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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 31 gennaio 2008 (dep. 7 febbraio 2008), n. 6026

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 31 gennaio 2008 (dep. 7 febbraio 2008), n. 6026
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Restituzione nel termine preclusa se il difensore, di fiducia o di ufficio, ha proposto impugnazione nell’interesse dell’imputato contumace

(omissis)

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza del 15 marzo 2004, la Corte di assise di Roma ha dichiarato i cittadini romeni G.G., B.J.C. e H. L.V. colpevoli dei delitti di omicidio aggravato, violazione di domicilio aggravata e tentata rapina aggravata loro ascritti, condannando ciascuno di essi alla pena di anni ventotto di reclusione, per avere, in concorso tra loro, al fine di impadronirsi di somme di denaro custodite da B.S., cagionato la morte del predetto, in Roma, il 15 luglio 2001, colpendolo ripetutamente con due mattarelli di legno al capo ed in altre parti del corpo, dopo averlo legato, non essendo poi riusciti, per cause indipendenti dalla loro volontà, ad impadronirsi dei beni della vittima, pur avendo sottratto le chiavi della sua abitazione ed essendo in essa penetrati.

Per quanto in particolare attiene alla posizione dell’H. – l’unica che viene qui in risalto – lo stesso, colpito sin dal 21 luglio 2001 da ordinanza di custodia cautelare, venne dichiarato latitante con decreto emesso i 27 luglio 2001 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma.

Con successiva sentenza del 17 gennaio 2005, la 3° Corte di assise di appello di Roma – nella perdurante latitanza dell’imputato - respingeva le eccezioni prospettate nell’atto di appello dal difensore di ufficio, avv. S.N., di nullità del decreto che disponeva il giudizio per mancato rispetto dei termini per comparire, a norma dell’art. 419, comma 4, cod. proc. pen., per mancata concessione dei termini a difesa e per la conseguente declaratoria di contumacia dell’imputato nella udienza preliminare. Nel merito, ritenuta provata la responsabilità dell’H. per aver ideato, organizzato e partecipato alla aggressione dalla quale era scaturito l’omicidio – i coimputati G. e B., presenti nei gradi di merito, in quanto arrestati in Francia ed estradati in Italia nel maggio 2002, avevano “patteggiato” la pena in appello a norma dell’art. 599, comma 4, del codice di rito, e la relativa sentenza nei loro confronti era divenuta irrevocabile il 2 aprile 2005 – la Corte di assiste di appello confermava la sentenza di primo grado, disattendendo, altresì, la tesi prospettata in subordine dalla difesa in ordine alla applicabilità della attenuante di cui all’art. 116 cod. pen.

Il medesimo difensore di ufficio del latitante riproponeva, con ricorso per cassazione, le questioni di rito già devolute al giudice del gravame di merito, e censurava la sentenza di appello per carenza e manifesta illogicità della motivazione circa la valutazione della versione dei fatti fornita dai coimputati in ordine al ruolo svolto dal ricorrente, il quale non avrebbe eseguito materialmente il delitto, non previsto nè prevedibile, in quanto frutto di una scelta autonoma del B. e del G., armati di mattarello. Denunciava, altresì, la impugnata sentenza per violazione di legge e carenza di motivazione, in relazione alla mancata concessione dell’attenuante di cui all’art. 116 cod. pen., alla configurabilità della violazione di domicilio ed alla determinazione della pena.

Con sentenza del 22 giugno 2005, n. 34230, la Corte di cassazione, rilevato che non ricorreva alcuna delle dedotte nullità e, quanto ai motivi concernenti la responsabilità e la pena, che il ricorso si palesava spiccatamente orientato al merito e ad una diversa lettura degli esiti probatori circa la ricostruzione del fatto e le conseguenze sanzionatorie, ne dichiarava la inammissibilità.

2. – Con ordinanza del 12 aprile 2007, la 1° Corte di assise di appello di Roma, sull’incidente di esecuzione proposto dal difensore di fiducia dell’H., avv. M.M., a seguito della cattura ed estradizione in Italia in esecuzione di mandato d’arresto europeo, ritenuto che non vi era prova in atti che l’imputato avesse avuto effettiva conoscenza del processo o di alcuno dei relativi provvedimenti e che avesse rinunciato a comparire o ad impugnare, restituiva lo stesso nel termine per impugnare la sentenza di appello, «poichè – sottolineava l’ordinanza restitutoria – il grado di giudizio non sperimentato neppure dal suo difensore di ufficio è quello dinanzi alla Corte di cassazione, nella quale sede potrà altresì essere fatta valere anche ogni eventuale nullità insanabile incorsa in precedenti fasi e gradi del giudizio». Veniva quindi disposta la scarcerazione dell’H., se non detenuto per titolo diverso dal mandato di arresto europeo e dall’ordine di esecuzione emesso a seguito della irrevocabilità della condanna pronunciata nei suoi confronti dalla Corte di assise di Roma.

Il difensore di fiducia dell’imputato ha quindi proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, denunciando: a) la nullità dell’originario decreto di latitanza del 27 luglio 2001, per insufficienza ed inidoneità delle ricerche e per carenza di motivazione, e di tutti gli atti successivi, e dunque anche della sentenza di secondo grado, in quanto emessi «nell’inconsapevolezza incolpevole dell’imputato», e quindi in violazione dell’art. 6 della C.E.D.U., che espressamente prescrive per gli Stati aderenti di garantire il diritto all’effettiva conoscenza del procedimento; b) la nullità del procedimento per omessa traduzione degli atti in una lingua nota all’imputato; c) l’omessa e contraddittoria motivazione della sentenza di condanna per l’erronea valutazione delle prove attinenti alla ricostruzione dei fatti.

3. – Il ricorso, assegnato alla Prima Sezione penale di questa Corte, è stato rimesso a queste Sezioni Unite con ordinanza del 14 novembre 2007, con la formulazione del seguente quesito: «se sia precluso all’imputato latitante, il quale non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento e non abbia volontariamente rinunziato a comparire ovvero a proporre impugnazione, il diritto alla restituzione nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale di condanna, per il solo fatto che dal difensore di ufficio sia stato precedentemente e autonomamente proposto, contro la sentenza medesima, prima appello e poi ricorso per cassazione, e quest’ultimo sia stato respinto dalla Corte di cassazione con decisione definitiva e irrevocabile».

La Sezione rimettente premette, in linea di fatto, la circostanza che l’ordinanza di restituzione nel termine risulta essersi fondata sulla erronea premessa di aver ritenuto – come si è dianzi precisato – non sperimentato, nè dall’imputato nè dal suo difensore di ufficio, il rimedio del ricorso per cassazione, quando invece emerge dagli atti che il difensore dello H. presentò dapprima appello contro la sentenza di primo grado, e poi ricorso per cassazione, dichiarato inammissibile con la già citata sentenza del 22 giugno 2005. Si pone quindi il problema, soggiunge l’ordinanza di rimessione, dell’eventuale effetto preclusivo dell’impugnazione proposta dal difensore rispetto a quella successiva dell’imputato, nel coordinamento dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., con il tradizionale principio dell’unicità del diritto d’impugnazione, in virtù del quale l’impugnazione del difensore precluderebbe all’interessato il diritto a proporre personalmente lo stesso mezzo di impugnazione, una volta scaduti i relativi termini, anche nella ipotesi di sentenza contumaciale. I più recenti approdi giurisprudenziali, alimentati da alcuni spunti ricostruttivi desumibili dai lavori parlamentari che hanno accompagnato la conversione in legge del d.l. n. 17 del 2005, modificativo dell’art. 175 cod. proc. pen, starebbero a denotare come per il legislatore della novella la proposizione della impugnazione da parte del difensore non condizionerebbe più la restituzione nel termine per l’impugnazione da parte dell’imputato. Ma alla luce di tali premesse, ed a prescindere dalla composizione dei rapporti tra i due rimedi impugnatori – dell’imputato e del difensore – si viene a porre nel caso in esame, ad avviso della Sezione rimettente, il «ben più delicato problema della presenza di una sentenza della Corte di cassazione, pronunciata a seguito del gravame proposto dal difensore del contumace nell’esercizio del suo potere di impugnazione, indubbiamente autonomo a seguito dell’eliminazione del vincolo del mandato ad hoc, per effetto dell’abrogazione dell’ultima parte dell’art. 571, comma 3, c.p.p. ad opera dell’art. 46, comma 1, della legge 16 dicembre 1999, n. 479». A seguito di quest’ultima abrogazione e della modifica subita dal secondo comma dell’art. 175 cod. proc. pen. (ad opera del d.l. n. 17 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 60 del 2005), in forza della quale è stata eliminata la preesistente preclusione alla restituzione nel termine in caso di previa proposizione della impugnazione da parte del difensore, non sarebbero dunque normativamente esplicitate regole di coordinamento, nè le stesse sarebbero agevolmente desumibili dal sistema. Non apparendo del tutto satisfattiva, per la Sezione rimettente, la tesi, affacciatasi in giurisprudenza - sulla falsariga di alcune note sentenza della Corte europea in tema di processo in absentia - secondo la quale occorrerebbe far leva sulla prevalenza, in virtù di una sorta di principio di “specialità”, dell’art. 175, comma 2, cod., proc. pen., rispetto ai principi generali sulle impugnazioni e sul giudicato; e ritenuto al tempo stesso non percorribile un semplice rinvio al meccanismo solutorio dei conflitti pratici di giudicati, di cui all’art. 669 cod. proc. pen., così come impraticabile è apparsa l’evocazione di un intervento della Corte costituzionale, stante la varietà delle possibili soluzione, si è reputata conseguentemente necessaria la devoluzione del ricorso a queste Sezioni Unite, avuto riguardo alla speciale importanza delle questioni di diritto coinvolte ed alla necessità di prevenire l’insorgenza di contrasti di giurisprudenza.

Considerato in diritto

1. - Il quesito per il quale è stato evocato l’intervento di queste Sezioni Unite, ruota attorno ad una problematica venuta ad emersione già nel corso dei lavori preparatori del nuovo codice di procedura penale. Ancor prima, infatti, della entrata in vigore del nuovo codice di rito, il legislatore – come è noto - aveva avvertito la necessità di intervenire sull’istituto della contumacia, quale disciplinato dal codice del 1930, per allinearne le previsioni rispetto ai caratteri del “giusto processo” tracciati dai principi sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalle direttive della legge-delega n. 81 del 1987, giacchè, per più versi, le disposizioni processuali che regolavano il processo in absentia, apparivano in chiara frizione con le esigenze di garanzia partecipativa postulate, oltre che dalla Convenzione, anche da altri strumenti internazionali. In particolare – e come chiaramente si sottolineò nella relazione dell’originario disegno di legge n. 1706 presentato alla Camera dei deputati il 19 ottobre 1987 dal Ministro della Giustizia, e da cui originò la legge 23 gennaio 1989, n. 22 – apparve necessario ed urgente rimodulare le garanzie da apprestare per l’imputato che non si fosse «sottratto volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento», tanto alle “regole minime” delineate in tema di procedimento contumaciale dalla Risoluzione n. 11 del 1975 del Consiglio d’Europa, che ai principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte di Strasburgo, infatti, già con la sentenza del 12 febbraio 1985, nel caso Colozza c. Italia, aveva affermato che viola l’art. 6, comma 1, della Convenzione procedere in contumacia nei confronti di un accusato, dichiarato prima irreperibile e poi latitante, che abbia omesso di segnalare al comune il proprio cambiamento di residenza, giacchè trarre da tale comportamento la conseguenza di una sua volontaria sottrazione al processo, appariva manifestamente sproporzionato, avuto riguardo al ruolo eminente che il diritto ad un equo processo occupa in una società democratica. La Corte europea, nel frangente, ricordò come il diritto ad essere informato ed a partecipare al dibattimento sono esplicazione dell’«equo processo», condannando quindi il nostro Paese per non aver assicurato al contumace un nuovo giudizio in sua presenza: «quando una legislazione nazionale – sottolineò la Corte – autorizza lo svolgimento di un processo nonostante l’assenza di un accusato che si trovi nella situazione del sig. Colozza, l’interessato deve, una volta al corrente del procedimento, poter ottenere che un organo giurisdizionale si pronunci di nuovo, dopo averlo ascoltato, sulla fondatezza dell’accusa portata contro di lui».

Il forte monito fu così recepito dal legislatore, il quale, tanto in sede di novellazione dell’ormai abrogando codice Rocco, che nelle corrispondenti disposizioni del nuovo codice di procedura penale, approntò un sistema di garanzie, modulato sulla falsariga di tre direttrici portanti. Da un lato, infatti, venne stabilito un più agevole accesso all’istituto della restituzione nel termine per proporre impugnazione in favore del contumace “incolpevole”, allo scopo – si disse – di assicuragli la «possibilità di partecipare ad almeno un grado di giudizio di merito “pieno”, essendo obbligatoria, su sua richiesta, la rinnovazione del dibattimento in appello» (v. la Relazione del citato disegno di legge n. 1706, X Legislatura). Sotto altro profilo, si introdusse una specifica previsione, nel corpo della norma destinata a disciplinare, nella parte generale delle impugnazioni, l’impugnazione dell’imputato, secondo la quale, avverso la sentenza contumaciale, il difensore del contumace – tanto di fiducia che d’ufficio – potesse proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato. La ragion d’essere di tale previsione (spiegò la Relazione al Progetto preliminare del nuovo codice, sulla falsariga dei consimili rilievi che già erano stati svolti nella Relazione illustrativa del più volte citato disegno di legge n. 1706) andava rinvenuta nel fatto che «l’impugnazione proposta dal difensore esaurisce per l’imputato la possibilità di ottenere, se contumace, la restituzione in termini; istituto questo – puntualizzava il documento – che ha ricevuto una disciplina particolarmente ampia nell’art. 175. Conseguentemente – sottolineò il legislatore delegato – è sembrato necessario limitare la legittimazione del difensore nel caso di sentenza contumaciale, allo scopo di impedire gli effetti preclusivi che scaturirebbero da una impugnazione proposta frettolosamente da un difensore il quale, sia esso o meno legato da rapporto fiduciario, è ben possibile non abbia potuto prendere contatto con l’imputato nel breve termine previsto per la proposizione del gravame. La previsione di uno specifico mandato, consente, invece, di presumere che l’imputato abbia effettuato una preventiva valutazione circa le conseguenze dell’attività che il difensore potrà compiere nel suo interesse, ivi compreso, quindi, l’eventuale effetto preclusivo di cui prima si è detto» (v. Relazione, cit., pag. 126). Sotto un terzo ed ultimo profilo, si introdussero peculiari cautele volte ad assicurare la conoscenza effettiva degli atti del procedimento, imponendo la rinnovazione della citazione ove fosse apparsa probabile la incolpevole ignoranza della stessa da parte dell’imputato.

Da tutto ciò, alcuni significativi corollari. La restituzione nel termine per proporre impugnazione, in riferimento alle sentenze non contumaciali, rispondeva – e risponde – ai principi generali: nel senso che nessuna previsione precludeva (o preclude) al difensore la proposizione del mezzo di impugnazione stabilito per l’imputato. Al tempo stesso, nessuna specifica norma espressamente inibiva (o inibisce) la restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso sentenze non contumaciali, ove la impugnazione sia stata già proposta dal difensore, giacchè – come univocamente puntualizzato nel citato passo della Relazione al Progetto preliminare – un siffatto epilogo doveva ritenersi del tutto implicito nel sistema. Come terzo e conclusivo corollario, può agevolmente dedursi che, secondo la chiara prospettiva del legislatore, l’inciso «sempre che l’impugnazione non sia stata proposta dal difensore», che condizionava nel testo originario del codice l’ammissibilità della richiesta di restituzione nel termine per proporre impugnazione avverso sentenze contumaciali, non assumeva i connotati di disposizione realmente “prescrittiva”, quanto, piuttosto, le caratteristiche di una semplice “precisazione”, la cui opportunità derivava dalla correlativa disciplina – questa, si, davvero innovativa – che condizionava l’impugnazione del difensore al previo conferimento di uno specifico mandato.

2. - D’altra parte, il principio di unicità del diritto di impugnazione, già enucleato come criterio fondamentale del sistema delle impugnazioni nel previgente codice di rito, deve ritenersi senz’altro presente anche nel codice attuale, giacchè, pur in presenza di un ruolo di maggior pregnanza assegnato al difensore delle parti in genere e dell’imputato in specie – al punto da essere stato iscritto fra i “soggetti” del nuovo processo, nel Libro I, Titolo VII, del codice - è fuor di dubbio che, ancorchè il difensore stesso risulti normativamente legittimato (per così dire, jure proprio) a proporre personalmente l’atto di impugnazione, è l’imputato – e solo questi – che ne subisce gli effetti, continuando ad essere la “parte” del giudizio di impugnazione. Anche se proposta dal difensore, dunque, l’impugnazione – come recita la stessa rubrica dell’art. 571 cod. proc. pen. - continua ad essere l’impugnazione «dell’imputato»: sicchè, è del tutto agevole, in tale cornice, rinvenire la ratio della regola in forza della quale è solo quest’ultimo a poter togliere effetto alla impugnazione proposta dal difensore, nei modi previsti per la rinuncia, e non viceversa. Unico essendo, quindi, il destinatario ed il “fruitore” del giudizio di impugnazione, ben si comprende la ragione per la quale, tanto sotto la vigenza del codice abrogato che di quello attuale, la giurisprudenza di legittimità abbia insistentemente – e, se si vuole, tralaticiamente – affermato il principio secondo il quale una volta che l’impugnazione sia stata proposta da uno qualsiasi dei soggetti legittimati, vale a dire l’imputato o il suo difensore, e sia intervenuta la decisione sul merito della medesima impugnazione, il diritto “si consuma”, con l’effetto di precluderne l’esercizio da parte dell’altro soggetto legittimato (cfr., fra le tante e da ultimo, Cass., Sez. II, 19 aprile 2006, Barbaro; Cass., Sez. V, 5 giugno 2003, Gori. Con riferimento al vecchio codice, v. Cass., Sez. V, 27 novembre 1980, Di Martino).

Il principio dianzi esposto risulta essere stato, tuttavia, “messo in crisi”, come rammenta anche l’ordinanza di rimessione del ricorso a queste Sezioni unite, da un recente orientamento di giurisprudenza, il quale - facendo leva sulle peculiarità “di sistema” che sarebbero scaturite dalle novelle introdotte in tema di giudizio contumaciale ad opera del d.l. n. 17 del 2005 e della relativa legge di conversione - assegnerebbe prevalenza alla disciplina di garanzia apprestata dal “nuovo” art. 175, comma 2, cod. proc. pen., a scapito, appunto, del principio di unicità della impugnazione e del conseguente effetto preclusivo che scaturisce – per l’imputato contumace che ha titolo alla restituzione nel termine per proporre impugnazione – dalla impugnazione proposta dal difensore. L’argomento “storico” sul quale si fonda il cennato orientamento, è desunto dai lavori parlamentari che hanno contrassegnato la conversione in legge del d.l. n. 17 del 2005. Il testo del decreto, infatti, riproduceva la formula – che già compariva nella originaria stesura della norma – secondo la quale la restituzione nel termine era esclusa nel caso in cui l’impugnazione fosse stata già proposta dal difensore dell’imputato contumace. In sede di prima lettura del disegno di legge di conversione, la Camera dei deputati aveva soppresso l’inciso limitativo di cui si è detto, mentre la stesso veniva nuovamente reintrodotto dal Senato, che aveva anche ripristinato, nel testo dell’art. 571 cod. proc. pen., la previsione, abrogata dall’art. 46 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, secondo la quale, contro la sentenza contumaciale, il difensore era legittimato a proporre impugnazione, solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente, nelle forme per questa previste. Ritornato il provvedimento alla Camera, per la seconda lettura, entrambe le previsioni sono state soppresse ed il testo del disegno di legge di conversione è stato così definitivamente approvato.

Pertanto, si afferma, il problema se mantenere o meno nel sistema delle impugnazioni avverso le sentenze contumaciali il valore preclusivo della impugnazione proposta dal difensore – ormai definitivamente affrancato dal limite del previo conferimento di uno specifico mandato – è stato ben presente al legislatore della novella, e risolto univocamente nel senso negativo, condizionando la restituzione nel termine ai soli presupposti della mancata conoscenza del procedimento o del provvedimento e della assenza di rinuncia volontaria alla impugnazione. Da ciò il corollario secondo il quale «il problema del coordinamento della disposizione in esame con il principio di consumazione dell’impugnazione deve essere, dunque, risolto assegnando prevalenza alla normativa di cui all’art. 175 c.p.p., comma 2, perchè indubbiamente speciale rispetto alle regole generali sulle impugnazioni». Nè varrebbe obiettare, in senso contrario, che «il superamento della regola dell’unicità della impugnazione trova ostacolo nell’inconveniente costituito dalla presenza di una sentenza pronunciata a seguito del gravame proposto dal difensore nell’esercizio di un potere che – a seguito dell’abrogazione dell’ultima parte dell’art. 571, comma 3, c.p.p., ad opera della legge 16 dicembre 1999, n. 479, art. 46 – deve considerarsi indubbiamente autonomo, con l’unico limite della facoltà dell’imputato di togliere effetto all’impugnazione del difensore con le forme della rinuncia a norma dello stesso art. 571, comma 4, c.p.p. In proposito – soggiunge infatti conclusivamente il richiamato orientamento di giurisprudenza – è sufficiente ricordare che il sistema processuale prevede esplicitamente la pluralità di sentenze emesse per lo stesso fatto nei confronti della medesima persona e che l’art. 669 c.p.p. prevede appositi rimedi per rimuovere il contrasto di giudicati» (Cass., Sez. I, 21 giugno 2006, De Los Reyes; Cass., Sez. I, 7 dicembre 2006, Virzì).

3. - Tale assunto non può essere condiviso, anzitutto perchè muove da una petizione di principio. Si assegna, infatti, univocità di significato alla scelta emendativa operata dal legislatore, nel senso che la mancata riproduzione della clausola che limitava la restituzione nel termine per impugnare alla ipotesi in cui la impugnazione non fosse stata proposta dal difensore, starebbe a contrassegnare una specifica (e “rivoluzionaria”) voluntas legis, tesa all’introduzione nel sistema di un doppio gravame, promanante da soggetti distinti, in favore della stessa parte processuale; ma non si spiegano le ragioni per le quali – a fronte di un simile sconvolgimento del sistema delle impugnazioni – lo stesso legislatore non abbia avvertito la necessità di dettare le indispensabili norme di regime: non solo e non tanto per comporre l’inusuale concorso di strumenti impugnatori omogenei – con tutto ciò che ne consegue, anche sul piano dei diritti delle altre parti – quanto per delineare le imponderabili sequenze procedimentali, in ipotesi di mezzi di impugnazione eterogenei, o quelle, ancor più delicate, che – per stare al caso di specie – verrebbero a scaturire ove – ammettendosi, senza limiti “di sistema”, la restituzione nel termine in favore del contumace – si fosse realizzato il previo esaurimento di tutti i mezzi ordinari di impugnazione da parte del difensore. E’ del tutto evidente, quindi, che se il legislatore avesse inteso costruire un modello di giudizio impugnatorio “alternativo” per il contumace, non si sarebbe limitato al circoscritto emendamento dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., ma avrebbe, in positivo, regolamentato il composito intersecarsi di situazioni di cui si è detto e – soprattutto – dettato una espressa (e innovativa) disciplina atta a regolare la sorte del processo, evolutosi, nei gradi di impugnazione, per iniziativa del difensore.

D’altra parte, la stessa tesi per la quale l’eventuale contrasto di giudicati – nascenti, l’uno, dalla impugnazione del difensore, l’altro dalla impugnazione del contumace “restituito” nel termine per impugnare – sarebbe composto a norma dell’art. 669 cod. proc. pen., si presenta davvero eccentrica nel caso di specie, considerato che quest’ultima disciplina, informata, come è, all’esigenza di preservare l’osservanza del principio del ne bis in idem, dettando una disciplina di garanzia a fronte di situazioni del tutto patologiche nei casi in cui quel principio non sia stato per errore osservato, con una singolare eterogenesi dei fini verrebbe piegata allo scopo di regolamentare (come strumento, per di più, “fisiologico”) ipotesi in cui si applica l’opposto paradigma del «bis in idem».

4. - Queste Sezioni unite, d’altra parte, nello scandagliare la portata da annettere al principio del divieto di un secondo giudizio, hanno avuto modo di affermare che «le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromuovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, semprechè i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria». Ad un simile epilogo si pervenne osservando come il nucleo del principio del ne bis in idem fosse rappresentato dall’istituto della preclusione processuale: istituto, questo, che, secondo l’opinione corrente, attenendo all’ordine pubblico processuale, e mirando a realizzare una coerente progressione della regiudicanda verso l’epilogo decisorio, pur esprimendosi in varie forme, mira ad impedire, fra l’altro, la reiterazione di un potere già esercitato, dando luogo ad una figura di preclusione-consumazione, applicabile anche al potere di azione (Cass., Sez. un., 28 giugno 2006, p.g. in proc. Donati).

Ma se, dunque, è il sistema, nel suo complesso, a prevenire e reprimere qualsiasi forma di duplicazione del giudicato, del processo e della azione, non può che derivarne un corrispondente effetto impeditivo anche sul versante della azione di impugnazione, posto che la domanda di gravame, una volta espressa da uno dei soggetti a ciò legittimati, naturalmente esaurisce (consumandolo, appunto) il corrispondente potere in capo al soggetto che ne è il portatore “sostanziale”. Per costruire un diverso tipo di effetti sul piano processuale, occorrerebbe postulare che il difensore eserciti un differente “potere” di impugnazione rispetto a quello attribuito all’imputato, o riconoscere ai due soggetti mezzi impugnatori diversi, evidentemente alternativi fra loro. Ed è proprio su questo versante che la tesi della “specialità” che distinguerebbe l’ipotesi delineata dall’art. 175, comma 2, cod, proc. pen., rispetto all’ordinario regime delle impugnazioni, finisce per prestare il fianco alle più serie perplessità; giacchè, anche a voler ammettere in capo al contumace “restituito” nel termine, uno statuto impugnatorio del tutto peculiare e financo extra ordinem, si annetterebbe al suo rimedio (gravame o quaerela nullitatis che sia) il connotato di una impugnazione sostanzialmente “revocatoria” della impugnazione già celebratasi a suo carico su “azione” del suo difensore, ma senza che il relativo giudicato venga ad essere in alcun modo incrinato: tanto da essere evocato il rimedio “postumo”, offerto in executivis, dall’art. 669 cod. proc. pen.. Conseguenze, quelle accennate, che, evidentemente, non soltanto non si ricavano dall’enunciato normativo – silente e, dunque, anodìno sul punto – ma che appaiono in chiara rotta di collisione rispetto allo stesso nomen dell’istituto attinto, il quale, costruendo un meccanismo ripristinatorio del “termine” per proporre impugnazione in favore dell’imputato contumace e ignaro, “naturalmente” presuppone che quella stessa parte non abbia già fruito della medesima impugnazione dalla quale è decaduta.

5. - Dunque, le altalenanti scelte che, come si è già accennato, sono state compiute dal Parlamento nel corso dei lavori preparatori relativi alla conversione in legge del più volte richiamato d.l. n. 17 del 2005, testimoniano senz’altro che il problema della preclusione alla restituzione nel termine per il contumace, derivante dalla impugnazione proposta dal difensore, è stata questione tenuta presente dal legislatore: ma non dimostrano affatto – come pretenderebbe l’orientamento di giurisprudenza che qui non si condivide – che il silenzio serbato circa quella preclusione, nel testo poi approvato, abbia voluto intendere la sua eliminazione; giacchè, sono proprio i rilevi dianzi indicati (in particolare, l’omessa disciplina delle gravi conseguenze di sistema che ne sarebbero derivate) a convincere del fatto che a quel silenzio ben possa annettersi, più semplicemente, il significato della ritenuta superfluità di una regola, già insita nelle disposizioni generali sulle impugnazioni.

D’altra parte, neppure può ritenersi persuasiva la tesi (v. la richiamata sentenza De Los Reyes) secondo la quale «risulterebbe palesemente contraddittoria una disciplina che, nel momento stesso in cui riconosce il diritto alla restituzione a favore di chi non ha avuto conoscenza del processo, introducesse una preclusione dipendente non da una sua condotta, ma da quella del difensore di ufficio che abbia esercitato l’impugnazione ad insaputa dell’interessato». L’assunto, infatti, è agevolmente ribaltabile, giacchè contraddittoria potrebbe ritenersi, non la preclusione alla restituzione, ma la ritenuta legittimazione del difensore a proporre impugnazione anche insciente domino, scaturita dalla novellazione dell’art. 571 cod. proc. pen. ad opera dell’art. 46 della legge n. 479 del 1999. Ma una volta che il legislatore ha ritenuto di affidare alle autonome scelte del difensore del contumace – sia esso di fiducia che di ufficio - il diritto di proporre impugnazione, l’esercizio di tale potere non può considerarsi un “nulla” per la parte in favore della quale l’azione di impugnativa è stata esercitata e dei cui effetti è messa in condizione di beneficiare. Ove così non fosse, infatti, la irrevocabilità della sentenza, nei confronti del contumace inconsapevole, finirebbe per assumerebbe lo stesso valore, tanto nella ipotesi in cui la irrevocabilità fosse derivata dal semplice spiare dei termini per la proposizione della impugnazione, che nel ben diverso caso in cui il giudicato sia dipeso dal previo, completo esaurimento dei vari gradi di giudizio. Il che determinerebbe un favor davvero eccessivo, ai limiti della stessa compatibilità con il principio di uguaglianza rispetto agli altri imputati. D’altronde, neppure può sottacersi l’intrinseca incoerenza che presenterebbe un modello processuale che, da un lato, consentisse l’attivazione di tutti i mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento – facoltà, questa, che all’evidenza integra l’esercizio di una attribuzione eminentemente difensiva, al punto che, proprio per consentirne il pieno sviluppo, il legislatore del 1999 ha ritenuto di permettere senza limiti l’impugnazione al difensore del contumace – e, dall’altro lato, (in ossequio alle stesse esigenze di difesa) affidasse al contumace (anche se inconsapevole) il potere di rinnovare la sequenza impugnatoria, lasciando inalterata la validità e l’efficacia dell’originario procedimento e dei relativi gradi di giudizio.

Per altro verso, nemmeno l’insistito richiamo che la sentenza De Los Reyes opera alla già rammentata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, appare nella specie conducente. Nella decisione Sejdovic c.Italia del 10 novembre 2004, infatti, la Corte europea, rievocando alcuni precedenti, fra i quali la nota e già citata sentenza Colozza c.Italia del 12 febbraio 1985, ha ricordato che «per quanto non espressamente menzionata al paragrafo 1 dell’art.6 [della Convenzione europea dei diritti dell’uomo], la facoltà per l’ “accusato” di prendere parte all’udienza discende dall’oggetto e dalla ratio dell’insieme dell’articolo. Del resto, gli alinea c), d), ed e) del paragrafo 3 riconoscono ad “ogni persona accusata” il diritto di “difendersi personalmente”, “esaminare o far esaminare i testimoni” e “farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”, cose che non si concepiscono senza la sua presenza». «Se una procedura che si svolge in assenza dell’imputato non è in sè incompatibile con l’art. 6 della Convenzione, resta il fatto che – soggiunse la Corte – vi è un diniego di giustizia quando un individuo condannato in absentia non può ottenere successivamente che una giurisdizione statuisca di nuovo, dopo averlo sentito nel rispetto delle esigenze dell’art. 6 della Convenzione, sul merito dell’accusa in fatto ed in diritto, ove non sia stabilito in maniera non equivoca che egli ha rinunciato al suo diritto di comparire e di difendersi». Pertanto, «...un condannato che non può essere considerato rinunciante in maniera non equivoca a comparire deve in ogni circostanza poter ottenere che una giurisdizione statuisca nuovamente sul merito dell’accusa». Avuto riguardo, poi, alla natura della violazione riscontrata, e tenuto conto del fatto che la vicenda di specie aveva rivelato «l’esistenza nel sistema giuridico italiano di un difetto, in conseguenza del quale ogni persona condannata in contumacia che non sia stata informata in maniera effettiva delle accuse potrebbe vedersi privare di un nuovo processo», la Corte conclusivamente ritenne (v. punto 47 della decisione) che lo Stato convenuto dovesse «sopprimere ogni ostacolo legale che potrebbe impedire la riapertura del termine per proporre appello o la tenuta di un nuovo processo nei confronti» del contumace inconsapevole che non abbia rinunciato in maniera non equivoca al proprio diritto a comparire.

Dunque, la Corte europea ha evocato, quali strumenti di adeguamento dell’ordinamento nazionale ai principi della Convenzione, o la possibilità di coltivare un appello il cui termine è incolpevolmente decorso per il contumace inconsapevole e non rinunciante; o un meccanismo analogo ad una sorta di “purgazione” del giudizio contumaciale; ma non certo è pervenuta ad ipotizzare l’introduzione di un doppio giudizio impugnatorio, l’uno attivato dal difensore ed esauritosi attraverso l’esperimento dei vari mezzi di reclamo, di merito e di legittimità; e l’altro, promosso dal condannato, attraverso la restituzione nel termine (v., anche, la sentenza Pititto c. Italia, del 12 giugno 2007).

6. - Restano, come è ovvio, pienamente legittime le serie perplessità, manifestate in modo pressochè unanime dalla dottrina, circa la congruenza dei risultati cui è pervenuta la “riforma” introdotta dal richiamato d.l. n. 17 della 2005, specie in ragione delle affrettate e radicali manipolazioni subite dal decreto stesso in sede di conversione in legge. A prescindere, infatti, dalle aporie tecniche ampiamente denunciate nel corso della discussione svoltasi in Assemblea in occasione del secondo passaggio del provvedimento in Senato (si vedano, in particolare, tutti gli interventi svoltisi nel corso della seduta del 20 aprile 2005, fortemente critici in ordine alle modifiche apportate dalla Camera, considerata anche la assenza di tempi tecnici per porvi rimedio), la riproposizione del meccanismo della restituzione nel termine per proporre impugnazione, quale strumento di garanzia per il contumace “inconsapevole”, finiva per apparire – quanto meno alla luce dell’enunciato normativo – un istituto dalle ambigue connotazioni. Come, infatti, fu icasticamente sottolineato nel corso dei lavori parlamentari, la riformulazione dell’art. 175 cod. proc. pen., da un lato, “concedeva troppo”, in quanto allargava eccessivamente la platea dei fruitori della restituzione sopprimendo il requisito della incolpevolezza della contumacia; dall’altro, “concedeva troppo poco”, apparendo eccessivamente angusti i confini “riparatori” che potevano scaturire della impugnazione. «Nelle ipotesi in cui veramente il soggetto non abbia avuto conoscenza del processo e non ne abbia alcuna colpa – si è infatti sottolineato – non basta dirgli che gli si consente di andare in appello, perchè tutte le facoltà che egli poteva esercitare in primo grado gli sono precluse, dalle eccezioni all’invocazione di determinati strumenti di prova, alle osservazioni sulla formazione del fascicolo dibattimentale: tutto ciò, appunto, gli è precluso, lo rimettiamo semplicemente nella condizione in cui un giudice verifica se il primo processo è stato fatto bene, se ha registrato delle conclusioni apprezzabili. Ma questo – fu pure puntualizzato – non è sufficiente, proprio perchè l’articolo 6 della Convenzione prevede tutta una serie di facoltà, una parte soltanto delle quali gli sono restituite» (Sen. Fassone, Assemblea, Senato, 12 aprile 2005). Sul primo versante, infatti – quello relativo al sensibile ampliamento delle possibilità di ottenere la restituzione nel termine – è agevole osservare come la sostanziale perequazione di trattamento tra il contumace “incolpevole” e chi si sia volontariamente sottratto al processo ed alla ricezione dei relativi atti (come presuppone lo status di latitanza, a norma dell’art. 296 cod. proc. pen.) sia in grado di generare conseguenze al limite della compatibilità con il principio di ragionevolezza. Quanto, invece, al secondo aspetto – vale a dire la dubbia efficacia della impugnazione a valere quale idonea misura “ripristinatoria” per il giudicato in absentia che abbia sconosciuto il processo a suo carico – basterà osservare come il contumace restituito nel termine subisca, non solo la cristallizzazione del materiale di prova formatosi a suo carico nel giudizio (con potenziale vanificazione del suo diritto di “difendersi provando”), ma anche tutte le preclusioni relative allo stadio processuale già raggiunto: prime fra tutte – va rilevato – quelle connesse alla celebrazione dei riti alternativi, pur evocati dalla giurisprudenza costituzionale, come altrettante espressioni del diritto di difesa (cfr., ex plurimis, Corte cost. sentenza n. 148 del 2004).

7. - Da tutto ciò, si è osservato in dottrina, la individuazione di due possibili alternative per allineare il sistema processuale ai dicta della Corte europea ed ai principi del “giusto processo,” non a caso delineati dall’art. 111 Cost. in significativa assonanza con i “diritti” sanciti dall’art. 6 della C.E.D.U.: escludere la stessa ammissibilità del giudizio in contumacia, come avviene (ma non soltanto) nei Paesi che adottano un modello di tipo accusatorio, e dunque prevedere ante portas un meccanismo di sospensione del procedimento, salva – eventualmente – la rinuncia dell’imputato a comparire; oppure, consentire all’imputato giudicato in contumacia, ed incolpevolmente ignaro del processo a sua carico, di essere nuovamente giudicato nella pienezza dei suoi diritti. Ipotesi, quest’ultima, per la verità, neppure ignota alla tradizione codicistica, essendosi a tal proposito rievocato, come pertinente “precedente,” l’istituto della “purgazione” della contumacia, previsto dall’art. 475 del codice Finocchiaro – Aprile del 1913. In particolare, la purgazione, come si desumeva anche dalla sua collocazione sistematica, non era annoverabile tra i mezzi di impugnazione, dal momento che si verificava ope legis, a prescindere dalla volontà dell’interessato: tanto da essere definita, dalla dottrina dell’epoca, come “rimedio” o “istituto restitutivo giurisdizionale”. La ragion d’essere dell’istituto aveva tratti di attualità sorprendenti: la condanna contumaciale, infatti, si reputava come se fosse stata intrinsecamente afflitta da un difetto di completezza istruttoria, sicchè rispondeva ad un interesse generale quello di restituire ex novo l’imputato, già contumace e che compariva, nei suoi diritti; si ravvisava, in particolare – come assai “modernamente” puntualizzava la Relazione al progetto del 1905 – la «necessità che la coscienza pubblica» si acquietasse «nella sicurezza che mai potesse» essere eseguita una pena «in mancanza di un precedente contraddittorio». Conseguenziale era, dunque, a tale meccanismo officiosamente ripristinatorio, la statuizione per la quale la precedente condanna doveva ritenersi caducata (la proposizione finale dell’art. 475,comma 1, stabiliva, infatti, che «la sentenza si ha come non avvenuta»).

Per ciò che invece attiene alla prima delle due alternative innanzi accennate (precludere il giudizio “senza” l’imputato), si è, per la verità, seriamente dubitato della stessa compatibilità costituzionale del giudizio in contumacia rispetto ai principi sottesi all’art. 111 Cost., tenuto conto del fatto che il processo in absentia mal si presta, a tutta prima, a realizzare appieno i valori del contraddittorio. Valori, si è pure osservato, che sarebbero poi platealmente elusi, nella ipotesi in cui la contumacia non fosse dipesa da una scelta volontaria e consapevole, giacchè risulterebbe in concreto impossibile garantire, in tal caso, la piena osservanza dell’indicato parametro di costituzionalità, in particolare nella parte in cui viene sancito il diritto dell’imputato di essere informato nel più breve tempo possibile della «natura e dei motivi» della accusa elevata a suo carico, e di disporre, conseguentemente, del tempo e delle condizioni necessarie «per preparare la sua difesa».

Da qui, si è rilevato, l’opportunità di prefigurare, per tali ipotesi, l’intervento di meccanismi sospensivi del procedimento, sulla falsariga dell’istituto delineato dall’art. 71 del codice di rito, per il caso di incapacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo. Il richiamo alla sospensione del processo, anzi, assume uno specifico risalto proprio nella prospettiva, innanzi additata, di verificare la compatibilità costituzionale del processo in contumacia rispetto al nuovo testo dell’art. 111 Cost., posto che, con ordinanza del 31 gennaio 2006, il Tribunale di Pinerolo ebbe a sollevare, fra l’altro in riferimento proprio all’art. 111, secondo, terzo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevedono la sospensione obbligatoria del processo nei confronti degli imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio sia stato notificato previa emissione del decreto di irreperibilità». Merita di essere ricordato – perchè significativo agli effetti della odierna decisione – l’iter logico che condusse i giudici a quibus a sollevare l’indicato quesito di costituzionalità. Il Tribunale di Pinerolo, anzitutto, si mostrò consapevole del fatto che il giudice delle leggi, con la sentenza n. 399 del 1998, aveva già dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 160 cod. proc. pen., sul rilevo che il legislatore del nuovo codice (addirittura “anticipato”, come si è visto, rispetto alla sua entrata in vigore, dalla legge 23 gennaio 1989, n. 22) aveva previsto una disciplina particolarmente rigorosa in tema di ricerche ai fini delle notificazioni degli atti, proprio allo scopo di limitare al massimo i processi a carico di irreperibili, stabilendo al tempo stesso, nell’ambito dell’art. 175 cod. proc. pen., strumenti riparatori che consentissero, a chi fosse stato giudicato a sua insaputa col rito degli irreperibili, di esercitare il proprio diritto di difesa. Malgrado ciò, il Tribunale di Pinerolo ritenne che la questione dovesse essere riproposta, alla luce delle modifiche subite dall’art. 111 Cost., e del principio del contraddittorio in esso affermato, in conformità con le previsioni dettate dall’art. 6, lettere a) e b), della C.E.D.U.: principio la cui “effettività” dovrebbe essere salvaguardata, non soltanto per assicurare il diritto di difesa, ma anche quale «garanzia oggettiva rispondente ad un interesse di rilevanza pubblicistica». Infatti, osservava l’ordinanza di rimessione, fino al momento in cui l’imputato non è messo nelle condizioni di conoscere l’accusa, ricevendo una citazione, non esisterebbe nemmeno un “simulacro” di contraddittorio.

Secondo il rimettente, quindi, per superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale, si dovrebbe imporre la sospensione del processo nei confronti degli irreperibili e, a tal proposito, nel rammentare che l’art. 71 cod. proc. pen. prevede la sospensione del processo qualora l’imputato sia incapace, la stessa ordinanza sottolineava come la situazione di colui che ignora la pendenza del processo a suo carico, perchè irreperibile, fosse assimilabile a quella di chi, essendo incapace, non è in grado di conoscere e valutare la pendenza del processo e difendersi.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 117 del 2007, ha dichiarato non fondata la questione dianzi rammentata, assumendo – in termini schematici – che «ciò che conta, è pur sempre la tutela del diritto di difesa» e ricordando, a tal proposito, «che la stessa Corte di Strasburgo, ancora di recente, con la seconda sentenza emessa nel caso Sejdovic (sentenza della Grande Camera del 1° marzo 2006), non ha negato in linea di principio il rilievo che possono assumere idonee misure ripristinatorie». Al di là degli argomenti, resta dunque il fatto che il Giudice delle leggi, nell’affermare espressamente che «la CEDU non accorda in tema di processo in abstentia garanzie maggiori di quelle previste dall’art. 111 Cost», ha ritenuto che queste garanzie rinvengano nel sistema vigente adeguata attuazione, senza dover ricorrere, quindi, a meccanismi “preventivi”, quali la sospensione del processo nei confronti degli irreperibili, lumeggiato dal giudice a quo e da una parte non trascurabile della dottrina. E’ quindi del tutto naturale presupporre che la Corte costituzionale, nel pervenire ad una simile, tranquillante conclusione, abbia avuto ben presente l’intero quadro normativo in cui si compongono gli strumenti destinati a soddisfare il parametro costituzionale e le consimili norme della C.E.D.U.: quindi, anche (e soprattutto) i presupposti e le modalità secondo le quali può trovare concreta attuazione la misura “ripristinatoria”, offerta dall’art. 175 cod. proc. pen.

Posto, dunque, che, a far tempo dalla entrata in vigore della legge 479 del 1999, non era più precluso al difensore, non munito di specifico mandato, proporre impugnazione avverso le sentenze contumaciali, ne deriva che l’esaurimento – da parte del difensore del contumace – di tutti i gradi di impugnazione spettanti all’imputato (e la conseguente impossibilità, per quest’ultimo, di proporre a sua volta impugnazione, attraverso l’istituto della restituzione nel termine), è stata implicitamente ritenuta, dalla Corte, una eventualità non incompatibile con la difesa “sostanziale” dello stesso contumace.

D’altra parte, se il legislatore ha ritenuto di affidare al difensore del contumace la scelta consapevole e responsabile se esercitare il diritto di impugnazione, ed impedire la irrevocabilità della sentenza, anche a costo di precludere l’impugnazione “tardiva” del contumace stesso attraverso la restituzione nel termine, ovvero mantenere inalterata quest’ultima possibilità (e tutto ciò, va ricordato, su base chiaramente testuale, quantomeno nel periodo intercorso dalla entrata in vigore della legge n. 479 del 1999 e sino all’ultima modifica dell’art. 175 cod. proc. pen.), deve dedursi che il sistema positivo – a fronte di determinate evenienze – ha evidentemente ritenuto (quale opzione non arbitraria e, come si è visto, costituzionalmente compatibile) di far prevalere i profili della difesa tecnica rispetto alla difesa “personale”, attribuendo, appunto, direttamente al difensore la scelta “tecnico- processuale” dei rimedi da percorrere nell’interesse del contumace. Per altro verso – e per concludere sul punto – a segnalare la evidente incompatibilità tra l’istituto della restituzione nel termine e l’esercizio del diritto di impugnazione da parte del difensore, sta, a ben guardare, la stessa ordinanza che ha generato l’odierno ricorso, giacché in essa espressamente si riconosce che, essendosi già celebrato l’appello nei confronti del contumace – a seguito della impugnazione proposta dal difensore – l’unico «grado di giudizio non sperimentato neppure dal suo difensore di ufficio», e per il quale poteva dunque trovare applicazione la restituzione nel termine, era, appunto, soltanto il giudizio «davanti alla Corte di cassazione».

8. – Le conclusioni cui si è dianzi pervenuti, paiono, infine, avvalorate anche dai più recenti approdi cui è pervenuta la giurisprudenza costituzionale (v., in particolare, le sentenze n. 348 e 349 del 2007), proprio sul tema della natura, della efficacia e dei “controlli” che, nel sistema delle fonti, deve essere assegnato alle disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle interpretazioni che di esse dà la Corte di Strasburgo. La Corte costituzionale, in particolare, nel sottolineare la differenza tra le norme C.E.D.U. e le norme comunitarie, ha sottolineato come le prime, pur rivestendo grande rilevanza, «sono pur sempre norme internazionali pattizie, che vincolano lo Stato, ma non producono effetti diretti nell’ordinamento interno, tali da affermare la competenza dei giudizi nazionali a darvi applicazione nelle controversie ad essi sottoposte, non applicando nello stesso tempo le norme interne in eventuale contrasto». Dunque, la disapplicazione della disposizione di legge da parte del giudice che reputasse una determinata disciplina non conforme alle previsioni della C.E.D.U., sarebbe illegittima, perchè in contrasto con la stessa Costituzione. Alle norme della CEDU – ha puntualizzato la Corte – deve invece assegnarsi il rango di “fonti interposte”, destinate ad integrare il parametro offerto dall’art. 117 Cost., il cui primo comma impone al legislatore, nazionale e regionale, di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione. Tuttavia, proprio perchè si tratta di norme che integrano il parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del giudice delle leggi. Poichè, quindi – ha sottolineato ancora la Corte - «le norme della CEDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea, la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sè e per sè considerata. Si deve pertanto escludere – ha concluso la Corte – che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione».

Ne deriva, pertanto, che la tesi secondo la quale – alla luce dei dicta della Corte europea – l’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., assumerebbe i connotati di uno ius singulare, derogatorio (come puntualizza la sentenza De Los Reys) “rispetto alle regole generali sulle impugnazioni”, producendo una evidente disapplicazione in parte qua di quelle regole, perchè in ipotesi ritenute non conformi alle garanzie della CEDU – come interpretate dalla Corte di Strasburgo – si rivela essere soluzione impraticabile, perchè ormai chiaramente additata come contraria alla stessa Costituzione. Al tempo stesso, la astratta configurabilità di una duplicazione di impugnazioni, promananti le une dal difensore, e le altre dall’imputato, rappresenterebbe una opzione (per la verità, neppure mai “suggerita” dalla Corte europea) palesemente incompatibile, a tacer d’altro, con la esigenza di assegnare una “ragionevole durata” al processo, imposta dall’art. 111 Cost. e dallo stesso art. 6 della CEDU. Donde la necessità, anche sul piano squisitamente ermeneutico, di bilanciare le garanzie normativamente stabilite per il contumace, con la tutela di tutti gli altri interessi costituzionalmente presidiati.

9. – La conclusione cui occorre pervenire è, dunque, nel senso che la impugnazione proposta dal difensore, di fiducia o di ufficio, nell’interesse dell’imputato contumace, una volta che – come nella specie – sia intervenuta la relativa decisione, preclude all’imputato la possibilità di ottenere la restituzione nel termine per proporre a sua volta impugnazione. Avendo, quindi, la Corte di assise di appello di Roma concesso in favore dell’imputato la restituzione nel termine per proporre ricorso per cassazione, sull’erroneo presupposto che tale mezzo di impugnazione non fosse stato in precedenza proposto dal difensore e che non fosse intervenuta la decisione di questa Corte, la relativa statuizione si pone palesemente al di fuori delle attribuzioni spettanti al giudice a quo, rendendo quindi inammissibile il conseguente ricorso rassegnato dal difensore dell’imputato.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, mentre non si ravvisano i presupposti per condannare il ricorrente stesso al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, avuto riguardo ai principi sanciti dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000. Il ricorrente deve invece essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo.

P. Q. M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 3.500,00, oltre accessori come per legge.

 
 
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