditoriale, tanto che se nessun vantaggio economico fosse derivato dalla realizzazione del reato presupposto non sussisterebbe alcun profitto; a tale soluzione si dovrebbe pervenire anche alla luce dell'interpretazione sistematica degli artt. 19, 6 comma 5, 15 comma 4 e 17 D.Lgs. 231/2001 poiché il profitto viene confiscato anche in assenza di responsabilità dell'ente, così come del profitto conseguente alla prosecuzione dell'attività in caso di nomina di un commissario giudiziale incaricato di proseguire nella gestione societaria ed in tale caso sarebbe irragionevole la confisca del ricavo senza la deduzione dei costi; solo intendendo il profitto quale guadagno netto ha senso la confisca dello stesso anche in un rito premiale quale il patteggiamento; la confisca nel caso del D.Lgs. 231/2001 avrebbe natura anche di sanzione (essendo cosi definita dall'art. 9 sicché si imporrebbe la ragionevolezza del suo parametro commisurativo nel rispetto del principio di proporzione di cui all'art. 27 Costituzione; l'attività economica dell'ente, volta all'esecuzione degli obblighi contrattuali ed allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani sarebbe lecita e nel sistema del D.Lgs. 231/2001 il reato presupposto deve essere inquadrato nell'ambito di una più ampia attività imprenditoriale lecita svolta da un soggetto diverso rispetto alla persona fisica che ha commesso il reato e le due attività devono essere distinte; nella specie l'attività delle società impegnate nell'esecuzione del contratto di appalto è proseguita sotto la direzione e la responsabilità del commissario delegato ai sensi del D.L. 30 novembre 2005, n. 245 convertito con L. 27 gennaio 2006, n. 21; il profitto del reato deve essere un dato certo e solo l'impossibilità di apprensione dello stesso giustificherebbe la confisca per equivalente;
II. violazione degli artt. 19 e 53 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'art. 640 comma 2 cod. pen. ed all'art. 2 D.Lgs. 231/2001 in quanto sarebbero state sequestrate voci attive che non costituirebbero conseguenza immediata del reato presupposto e violazione della legge processuale (per omessa motivazione ai sensi dell'art. 125 comma 3 cod. proc. pen.); conseguenza immediata del reato sarebbero soltanto i rapporti contrattuali; peraltro alcune delle condotte sarebbe antecedenti l'entrata in vigore del D.Lgs. 231/2001;
III. violazione degli artt. 1 comma 2, 19 comma 2 e 53 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'art. 640 comma 2 cod. pen. ed all'art. 2 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'emissione di un provvedimento di sequestro indiscriminatamente rivolte nei confronti di tutte le società del gruppo ed in particolare nei confronti di Impregilo quale società controllante che non ha tratto alcun elemento patrimoniale attivo dal reato contestato e violazione della legge processuale (per omessa motivazione ai sensi dell'art. 125 comma 3 cod. proc. pen.); la misura cautelare disposta nei confronti di società controllante non potrebbe essere disposta anche nei confronti della controllante;
IV. violazione degli artt. 19 e 54 D.Lgs. 231/2001 per mancata indicazione dei beni sottoposti a sequestro limitandosi alla mera quantificazione degli stessi;
V. violazione dell'art. 53 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'omesso e/o erroneo esercizio del potere discrezionale concesso al giudice nel disporre il sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca ai sensi dell'art. 19 D.Lgs. citato, giacché se la confisca è obbligatoria tale non è il sequestro; la mancata precisazione delle esigenze cautelari determinerebbe una confisca anticipata;
VI. violazione dell'art. 46 comma 4 D.Lgs. 231/2001 in relazione all'applicazione congiunta di più misure cautelari, interdittive e cautelari reali che sarebbe vietata dalla norma predetta.
Con successiva memoria il difensore di I. S.p.A. ha sviluppato ulteriori argomenti a sostegno dei motivi di ricorso.
Il principale fra i motivi di ricorso riguarda la nozione di profitto di cui all'art. 19 D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231 che, si sostiene, dovrebbe essere inteso quale utile netto che l'ente ricava dalla avvenuta commissione del reato.
In particolare tutti i ricorrenti richiamano la sentenza n. 32627 del 23 giugno 2006 (depositata il 2 ottobre 2006) della VI Sezione penale di questa Corte.
Nella motivazione di tale sentenza si legge: “Il profitto menzionato dall'art 13 cit. non corrisponde alla nozione di profitto cui si riferiscono le disposizioni in materia di confisca, quali, ad esempio, D.Lgs. n. 231 del 2001, ari. 19, art 15, comma 4, art 17, comma 1, lett. c). Queste ultime disposizioni, sebbene in maniera diversa, si preoccupano di assicurare allo Stato quanto illecitamente conseguito dalla società attraverso la commissione degli illeciti e oggetto del provvedimento ablativo non può che essere il profitto inteso in senso stretto, cioè come immediata conseguenza economica dell'azione criminosa, che può corrispondere all'utile netto ricavato” Questo Collegio non trova convincente la finale affermazione contenuta in tale brano, secondo la quale il "profitto del reato" indicato dall'art. 19 D.Lgs. 231/2001 "può corrispondere all'utile netto ricavato", laddove si debba intendere che il profitto del reato dovrebbe essere inteso quale ricavo del reato, dedotti i costi dell'attività volta alla commissione del reato stesso. Si deve premettere che, secondo l'orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 9149 del 3.7.1996 dep. 17.10.1996 rv 205707) “In tema di confisca, il prodotto del reato rappresenta il risultato, cioè il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita; il profitto, a sua volta, è costituito dal lucro, e cioè dal vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato; il prezzo, infine, rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato e costituisce, quindi, un fattore che incide esclusivamente sui motivi che hanno spinto l'interessato a commettere il reato”.
È poi opportuno ricordare che le cose che sono il profitto del reato, delle quali, a norma dell'art. 240 del codice penale, può essere ordinata la confisca, sono state identificate nel ricavo del reato senza possibilità di dedurre i costi.
Così, ad esempio, in tema di cessione di sostanze stupefacenti è profitto del reato la somma ricavata dalla vendita della droga (Cass. Sez. VI sent. n. 6131 del 10.3.1994 dep. 25.5.1994 rv 199714); allo stesso modo, in tema di lottizzazione abusiva, le somme ricavate dalla vendita dei terreni lottizzati abusivamente costituiscono il profitto del reato (Cass. Sez. III sent. n. 1630 del 15.10.1984 dep. 6.11.1984 rv166552).
In entrambe le ipotesi non sono ammessi in deduzione, rispetto alla somma da confiscare, i costi sostenuti.
Ad esempio, in materia di stupefacenti non vale a diminuire il profitto derivato dalla vendita, cioè il ricavo, quanto speso per acquistare la droga poi rivenduta. Oppure, in ipotesi di ricettazione di beni rubati non può essere dedotto dal profitto di reato quanto pagato da costui agli autori del furto.
Nei ricorsi, sebbene sembri esservi consapevolezza di tale aspetto, si afferma che l'ipotesi di cui all'art. 19 D.Lgs. 231/2001 sarebbe diversa da quella ex art. 240 cod. pen., in quanto, mentre nel secondo caso si versa in attività intrinsecamente illecita, nel primo si sarebbe in presenza di attività di impresa di per sé lecita, che solo episodicamente assumerebbe connotazioni illecite.
L'argomento, ad avviso del Collegio, sembra fondarsi su un equivoco.
L'art. 19 D.Lgs. 231/2001 prevede la confisca obbligatoria del "prezzo o del profitto del reato", non dell'attività di impresa lecita. Proprio perché ciò che deve essere confiscato è il "profitto del reato", non vi è alcuna ragione che giustifichi l'adozione di una nozione di profitto di reato diversa da quella di cui all'art. 240 cod. pen., che lo faccia coincidere con il solo utile netto.
Infatti, adottando l'interpretazione proposta nei ricorsi (ed apparentemente condivisa dalla 6a Sezione di questa Corte nella richiamata pronunzia) si consentirebbe la deduzione dal ricavo del reato dei costi sostenuti per commetterlo, i quali ben potrebbero non aver nulla a che vedere con l'attività lecita dell'impresa.
Va ricordato che l'attività delittuosa sarà pur sempre posta in essere da persone fisiche le quali, anziché agire (soltanto) in nome e per conto proprio, agiscono anche in nome e per conto ovvero nell'interesse dell'ente, ma tale attività di perpetrazione del reato sarà, proprio in quanto tale, pur sempre intrinsecamente illecita.
Non vi è perciò, a parere di questo Collegio, alcuna apprezzabile differenza nell'attività delittuosa, sia che della stessa risponda solo la persona fisica che l'ha realizzata, sia che ne risponda anche l'ente ai sensi del D.Lgs. 231/2001.
A sostegno dell'argomento svolto é sufficiente pensare, richiamando gli esempi sopra indicati, che l'attività di cessione di sostanze stupefacenti potrebbe essere realizzata da organi o dipendenti di una società per azioni che operi nell'industria chimica o farmaceutica ovvero che la ricettazione sia riferita, anziché ad una persona fisica ad una società a responsabilità limitata. Non si comprende allora per quale ragione, in queste ultime ipotesi, i costi relativi alla perpetrazione del reato dovrebbero diventare deducibili, mentre non lo sarebbero se l'attività delittuosa, del pari a base lecita e solo episodicamente illecita, fosse realizzata da un imprenditore persona fisica.
Appare inficiata dallo stesso equivoco anche l'affermazione contenuta nei ricorsi, secondo la quale l'attività delle società impegnate nell'esecuzione del contratto di appalto sarebbe per definizione lecita in quanto è proseguita sotto la direzione e la responsabilità del commissario delegato ai sensi del D.L. 30 novembre 2005, n. 245 convenuto con L. 27 gennaio 2006, n. 21 (e poiché sarebbe identica a quella antecedente all'entrata in vigore del D.L. n. 245/2005 ne conseguirebbe la liceità anche di quella precedente).
L'attività che il D.L. 30 novembre 2005, n. 245 convertito con L. 27 gennaio 2006, n. 21 prevede debba essere svolta sotto la direzione e la responsabilità del commissario delegato è certamente di per sé lecita, ma è attività diversa ed ulteriore da quella di perpetrazione del reato ed i due aspetti devono essere tenuti distinti.
Lo stesso si deve dire per le ipotesi di cui all'art. 15 comma 4 D.Lgs. 231/2001, di attività proseguita sotto la direzione di un commissario giudiziale. Tale disposizione prevede non certo la confisca del profitto del reato, bensì la confisca del "profitto derivante dalla prosecuzione dell'attività", concetto del tutto diverso da quello di profitto di reato, in relazione al quale può essere giustificata l'interpretazione secondo la quale tale profitto sia determinabile in base ai ricavi dedotti i costi. Ciò in quanto si tratta di attività lecita e non di attività finalizzata alla perpetrazione del reato. Irrilevante sembra infine la considerazione secondo la quale si fa luogo a confisca del profitto di reato anche nei confronti dell'ente non sanzionabile, giacché lo scopo della norma è di consentire comunque il recupero del profitto del reato quando sia stato realizzato in capo all'ente, anziché alla persona fisica.
Se si accetta la tesi secondo la quale il profitto di reato ex art. 19 D.Lgs. 231/2001 coincide con l'utile netto del reato, si perviene all'azzeramento di rischi economici conseguenti alla perpetrazione di illeciti penali, dal momento che in ipotesi di confisca l'ente si limiterà a non guadagnare nulla (salve le sanzioni ed il risarcimento dei danni).
Tale soluzione, sembra vanificare l'innovazione normativa operata dal D.Lgs. 231/2001, dal momento che anche prima di tale D.Lgs. gli enti, di regola, erano civilmente obbligati per la pena pecuniaria e responsabili civili dei danni conseguenti a reato. Diversa ed ulteriore questione è, come si è detto, quella relativa alla concreta distinzione tra ciò che è profitto di reato (e che deriva da attività illecita i cui costi non sono, ad avviso di questo Collegio, deducibili) e quanto deriva invece dalla attività lecita svolta dall'impresa.
Peraltro tale problema potrà essere affrontata solo dopo aver deciso come debba essere interpretata la nozione di profitto di reato di cui all'art. 19 D.Lgs. n. 231/2001 e cioè se debba intendersi quale utile netto del reato ovvero quale ricavo.
Poiché trattasi di una questione di diritto che, anche in conseguenza della pronunzia emessa della 6A Sezione di questa Corte, sopra citata, può dare luogo ad un contrasto giurisprudenziale, appare quindi opportuno, ai sensi dell'art. 618 cod. proc. pen. rimettere i ricorsi alle Sezioni Unite.
P.Q.M.
La Corte rimette i ricorsi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione.
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