TRIBUNALE DI MILANO
Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari Giudice dr.ssa Giovanna VERGA
ORDINANZA
Sulla eccezione di inammissibilità della costituzione di parte civile formalizzata dall'A nei confronti della B S.p.A.
osserva
La dedotta questione non può sicuramente essere ancorata ad una interpretazione letterale dell'art. 185 c.p. che, entrato in vigore nel 1930, non poteva prevedere una tipologia di illecito introdotta nel nostro ordinamento giuridico nel 2001, all'esito di un lungo dibattito, teso a superare l'antica obiezione legata al presunto sbarramento dell'art. 27 Cost. in ordine all'impossibilità di adattare il principio di colpevolezza alla responsabilità degli enti.
Ciò detto deve immediatamente rilevarsi che con l'analogia, vietata in linea di principio, non deve essere confusa l'interpretazione estensiva che si ha quando l'ambito di applicazione di una norma penale viene, per necessità logica e non per similitudine di rapporti, esteso ad un caso che non essendo ivi previsto deve però essere ritenuto compreso nella norma stessa in base all'intenzione del legislatore intesa come volontà dell'ordinamento quale risulta dalla ratio legis.
Il Titolo VII del codice penale disciplina le sanzioni civili che possono derivare dal reato.
La questione relativa all'individuazione della natura e del fondamento del risarcimento del danno conseguente al reato ruota intorno a diversi orientamenti, secondo una querelle mai sopita e che è tornata farsi sentire con più urgente attualità di fronte ad una crisi concettuale della indefettibilità ed efficacia della sanzione penale.
Sulla natura e funzione, privatistica o pubblicistica, del risarcimento del danno si manifestò tra scuola classica e scuola positiva una diversità di visioni che si proietta fino ai nostri giorni.
La Scuola Classica propugnava un regime di netta separazione tra reato-pena e danno-risarcimento. Il reato è un'offesa agli interessi vitali della coesistenza sociale, il danno risarcibile è la perdita patrimoniale o la sofferenza subita. A differenza della azione penale che è azione pubblica esercitatile dallo Stato, l'azione per il risarcimento è meramente privata. Tra pena e risarcimento non ci può essere correlazione, non potendo quest'ultimo avere una funzione complementare, e tanto meno sostitutiva della seconda. Il risarcimento era perciò considerato materia del tutto estranea alla repressione penale. La stessa facoltà di inserirsi nel procedimento penale attraverso la costituzione di parte civile era riconosciuta al privato in ossequio ad esigenze pratiche di economia di giudizi e dogmatiche di unitarietà della giurisdizione e non contraddittorietà fra giudicati, assai più che in considerazione di un interesse eminentemente risarcitorio. La Scuola Positiva elaborò invece la teoria del "risarcimento quale funzione pubblica". La riparazione civile del danno è concepita non soltanto nell'interesse della parte lesa, ma anche nell'interesse pubblico della difesa sociale preventiva e repressiva contro il delitto e strumento per attenuare l'allarme sociale e soddisfare il desiderio di giustizia delle vittime. Essa viene intesa quale vera e propria sanzione punitiva da applicarsi come sanzione complementare o in certi casi sostitutiva dell'azione penale.
Necessaria al pari della sanzione penale la riparazione deve essere realizzata nell'ambito dell'azione penale e d'ufficio.
Si può affermare che risarcimento del danno e pena hanno avuto origine dalla medesima idea, ma sono diventati estranei nel corso del tempo.
Con l'individuazione del risarcimento del danno tra le sanzioni civili conseguenti al reato, il codice penale del 1930 si è mantenuto sostanzialmente ancorato ad una impostazione neoclassica.
Il Decreto Legislativo 8.6.2001 n. 231 che regola la Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica a norma dell'art. 11 della L. 29 settembre 2000 n. 300 si è posto invece nella direzione di recuperare l'origine comune del risarcimento (e/o riparazione del danno) e della pena inserendo il primo nel quadro delle cause che legittimano l'attenuazione della sanzione.
La Legge in esame non solo si è sicuramente conformata all'impostazione tradizionale, riconoscendo al co. 2 dell'art. 12 una riduzione della pena a fronte di condotte riparatorie del danno, ma è andata sicuramente oltre, laddove all'art. 17 ha individuato condotte di riparazione delle conseguenze del reato che permettono all'ente di evitare l'applicazione delle sanzioni interdittive temporanee.
Come indicato nella Relazione governativa la norma trasuda chiare finalità specialpreventive, accordando un premio all'ente che pone in essere un comportamento che integra un "controvalore" rispetto all'offesa realizzata. Comportamento successivo all'illecito e da tenere prima dell'apertura del giudizio, che attenua il bisogno di pena e che, in particolare, controagisce rispetto ai presupposti applicativi delle sanzioni interdittive, annullando la loro carica di disvalore. L'art. 17 stabilisce infatti che l'ente non soggiace alle sanzioni interdittive a fronte dei seguenti comportamenti: a) ha posto in essere le condotte risarcitorie e riparatorie o comunque si è efficacemente attivato in tal senso, b) ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione di idonei modelli organizzativi, c) ha messo a disposizione il profitto conseguito.
Si può affermare, come riconosciuto dal legislatore delegato, che le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatorie e ri-organizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall'illecito, e pertanto la rielaborazione del conflitto sociale sotteso all'illecito e al reato avviene non solo attraverso una logica di stampo repressivo ma anche e soprattutto con la valorizzazione di modelli compensativi dell'offesa.
Il favore che viene ricollegato alla tenuta di queste condotte in senso lato risarcitorie è corroborato altresì dalla circostanza che, anche se vengono compiute oltre il termine previsto, danno luogo alla conversione della sanzione interdittive in sanzione pecuniaria (art. 78).
Si può perciò affermare che con la legge in parola il risarcimento del danno e/o riparazione del danno è stato recuperato in chiave pubblicistica di alternativa ad una sanzione penale.
Non vi è dubbio perciò che l'illecito amministrativo conseguente da reato disciplinato dal D.Lgs. n. 231/2001 obbliga direttamente l'ente al risarcimento e/o alle riparazioni del danno a norma delle leggi civili.
E' evidente che l'art. 185 c.p. deve essere interpretato estensivamente alla luce dei principi sopra richiamati e ricomprendere anche il tertium genus disciplinato dalla legge in esame. La stessa difesa dell'ente riconosce che il danneggiato dall'illecito amministrativo conseguente da reato può adire il giudice civile e chiedere il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
Ciò detto non è dato comprendere le ragioni ostative in ordine alla tutela nel processo penale degli interessi civili lesi dall'ente, considerato anche la indicata valorizzazione di modelli compensativi dell'offesa propri del Decreto in esame.
Appare difficile ritenere che la disciplina approntata nel decreto che prevede un sistema sanzionatorio che, proprio sul versante delle più gravi sanzioni interdittive, non si ispira ad una logica punitiva neoclassica, ma mira dichiaratamente a privilegiare la prospettiva della riparazione dell'offesa, impedisca al danneggiato di avanzare le proprie pretese risarcitorie nei confronti dell'ente nel procedimento penale attraverso la costituzione di parte civile.
I sostenitori della tesi contraria fondano il loro pensiero sostanzialmente sull'assenza di norme nel corpo del decreto che fanno riferimento alla costituzione di parte civile.
In proposito appaiono necessarie alcune puntualizzazioni.
La responsabilità dell'ente poiché conseguente da reato è legata, per espressa volontà della legge delega (art. 11 lett. q) , alle garanzie del processo penale.
L'art. 34 e 35 del decreto in argomento stabiliscono che per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le norme del decreto nonché, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale e del Decreto legislativo 28.7.1989 n. 271 e che all'ente si applicano le disposizioni processuali relative all'imputato in quanto applicabili.
All'art. 36 è stabilito che il giudice competente a conoscere gli illeciti dell'ente è quello competente per i reati a cui accede l'illecito amministrativo e all'art. 38 è affermata la regola generale, ispirata ad evidenti ragioni di effettività, di omogeneità e di economia processuale, del simultaneus processus. Il processo nei confronti dell'ente dovrà rimanere riunito, per quanto possibile, al processo penale che ha ad oggetto il reato presupposto della responsabilità dell'ente. E' indubbio che quello dell'ente sia un titolo autonomo di responsabilità anche se presuppone comunque la commissione di un reato. Il simultaneus processus risponde non soltanto ad esigenze di economia, ma anche alla necessità di far fronte alla complessità dell'accertamento.
Ciò detto è di tutta evidenza come la mancata indicazione nel decreto di una norma equivalente all'art. 74 c.p.p. non può essere sintomatica di una volontà del legislatore delegato di escludere dal corpus normativo del decreto l'istituto della costituzione di parte civile nei confronti dell'ente. L'espresso richiamo alle disposizioni del codice di procedura penale delle norme di attuazione impedisce tale conclusione in assenza di altri elementi significativi.
Occorre ora verificare se la disciplina approntata nel decreto presenti elementi di incompatibilità con le norme del codice di procedura penale, tali da portare ad un'affermazione di inapplicabilità dell'art. 74 c.p.p., pur a fronte dell'esistenza di un autonomo titolo di responsabilità dell'ente e di una riconosciuta responsabilità diretta per i danni da reato.
Uno degli argomenti a sostegno della tesi contraria è l'indicazione nell'art. 54, che disciplina il sequestro conservativo, del Pubblico Ministero quale unico titolare della relativa richiesta. Si legge nell'articolo richiamato che se vi è fondata ragione di ritenere che manchino o si disperdano le garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'erario dallo Stato, il Pubblico Ministero, in ogni stato e grado del processo di merito, chiede il sequestro conservativo dei beni mobili e immobili dell'ente o delle somme o cose allo stesso dovute.
La questione merita alcune considerazioni di più ampia portata.
Il decreto legislativo in argomento ha riservato grande attenzione alle misure cautelari. Come si legge nella relazione l'esigenza di apprestare un sistema di cautele con riferimento all'illecito imputabile alla persona giuridica ubbidisce ad un duplice scopo: evitare la dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato; paralizzare o ridurre l'attività dell'ente quando la prosecuzione dell'attività stessa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati.
Sempre nella Relazione si legge che si tratta di esigenze che possono essere soddisfatte ricorrendo agli strumenti del sequestro conservativo e preventivo, ma è indubitabile l'opportunità di una regolamentazione autonoma che tenga conto della specificità dell'intervento.
E' stato così disciplinato un sistema di applicazione anticipata delle sanzioni interdittive in funzione dell'accertamento giurisdizionale.
Merita attenzione la disposizione dell'art. 49 che prevede la sospensione delle misure cautelari qualora l'ente chieda di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l'esclusione di sanzioni interdittive (art. 17) e l'art. 50 che prevede la revoca delle misure cautelari nel caso di realizzazione delle condotte risarcitorie previste dall'art. 17. E' evidente che nel caso in esame le misure interdittive, come indicato dallo stesso legislatore delegato, sono finalizzate ad evitare la dispersione della garanzia delle obbligazioni civili derivanti dal reato e si muovono nella direzione, sopra indicata, di tutela degli interessi offesi dall'illecito attraverso l'attribuzione all'organo dell'Accusa del potere di richiedere strumenti di cautela finalizzati alla tutela di interessi privati.
Sempre nella Relazione si legge che un discorso a parte meritano le previsioni di cui agli arti. 53 e 54. Le due norme introducono due ipotesi di cautele autonome rispetto all'apparato di misure interdittive irrogabili alle persone giuridiche. Il legislatore delegato evidenzia che sebbene non espressamente previsto dalla legge delega, si è ravvisata la necessità di disciplinare le ipotesi di sequestro preventivo a scopo di confisca e di sequestro conservativo, posto che la loro operatività in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti - questo espressamente previsto dalla delega - non si sarebbe potuta mettere seriamente in discussione, in ragione di una incompatibilità con le sanzioni interdittive, irrogabili nei confronti delle persone giuridiche, in realtà non ravvisabile se non in relazione al sequestro preventivo in senso proprio (art. 321 co. 1 c.p.p.) che pertanto è da ritenersi ipotesi non applicabile nella specie. Di qui la disciplina sopra richiamata (art. 53) che consente il sequestro preventivo in funzione di confisca con conseguente richiamo alla disciplina codicistica, nonché l'altra previsione che appunto rende possibile il sequestro conservativo dei beni o delle somme dovute o che garantiscano il pagamento della sanzione pecuniaria, delle spese del procedimento e di ogni altra somma dovuta all'Erario.
Come è dato comprendere dalla lettura della Relazione gli art. 53 e 54 nascono dalla necessità, avvertita dal legislatore delegato, di riconoscere all'organo dell'Accusa un potere di iniziativa cautelare di carattere reale che poteva essere messo in dubbio dal potere di richiedere in via cautelare le misure interdittive. Non vi era invece ragione di disciplinare l'iniziativa cautelare della parte civile stante il generale rinvio alle norme processuali vigenti.
Deve ulteriormente osservarsi che la scelta del legislatore del 1988 di estendere l'iniziativa cautelare reale anche alla parte che avanza in sede penale pretese di carattere risarcitorio è stata riconosciuta come un'attenuazione della matrice pubblicistica propria della Scuola Classica, di cui sopra si è riferito, che aveva connotato nel codice Rocco l'impianto normativo inerente il sequestro con fini conservativi. Non può perciò ritenersi incompatibile con un apparato normativo, come quello in esame, sicuramente orientato, come si è già avuto modo di indicare, ad un ulteriore superamento del modello classico-pubblicistico la disposizione del secondo comma dell'art. 316 c.p.p. che si pone sulla stessa linea e trova applicazione in virtù dell'art. 34 del decreto.
Inconferenti con la questione prospettata appaiono i richiami ai mancati riferimenti alla parte civile in tema di indagini preliminari, udienza preliminare, procedimenti speciali.
Deve solo evidenziarsi che per l'archiviazione è previsto un procedimento semplificato senza controllo del giudice che trova la sua giustificazione come indicato nella Relazione nel fatto che si tratta di un illecito amministrativo per il quale non sussiste l'esigenza di controllare il corretto esercizio dell'azione penale da parte del Pubblico Ministero. E' sembrata pertanto del tutto estranea a questa materia la procedura di archiviazione codicistica. Le esigenze di verifica dell'operato del Pubblico Ministero in relazione alla contestazione di queste violazioni sono assicurate attraverso un meccanismo meno articolato che prevede una comunicazione al Procuratore Generale che può sostituirsi direttamente al Pubblico Ministero e contestare direttamente l'illecito amministrativo.
L'art. 61 si limita ad indicare gli elementi che il decreto di rinvio a giudizio deve contenere a pena di nullità fra i quali non vi è l'indicazione della persona offesa o della parte civile neppure secondo la disposizione codicistica dell'art. 429 c.p.p. Deve però osservarsi che nell'articolo in esame vi è un riferimento testuale contrario con riguardo alla sentenza di non doversi procedere. Vi è, infatti, un espresso richiamo all'intero art. 426 c.p.p. che, con riguardo ai requisiti della sentenza prevede, fra l'altro, le generalità delle altre parti private.
Con riguardo alla disciplina del giudizio abbreviato vi è un espresso richiamo alle norme del codice. Deve pertanto essere celebrato secondo le regole processuali ordinarie.
Nella disciplina del giudizio ordinario si colloca il termine ultimo per porre in essere i comportamenti risarcitori previsti dagli artt. 12 e 17. Se l'ente prima della dichiarazione di apertura del dibattimento realizza i comportamenti previsti dall'art. 12 co. 2 potrà godere di una diminuzione della sanzione, se realizza i comportamenti previsti dall'art. 17 eviterà la sanzione interdittiva.
A tal fine può persino chiedere la sospensione del dibattimento previa dimostrazione di essere stato nell'impossibilità di effettuare le condotte riparatorie in un momento precedente. La norma ricalca, seppure con le conseguenze più incisive già evidenziate, la disposizione dell'art. 62 n. 6 c.p. che prevede la possibilità di una riduzione di pena a fronte di comportamenti risarcitori da parte dell'imputato e non può non ancorarsi ad una possibile presenza del danneggiato al processo.
L'art. 69 si limita a disciplinare il contenuto della sentenza condanna con riguardo alla responsabilità per l'illecito amministrativo conseguente al reato, al pari dell'art. 533 del codice di rito che disciplina la condanna dell'imputato con riguardo al reato. Le disposizioni sulle conseguenze civili sono disciplinate in altre norme del codice di procedura penale che, in ragione del generale rinvio alle regole processuali ordinariamente vigenti, ben possono trovare applicazione anche nella materia in esame. Così come può trovare applicazione l'art. 573 c.p.p. in materia di impugnazione per i soli interessi civili, stante il generale rinvio e considerato che non si evidenziano nel decreto norme incompatibili.
Da ultimo deve osservarsi che deve escludersi che possa essere citato come responsabile civile nel processo penale chi abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dal danneggiato/parte civile. L'art. 83 co. 1 c.p.p. prevede, infatti, che possa essere citato come responsabile civile solo chi debba rispondere civilmente per il fatto dell'imputato. Non può perciò essere citato come responsabile civile nel processo penale chi abbia un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile, diverso da quello addebitato all'imputato (cfr. Cass. n. 6700/2006) e non vi è dubbio che l'ente ha una responsabilità diretta nei confronti del danneggiato. La stessa difesa riconosce tale circostanza .
Alla luce delle argomentazioni espresse deve essere respinta l'eccezione di inammissibilità della costituzione di parte civile formalizzata dall'A nei confronti della B S.p.A.
P.Q.M.
Respinge l'eccezione di inammissibilità della costituzione di parte civile formalizzata dall'A nei confronti della B S.p.A.
Milano, 24/01/2008
IL GIUDICE
Dr.ssa Giovanna VERGA