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Alla luce della recente innovazione legislativa apportata con l’art.5 del D.l. 3 agosto 2007 n. 117 convertito in l. 2.10.2007 n. 160 che ha depenalizzato il rifiuto di sottoporsi all’accertamento dell’avvenuta assunzione di sostanze alcoliche o stupefacenti, le sanzioni penali previste per i reati di cui all’ art. 651 cp ed all’art. 6 comma III Dl.vo 286/98 possono apparire sperequate in eccesso, sottintendendo tale novità legislativa un sensibile mutamento dei valori etici e giuridici e della scala gerarchica in cui sono collocati.
Così che dette norme penali, nella parte in cui prevedono la sanzione dell’arresto e/o dell’ammenda, potrebbero adesso contrastare con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 97, primo comma, della Costituzione.
Infatti, la rilevante disomogeneità qualitativa e quantitativa del trattamento sanzionatorio previsto per tali reati rispetto a quello di cui agli artt. 186 VII comma e 187 VIII comma C.d.S. non sembra infatti trovare giustificazione nella maggiore sensibilità del bene giuridico tutelato. Poiché dette violazioni di carattere amministrativo del codice della strada sembrano avere una valenza plurioffensiva che difetta invece sia nel reato di rifiuto di indicazioni sulla identità personale, sia nel reato di mancata esibizione di documenti da parte dello straniero tradizionalmente concepiti, il primo, ad esclusiva tutela dell’ordine pubblico ed il secondo ad esclusiva tutela e della disciplina dell’immigrazione.
Inoltre, per quanto riguarda la condotta tipica, si può notare come il legislatore del 2007, da un lato si sia preoccupato di descrivere in dettaglio, riducendoli al rango di meri illeciti amministrativi, comportamenti integranti rifiuti assai più marcati ed insidiosi rispetto al rifiuto di declinare farsi identificare, dall’altro, sempre depenalizzando il rifiuto a sottoporsi ad accertamento tramite alcotest, ha evidentemente ritenuto di riservare la sanzione penale solo a condotte particolarmente offensive dei beni interessi protetti.
Oltre al contrasto con l’art. 3 Cost., sembrano ipotizzabili altri profili di incostituzionalità atteso che l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti in cui si concretano i reati di cui agli artt. 651 c.p. e 6 Dl.vo citato, specie qualora siano di lieve entità e pertanto richiedano l’applicazione del minimo della pena, comprometterebbe la finalità rieducativa della sanzione penale con conseguente violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost.
La Corte Costituzionale ha avuto già occasione di esaminare problemi analoghi a quelli sopra accennati.
Infatti, respingendo questioni di legittimità costituzionale formulate con esclusivo riferimento all'art.3 Cost. per via dell'asserita arbitraria diversificazione sanzionatoria tra il reato di oltraggio e quello di ingiuria, la Corte dava conto del fatto che la norma allora impugnata appariva espressione di una concezione autoritaria, ma affermava che la sua eventuale modifica competeva al legislatore (sentenze nn. 109 del 2 Luglio 1968; 165 del 21 novembre 1972; 51 del 2 aprile 1980).
In seguito, pronunziandosi su una questione analoga, con la quale però si contestava anche, e specificamente, la eccessiva sproporzione del minimo edittale per l'oltraggio in riferimento alla finalità rieducativa della pena di cui all'art.27 comma III Cost., la Corte, rigettata la censura relativa all'art.3 Cost., ammetteva che "rimane sicuramente, specie in talune ipotesi di fatto, una effettiva sproporzione fra sanzione comminata e disvalore del fatto", ma ribadiva nuovamente che ogni iniziativa in proposito competeva al legislatore (ordinanza n. 323 del 10 marzo 1988).
Successivamente, esaminando un' analoga questione la Corte ne pronunziava la manifesta infondatezza, da un lato, ribadendo ancora una volta la spettanza al legislatore del giudizio sulla congruenza della pena rispetto al fatto-reato anche in relazione alla mutata coscienza sociale e ai principi costituzionali; dall'altro, sottolineando come l'art.27 comma III Cost. non fosse invocabile nel caso di specie poiché il fine rieducativo della pena andava riferito esclusivamente alla fase di esecuzione di essa (ordinanza n.127 del 6 marzo 1989).
In ordine a questo primitivo orientamento la Corte Costituzionale, nella sentenza 25 luglio 1994 n.341 che ha ritenuto illegittimo il minimo edittale di sei mesi di reclusione previsto per il reato di oltraggio, ha osservato come il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, si legge in sentenza, “alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza”.
In particolare, con la sentenza n.409 del 6 luglio 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che "il principio di uguaglianza, di cui all'art.3, I comma,Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza" (nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993).
Infatti, più in generale, "il principio di proporzionalità ... nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni" (sentenza n. 409/89 citata).
In altre decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca "una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue": tale finalità rieducativi implica pertanto un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 26 giugno 1990; sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993).
In applicazione di questi principi le sentenze ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni dell'art. 27 comma III Cost.. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che "la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale" provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito "produce...una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art.27 comma III Cost., che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione".
Orbene, al fine di valutare la rispondenza delle previsioni contestate ai ricordati criteri di giudizio, e segnatamente al principio di proporzionalità, è possibile sostenere che la previsione della sanzione penale per le violazioni dell’art.651 c.p. e 6 D.l.vo citato anche come minimo edittale e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni, non appare consona alla tradizione liberale nazionale né a quella europea.
Tale severità sembra, di colpo, alla luce della recente conversione del citato decreto legge a modifica di dette norme del codice della strada, piuttosto come il prodotto di una ormai anacronistica concezione sacrale del controllo delle frontiere e della polizia di sicurezza, tipica di un'epoca storica ormai superata e discendente da matrici ideologiche non più aderenti alla coscienza democratica instaurata dalla Costituzione repubblicana che in ultima analisi sembra privilegiare i valori delle garanzie a presidio della libertà individuale a quelli del mero controllo di polizia.
Il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena non può non tenere conto del recente mutato assetto normativo che ha determinato la depenalizzazione della condotta di coloro che rifiutano di sottoporsi all’accertamento etilometrico.
Già questa prima, più generale, considerazione induce dunque a ritenere che la rigidità e severità del legislatore del 1930 e del 1998, sia frutto di bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra la tutela dell’osservanza dei provvedimenti di polizia sicurezza, anche nei casi di minima entità quale il rifiuto di declinare le proprie generalità o la mancata esibizione di documenti, e la libertà personale del soggetto agente.
Ulteriore sintomo della definitiva affermazione, nella coscienza sociale, della convinzione della palese incongruenza di tali previsioni sanzionatorie è dato dall'atteggiamento dei giudici di merito che, nel ritenere la norma incriminatice dell’ art. 6 citato, volta a colpire una gamma di comportamenti generalmente di tenue o minima offensività, hanno spesso avvertito il disagio, talvolta non celato in sede di motivazione, di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive, mitigate con il ricorso comunque alla pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva.
Il medesimo disagio deve essere stato condiviso anche dalla Suprema Corte con una giurisprudenza, peraltro autorevole, ma minoritaria, che riteneva la norma non applicabile agli stranieri clandestini.
La potenziale irragionevolezza delle norme di cui all’art. 651 c.p. e all’art.6 oggetto del dubbio di costituzionalità può dunque emergere, come sopra evidenziato, soprattutto dall’attuale trattamento sanzionatorio di rango amministrativo previsto dai citati artt. 186 e 187 C.d.S.
La già menzionata plurioffensività delle citate condotte del codice della strada renderebbe ragionevole una pena più grave di quelle contemplate per le norme penali citate, in relazione alle esigenze di protezione di interessi che investono un numero indeterminato di potenziali parti offese ed addirittura presidiano la sicurezza delle strade.
Pertanto, almeno nei casi meno significativi di mancata esibizione di documento di identità o di rifiuto di fornire le generalità, le esigenze di sicurezza appaiono scalfite da condotte assai meno allarmanti di quelle descritte nelle citate fattispecie di rilevanza amministrativa del codice della strada, così che i contravventori appaiono colpiti da pene, dal punto di vista qualitativo, di gran lunga più afflittive di quelle di natura amministrativa previste per i conducenti di veicoli che rifiutano di sottoposti agli accertamenti.
Anzi, in questi casi appare più che mai evidente l'irragionevole bilanciamento tra la tutela dell’osservanza dell’ordine di polizia o di pubblica sicurezza ed il valore della libertà personale.
Tale riforma del codice della strada, almeno limitatamente alla depenalizzazione delle condotte di rifiuto, appare dunque ispirata ad una concezione meno oppressiva dei rapporti tra autorità che vigila sulla sicurezza della strada e utente della stessa.
Si può pertanto concludere che sussistono seri dubbi di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma e 97 I comma della Costituzione, sia dell’art. 651 codice penale sia dell’ art. 6 comma III dl.vo 286/98 nella parte in cui prevedono le sanzioni penali dell’arresto e/o dell’ ammenda che il nostro ordinamento comunque considera l’ extrema ratio per reagire alle condotte devianti dei consociati.
Livorno, lì 23 gennaio 2008
Massimo Mannucci magistrato - febbraio 2008
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