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Contagio da HIV e lesioni personali
R. A. nato a XXX il XXXXXX difeso di fiducia dall’avv. P. Foti del foro di Savona presso il cui studio elegge domicilio
IMPUTATO
Art. 582 cp, 583 c. 2 n. 1 cp perchè, essendo sieropositivo, avendo consapevolezza della propria malattia ed essendo stato edotto circa i modi di trasmissione del virus, consumando plurimi e ripetuti rapporti sessuali con G. L. senza alcuna precauzione , tacendo alla predetta le proprie condizioni di salute e le conseguenze, a lui note, derivanti da tali rapporti, cagionava alla predetta G. lesioni personali gravissime (malattia per HIV certamente o probabilmente insanabile) ; accertato in Savona 13/6/05
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Nei confronti dell’imputato e’ stato chiesto il rinvio a giudizio per rispondere del reato di lesioni gravissime perche’ essendo consapevole della propria sieropositivita’ consumava con la p.o. plurimi e ripetuti rapporti sessuali senza protezione alcuna tacendo alla stessa il suo stato di salute e cosi’ infettando la stessa .
All’udienza lo stesso e’ rimasto contumace
La p.o. si e’viceversa ritualmente costituita parte civile
Il difensore, munito di procura speciale, instava per la ammissione al giudizio abbreviato dapprima subordinandolo alla escussione di due testi e poi all’escussione della sola teste C. , ex coniuge del R. .
L’istanza veniva accolta
Agli atti sono presenti la querela della p.o. con allegate le analisi e la stampa di alcune email , il verbale di sit della p.o. , il verbale di sit del dr. Anselmo Marco , primario del reparto malattie infettive dell’Ospedale di Savona , della dr. Carozzi Silvia del reparto di nefrologia dello stesso ospedale e amica della p.o., altri sit , la cartella clinica della p.o. e dell’imputato , la perizia eseguita in incidente probatorio dal dr Scaglione dell’Ospedale Niguarda di Milano , il verbale di interrogatorio dell’imputato.
In detto verbale il R. ammetteva di aver avuto plurimi rapporti non protetti con la p.o. pur non sapendo indicare la precisa quantita’ degli stessi. Si e’ giustificato sostenendo di aver subito informato la compagna della sua ex tossicodipendenza nonche’ della sua sieropositivita’ e della infezione da epatite C, cosi’ come a suo tempo aveva informato la ex moglie dalla quale aveva poi avuto un figlio per vie naturali , cosi’ come di recente ha informato la attuale convivente. Ammetteva di essere consapevole della sua sieropositivita’ e dei rischi legati al suo quadro clinico dal 1986, ma aggiungeva che riteneva “impossibile avere rapporti sempre completamente protetti con le persone con le quali si hanno relazioni continuative, poiche’ ogni contatto sessuale diverso dalla penetrazione puo’ essere potenzialmente fonte di pericolo.”
Circa la quantità dei rapporti ha comunque spiegato che dal 2000 al 2002, ossia fino a quando conviveva con la moglie, i rapporti con la p.o. erano di circa uno a settimana, mentre successivamente ammetteva che i rapporti si fecero piu’ intensi. Quanto a possibili altre fonti di contagio riconosceva che, per quanto a sua conoscenza, mai la G. lo aveva tradito durante il loro rapporto amoroso . Riferiva, invece, di essere a conoscenza che la donna nel 2004 aveva subito un intervento chirurgico al ginocchio.
Il quadro cosi’ fornito dall’imputato conferma sostanzialmente quanto sostenuto dalla p.o. circa la nascita e la evoluzione della relazione, mentre si discosta totalmente quanto alla informazione sulla sieropositivita’.
In particolare i due racconti coincidono quanto alla indicazione del periodo della relazione amorosa , durata dal 2000 all’agosto 2004 e sugli occasionali rapporti successivi quando ormai la donna era a conoscenza dell’avvenuto contagio e sulla circostanza che il R. abbia fin da subito confessato di essere stato tossicodipendente. Si discostano di poco in punto quantita’ dei rapporti. La divergenza fondamentale si registra in sostanza in punto consenso della p.o. ad avere rapporti non protetti pur essendo informata della infezione in atto .
La donna, infatti, sia nell’atto di querela , sia nella audizione successiva ha sempre negato di essere stata informata della sieroposititvita’ del compagno ed ha anche spiegato di non aver dato peso alla notizia della pregressa tossicodipendenza sapendo che il R. era stato sposato con una donna sana e con lei aveva concepito ed avuto un figlio sano.
All’udienza del 15.11.07 veniva escussa la teste richiesta, ex moglie del R. , la quale confermava il racconto dell’imputato, ossia di essere stata informata dal R. della sieropositivita’ dopo poco che si erano conosciuti e di aver consapevolmente deciso insieme a lui di avere rapporti sessuali non protetti tanto poi da concepire un figlio. Riferiva che ad oggi non aveva contratto alcuna infezione da HIV .
MOTIVI della DECISIONE
Cosi’ ricostruito il quadro probatorio, si osserva .
Punto nodale della vicenda e’ l’accertamento del nesso causale essendo del tutto irrilevante ai fini della configurabilita’ del reato l’eventuale consenso della vittima .
La operativita’ della esimente di cui all’art 50 c.p. va infatti esclusa in caso di diritti indisponibili quali sono le lesioni produttive di una diminuzione permanente della integrita’ fisica a fini non terapeutici. L’accertamento del consenso puo’ pertanto influire solo sulla valutazione della gravita’ della condotta e della concessione di eventuali circostanze attenuanti e in quindi solo in quella sede andra’ vagliata, non invece per valutare la sussistenza degli elementi essenziali del reato contestato .
NESSO CAUSALE
Le cartelle cliniche in atti confermano in modo inequivoco che il R. e’ sieropositivo almeno dal 1986 e che la donna non era sieropositiva nel 1999 e ha invece saputo della sua sieropositivita’ poco dopo che la relazione amorosa con il R. si era conclusa .
Dalla perizia in atti emerge che, a dire della donna, durante la relazione la frequenza dei rapporti fu di circa 3-4 atti alla settimana dal settembre 2000 al settembre 2001 e di circa 7 atti a settimana dal settembre 2001 all’agosto 2004 e poi di circa un atto a settimana dall’agosto 2004 all’aprile 2005 . Nessuna versione differente veniva fornita al perito dal R., mai presentatosi alle operazioni peritali pur essendo stato interpellato. ( La differente versione in punto quantita’ dei rapporti e’ stata dallo stesso fornita in sede di interrogatorio nanti il P.M. a perizia gia’ depositata ) .
Il perito , pertanto , accertato che il R. e’ infettivo dal 1986 , che viceversa la donna al 1999 non risultava infetta come emerge da un test di quell’anno , che il virus si e’ palesato a 56 mesi dall’inizio della relazione con il R. ( maggio 2005 ); considerati altresi’ il periodo e la quantita’ dei rapporti ( circa 1200 ) , sulla base della letteratura scientifica in materia che indica un tasso di trasmissione pari a 0,002 per singolo rapporto , ha concluso che in detta situazione la probabilita’ che il partner femminile non contraesse l’infezione era inferiore al 10% ( la probabilita’ infettiva viene piu’ precisamente quantificata nella percentuale del 90,95% ).
In presenza di queste conclusioni occorre ora chiedersi se il nesso causale risulti provato .
E’ noto che la teoria in oggi piu’ seguita dalla piu’ recente dottrina e giurisprudenza in punto nesso causale e’ il modello condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura secondo cui la condotta umana e' causa di un evento quando:
- e' conditio sine qua non del medesimo secondo un giudizio controfattuale dibile 10.11.06ra apareallo stato indispensabile per tutelare le residue e sempre esistenti esigenze cautelari di eliminazione mentale
- l'evento al momento della condotta era prevedibile secondo la miglior scienza ed esperienza del momento, valutazione da operare facendo ricorso alle c.d. leggi generali di copertura che permettono la verificabilita’ del ragionamento controfattuale , leggi che possono essere le leggi scientifiche c.d. universali o le leggi statistiche
Inevitabile in questo procedimento il ricorso alle leggi statistiche come quasi in ogni ipotesi in cui si discuta di malattie ( v . tra le altre da per chiarezza di argomenti Cass 17 settembre 2002 Marinari in Cass pen 2004 m. 768 )
Come si e’ spiegato la perizia ha accertato una probabilita’ di oltre il 90 % dato questo che , se valutato in assoluto , eviterebbe ogni altra discussione in punto nesso causale trattandosi di un parametro vicino alla certezza, e che quindi supererebbe qualunque discussione su quale teoria giurisprudenziale seguire.
Peraltro il dato statistico offertoci dal perito si fonda su un presupposto ( il numero dei rapporti sessuali ) non certo in quanto ricavato dalle dichiarazioni della sola parte offesa, dato che pertanto dovra’ essere verificato alla luce anche degli altri elementi acquisiti agli atti al fine di verificare se la probabilita’ statistica si tramuti nella c.d. probabilita’ logico – giuridica ( Cass . SEZ. UNITE 11 settembre 2002 , Franzese e Cass SEZIONI UNITE . 12.7.2005 n. 33748) .
Occorre in sostanza pervenire a canoni di certezza processuale non dissimili da quelli utilizzati per l'accertamento degli altri elementi costitutivi della fattispecie e che conducano ad un giudizio di responsabilita' caratterizzato da un "alto grado di credibilita' razionale."
In quest’ottica”, secondo la sentenza Franzese citata, “non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistìco prossimo ad 1,cioè alla certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa rispetto al singolo evento.” ( nel caso di discuteva di una ipotesi di reato omissivo improprio ) . Secondo le sezioni unite la “certezza processuale” può derivare anche dall’esistenza di coefficienti medio bassi di probabilità c.d. frequentista quando, corroborati da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza, nel caso di specie, di altri fattori interagenti, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del rapporto di causalità. Per converso livelli elevati di probabilità statistica o addirittura schemi interpretativi dedotti da leggi universali richiedono sempre la verifica concreta che conduca a ritenere irrilevanti spiegazioni diverse. Con la conseguenza che non è “consentito dedurre automaticamente -e proporzionalmente — dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità.
E’ inadeguato, infatti, sempre secondo la sentenza in esame, esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum mediante coefficienti numerici, mentre appare corretto enunciarli in termini qualitativi.
Solo con l’utilizzazione di questi criteri può giungersi alla certezza processuale sull’esistenza del rapporto di causalità in modo non dissimile dall’accertamento relativo a tutti gli altri elementi costitutivi della fattispecie con criteri non dissimili “dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p.” al fine di pervenire alla conclusione, caratterizzata da alto grado di credibilità razionale, che “esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio”. Mentre l’insufficienza, la contradditorietà e l’incertezza del riscontro probatorio, e quindi il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva , non possono che condurre alla negazione dell'esistenza del nesso di condizionamento."
La giurisprudenza piu’ recente, precisando questi concetti in materia di omissione di adozione di regole cautelari, ha confermato che in tema di lesioni colpose , il nesso causale sussiste non solo quando emerge con certezza che l’adozione delle norme precauzionali avrebbe scongiurato il prodursi dell’evento dannoso , ma anche nei casi in cui , pur potendosi escludere in assoluto la possibilita’ di un diverso meccanismo causale , non risultino dotate di ragionevole concretezza ipotesi alternative dell’insorgere dei processi morbosi ( piu’ di recente per tutte Cass 21.12.06 n. 41939)
Alla luce dei parametri cosi’ offerti da questa condivisibile giurisprudenza si deve evidenziare che nel caso di specie plurimi sono gli elementi che integrano i dati statistici della perizia gia’ di per se’ soli altamente significativi .
Nel caso di cui si discute non vi sono elementi per sostenere che senza i rapporti sessuali con il R. la G. si sarebbe infettata.
E’ pacifico che la donna non era infetta prima del rapporto , e lo e’ risultata poco dopo la conclusione dello stesso, quando - a seguito di una serie di malesseri che portano a ritenere l’infezione fosse gia’ in atto da alcuni mesi - si sottopose alle analisi confermative . La G., infatti , da alcuni mesi sentiva plurimi malesseri che convinsero infine i medici a sottoporla al test della HIV .
Durante il processo non e’ emerso alcun altro possibile fattore di contagio della donna .
La difesa ha citato una operazione al ginocchio nel 2004 cui la p.o. e’ stata pacificamente sottoposta , operazione peraltro che per sua natura non comporta trasfusioni o uso di emoderivati, uniche ipotesi che avrebbero potuto richiedere ulteriori accertamenti. Operazioni chirurgiche ordinarie non possono, salvo casi eccezionali da provare , portare ad alcun contagio del genere.
La donna non risulta abbia avuto rapporti sessuali con altri soggetti . E’ lo stesso R. che ha ammesso di non credere che la G. abbia avuto altri rapporti nel periodo della relazione amorosa con lui. Ne’ sono risultate altre successive relazioni della donna con persone infettive tali da poter far dubitare di altri possibili fonti di contagio nei mesi immediatamente successivi.
Insomma le ipotesi ventilate dalla difesa in una memoria difensiva e in sede di discussione che la patologia possa essere stata contratta durante interventi medici o per altre cause, sono rimaste null’altro che vaghe e inconsistenti ipotesi , prive di qualunque concreto elemento di riscontro.
Se a questi elementi aggiungiamo il dato statistico , pur ridimensionandolo di alcuni punti percentuale, raggiungiamo un livello di probabilita’ logico-giuridica assoluto.
In particolare quanto al numero dei rapporti sessuali riferito dalla vittima si osserva.
La G. e’ risultata persona pienamente attendibile : ha raccontato di un suo personale contagio per malattia insanabile - fatto di per se’ stesso sicuramente non facile da narrare - risultato comprovato documentalmente in atti , ed ha accusato del contagio una persona , il R. , che e’ effettivamente risultato sieropositivo .
Vari testi sentiti hanno riferito che il rapporto tra i due fu un rapporto passionale molto intenso e pertanto verosimile pare un numero assai elevato di rapporti sessuali, soprattutto nel momento della maggiore passione amorosa. Lo stesso R. ha raccontato di rapporti sessuali intensi ( vedi dichiarazioni sopra riportate ) , seppur ridimensionati nel numero complessivo e sebbene sia stato sentito dopo che la perizia era gia’ stata depositata e quindi quando gai’ era ben consapevole della incidenza del numero dei rapporti sulla quantificazione della percentuale di contagio. Queste le sue laconiche affermazioni conclusive “ mi e’ davvero difficile quantificare la frequenza e il numero dei rapporti sessuali tra me e la G.; se proprio posso provare a indicare un numero, avendo letto la perizia che mi pare indichi dati eccessivi , posso ipotizzare in rapporti 400 tenuti in tutta la nostra relazione.”
Anche alla luce di queste scarne dichiarazioni emerge che in sostanza il dato offerto dalla donna puo’ essere leggermente ridimensionato ( si noti che il perito gia’ in parte lo ha ridotto in quanto sommando i dati offerti dalla donna il numero di rapporti sarebbe stato superiore a 1300, mentre il perito ha ragionato su 1200 rapporti ), ma non risulta in alcun modo lontano dalla realta’ .
Comunque , come gia’ spiegato , anche se si volesse far scendere ulteriormente il dato statistico, altre sono le circostanza che portano a ritenere con certezza che i rapporti sessuali tra i due soggetti siano stati l’unica fonte di contagio .
Si ribadisce nel 1999 la donna non risulta affetta ( vedi dichiarazioni dr Carozzi fondate sui dati storici presenti presso l’ospedale di Savona p. 45 ) . Nel 2000 inizia la relazione unica ed esclusiva con il R. fino all’agosto 2004 . Nel 2004 inizia a sentire sensazioni si stanchezza e malesseri vari ( In querela si fa cenno al 2003 ma nel verbale a sit la stessa G. parla dell’inverno 2004), ma parlatone con il R. questi , a dire della G. , non da’ alcun segnale. Che l’inizio del malesseri vada fatto riferire al 2003 come scritto in querela o all’inverno 2004 non incide , trattandosi di date comunque antecedenti all’ intervento chirurgico del 30 giugno 2004 per ricostruzione dei legamenti del ginocchio , intervento che d’altra parte, come si e’ gia’ detto, non si comprende come possa essere stato fonte di contagio. Nel maggio del 2005 ( ossia dopo circa 8 mesi dalla fine della relazione con il R. ) , intensificatisi i disturbi, la donna decide di sottoporsi ad alcuni controlli per il, tramite dell’amica medico dr. Carozzi e scopre la sieropositivita’ ( la dr. Carozzi riferisce che quel primo esame dimostro’ una elevatissima viremia positiva e dalla lettura della cartella clinica emerge che nel maggio 2005 la conta dei CD4 * e’ di 669 mmc)
Anche dal punto di vista cronologico dunque tutto porta a confermare che il contagio sia stato portato dal R. ( a 56 mesi dall’inizio e a circa 8 mesi dal termine della relazione con il R. la G. risulta positiva al test HIV )
MALATTIA
Pacifico poi che il contagio da Hiv comporti una malattia intesa in senso giuridico.
Con una bella recentissima sentenza del 18 gennaio 2008 il Tribunale di Milano si e’ espresso in senso analogo , con argomentazioni pienamente condivisibili :
“Il Collegio ritiene che la trasmissione del virus HIV integri la nozione di “malattia” nel soggetto che viene infettato.
Come ha affermato la giurisprudenza, “il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione, a breve o lunga scadenza,verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vit aoppure la morte” (così, di recente, Cass., sez. IV, 14.11.1996, n. 10643, P.C. in c. Franciolini ed altri, in C.E.D. Cass., n. 207339).
Come sopra si è evidenziato, la malattia in esame costa di tre stadi: la trasmissione del virus e il radicamento nel soggetto infettato, la latenza, la fase acuta - a.i.d.s. in senso proprio; dopo il radicamento del virus, un’appropriata terapia farmacologia può impedire il verificarsi della fase di a.i.d.s. conclamata, che ha esito letale.
Non vi dubbio, pertanto, la trasmissione del virus h.i.v. rappresenta un sicuro danno alla salute – e quindi costituisce “malattia” - posto che il virus h.i.v. determina dei danni, genericamente intesi, all'organismo ospite, dando luogo ad una molteplicità di eventi biologici nei termini di uno stato patologico peggiorativo, specie sotto il profilo dell’immunodeficienza e dei danni ad essa conseguenti, rispetto ad un quadro non morboso delle funzioni fisiche.
In particolare:
- nella prima fase, a distanza di 2-6 settimane dal contagio, nel soggetto infetto si manifesta una “una sindrome acuta di tipo influenzale, contraddistinta da febbre, sonnolenza, astenia, cefalea, faringodinia, linfoadenopatia, eruzioni cutanee simultanea ad un’elevata presenza di virus nel sangue (viremia)”.
- nella successiva fase, detta di latenza clinica, non si manifestano sintomi specifici, e tuttavia “si verifica in questo periodo la progressiva riduzione dei linfociti CD4+, associata all’alterata funzione degli altri componenti cellulari del sistema immune (linfociti T8, macrogai e monoliti)”.
Quanto al caso in esame, se, nella V., il virus allo stato - e fortunatamente - è allo stadio di latenza (e quindi non in fase conclamata), nondimeno è riscontrabile una “malattia”, solo che si consideri il suo attuale stato di immunodeficienza (come attestato dalle analisi in atti), e dal fatto che, per impedire l’evoluzione del virus allo stadio conclamato di a.i.d.s., alla parte offesa devono essere somministrati farmaci antivirali, che, appunto bloccano il virus, ciò che non avverrebbe se il soggetto fosse “sano”.
Del resto, la Suprema Corte ha (addirittura) ravvisato il reato di tentato omicidio nel caso in cui un soggetto affetto da a.i.d.s. emetta volontariamente dal cavo orale saliva mista a sangue con la quale raggiunga, allo scopo di trasmettere il contagio, parti sensibili (nella specie, le mucose della bocca e la congiuntiva dell'occhio), della persona presa di mira (così Cass., Sez. I, 3 maggio 2000, n. 9541La Marina, in Dir. pen. proc., 2001, 1397 ss.).”
Provato pertanto risulta l’elemento oggettivo del reato.
ELEMENTO SOGGETTIVO
DOLO EVENTUALE
Le lesioni sono state contestate come dolose.
E’ risultata provata documentalmente ( vedi cartella medica in atti ) e riconosciuta dallo stesso R. la sua consapevolezza sia della sieropositivita’ fin dal 1986 sia delle modalita’ di contagio. Si aggiunga che il dr Anselmo del reparto infettivologia ha precisato che il R. e ‘ soggetto seguito dal suo reparto dal 1997 – data antecedente all’inizio del rapporto con la vittima - in quanto sieropositivo e che allo stesso era stato spiegato il rischio e le modalita’ del contagio. La stessa teste ed ex moglie del R. ha riferito che lo stesso era ben consapevole della modalita’ di trasmissione e che durante la sua gravidanza , proprio per il rischio derivante dalla infezione, fu particolarmente seguita.
L’aver pertanto consumato numerosissimi rapporti sessuali non protetti con questa consapevolezza porta a ritenere sicuramente provato il dolo eventuale .
Il R., infatti, pur conoscendo il rischio cui sottoponeva la compagna , lo ha accettato sperando non si verificasse. In sostanza , pur non volendo l’evento lesivo , lo ha accettato come conseguenza eventuale della sua condotta , in altri termini ancora , pur non intendendo realizzarlo, ha consentito al suo verificarsi .
Dagli atti la figura del R. ed in particolare l’atteggiamento dello stesso nei confronti della malattia ed in sostanza della vita propria e altrui emerge in modo abbastanza chiaro.
Il R. fu tossicodipendente, e divenne sieropositivo , atteggiamento gia’ questo indicativo di una scarsa attenzione alla propria salute. Nel 1986 scopre la propria sieropositivita’ ma per anni non si sottopone piu’ a controlli. Dalla cartella clinica dell’imputato emerge che lo stesso dopo la prima ricerca di anticorpi HIV effettuata nel 1986 non si sottopone piu’ ad alcun controllo fino al 2005 ( p. 114 ), segnale o di una rimozione psicologica del problema o di una accettazione fatalistica del destino. Questo stesso atteggiamento psicologico lo porta ad avere un figlio con la moglie. Questo stesso atteggiamento lo portera’ poi all’episodio in questione, episodio che non risulta averlo in alcun modo sconvolto o anche solo minimamente fatto ravvedere, atteso che lo stesso ha ammesso di continuare a tenere analogo comportamento con la nuova compagna non potendo ritenere di aver rapporto protetti con chi ha un rapporto stabile.
E proprio questo suo complessivo atteggiamento nonche’ in particolare la sua reazione ( o meglio la sua “non reazione” ) alla notizia del contagio e la sua successiva indifferenza , confermata dalla dr. Carozzi e da altri testi sentiti ( v. sit Torre ), portano a ritenere altamente verosimile la versione della G. che riferisce di non aver saputo dal R. che lo stesso era sieropositivo.
Cio’ che, infatti, pare aver maggiormente amareggiato la vittima esasperando i suoi sentimenti di risentimento , palesi nelle sue dichiarazioni ma che non per questo la rendono meno attendibile, e’ proprio la noncuranza con cui ha reagito alla notizia , noncuranza riportata anche dalla dr. Carozzi che aveva preso contatti con il R. in quanto oltre a medico era amica della G. ed aveva cercato di fare da intermediario tra i due . La dr.Carozzi ha riferito che dopo la diagnosi aveva cercato di mettersi in contatto con il R. nel giugno 2005 e che lo stesso si era dichiarato dispiaciuto del fatto ma aveva negato di essere sieropositivo avendo di recente effettuato controlli presso un ospedale di Milano e che comunque non intendeva riprendere il rapporto con la G. preferendo esperienze forti altrove.
Evidente pertanto in tale atteggiamento il dolo eventuale , ‘ossia la non volonta’ del contagio ma l’accettazione consapevole dell’elevato rischio . Cio’ che in sostanza si rimprovera al R. e’ di essersi volontariamente determinato alla condotta nonostante la previsione di realizzare un illecito penale . Diverso sarebbe stato il caso in cui il R. , consapevole del suo stato, avesse avuto rapporti con la G. , cosi’ infettandola, pur avendo preso le precauzioni disponibili ( uso di profilattico ) e quindi nel giustificato e preciso convincimento che il contagio non si sarebbe verificato. Solo in una simile ipotesi si poteva ritenere provato il convincimento del non verificarsi dell’evento; nel caso contrario appare evidente la accettazione del rischio del contagio , sebbene detto rischio fosse stato probabilmente “psicologicamente rimosso”.
L’analisi psicologica degli stati affettivi ( speranza , desiderio ) , delle motivazioni profonde o addirittura inconsce che hanno portato il R. ad un simile comportamento esulano da un accertamento giudiziario sull’elemento soggettivo di un reato , accertamento che deve fondarsi su dati concreti e non su mere supposizioni non ancorate su alcun dato riscontrabile.
Sul punto particolarmente argomentata appare la sentenza n. 30425/01 della Suprema Corte trovatasi ad affrontare in sede di legittimità un caso analogo al presente ed i cui punti salienti si ritiene di dover richiamare .
“Il problema della individuazione dei criteri distintivi tra colpa cosciente e dolo eventuale – si legge in quella sentenza - è da tempo oggetto di attenzione da parte della dottrina, ma non appare opportuno riportare in questa sede tutte le teorie che sono state elaborate in proposito. Appare invece più utile e proficuo un breve esame della giurisprudenza più recente di questa Corte, formatasi sul tema. Da tale esame, sia pure con qualche diversità di accenti e sfumature, emergono essenzialmente due principali filoni giurisprudenziali.
Il primo, decisamente prevalente, privilegia la tesi che l'elemento che differenzia il dolo eventuale dalla colpa con previsione dell'evento si basa sul cosiddetto criterio dell'accettazione del rischio: si afferma cioè che risponde a titolo di dolo l'agente che, pur non volendo l'evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, comportandosi anche "a costo di determinarlo", mentre risponde a titolo di colpa aggravata l'agente che, pur rappresentandosi l'evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi.
In tal modo, si dice generalmente, accettare il rischio di produrre l'evento equivale a volerlo, e in tal modo si rispettano ed applicano le norme vigenti in tema di elemento psicologico (artt. 42 e 43 C.P.), che, ai fini della sussistenza del dolo, richiedono comunque come indefettibile l'esistenza dell'elemento volitivo sotto l'aspetto della consapevole volontarietà dell'evento.( omissis)
Il secondo, pur non escludendo del tutto l'aspetto del rischio, pone tuttavia l'accento sulla prevedibilità dell'evento, ed afferma che si ha dolo eventuale nel caso in cui il verificarsi dell'evento si presenti come concretamente possibile, mentre si versa in ipotesi di colpa cosciente allorché la verificabilità dell'evento rimane una ipotesi astratta. L'aspetto dell'accettazione del rischio rimane relegato in secondo piano come un elemento implicito nella volizione dell'azione.( omissis )
Vi sono poi alcune correnti giurisprudenziali minori. Una di esse fa riferimento al cosiddetto criterio dell'indifferenza:
"In tema di omicidio, si configura la colpa con previsione allorché il soggetto si pone in una concreta situazione di indifferenza rispetto all'evento, sperando che esso non abbia a realizzarsi ritenendolo evitabile per abilità personale o per intervento di altri fattori. Si configura, invece, il dolo eventuale allorché l'agente si rappresenta due determinate conseguenze della sua condotta, entrambe volute come possibili o probabili come effetto del rischio della sua attività." (Sez. 4^, sent. n. 27 del 5-10-1987, Margheri).
Un'altra ritiene comunque indispensabile l'accertamento della reale previsione e volizione dell'evento: "Al fine di accertare la ricorrenza del dolo eventuale o della colpa con previsione dell'evento non è sufficiente il rilievo che l'evento stesso si presenti come obiettivamente prevedibile, dovendosi avere riguardo alla reale previsione e volizione di esso ovvero all'imprudente o negligente valutazione delle circostanze di fatto. Ne consegue che non può rispondere di lesioni volontarie, sulla base esclusiva dell'obiettiva prevedibiliià dell'evento, il militare che avendo rovesciato dal suo letto un commilitone, ne abbia provocato l'urto violento contro il muro e una conseguente commozione cerebrale. Sez. 1^, sent. n. 6581 del 15-7-1988), Sartori).
Da questo exursus emerge chiaramente che nel caso di specie mai si potrebbe ravvisare la colpa cosciente come invece ritiene di poter ravvisare la Suprema Corte nella sentenza ora citata .
Questo giudice ritiene di dover aderire al primo e prevalente filone giurisprudenziale ( nonche’ dottrinale ) della accettazione del rischio E nel caso la piena accettazione del rischio vi fu , attese le conoscenze dello stesso che il R. aveva delle modalita’ di contagio , da poter ormai ritenere notorie per una persona di media cultura, ma a lui in particolare spiegate dai medici sia dei reparti infettivi, sia dai ginecologi che seguirono la moglie durante la gravidanza
Ma , anche seguendo il secondo filone giurisprudenziale , vi e’ la prova del dolo in quanto per aversi colpa era necessario che l’evento potesse rimanere una ipotesi astratta, mentre sappiamo come l’evento non potesse non essere considerato altamente probabile per le cognizioni che ormai sul punto il R. concretamente aveva e comunque ogni persona minimamente acculturata ha .
Neppure seguendo le correnti minori si arriva a poter sostenere un atteggiamento colposo in quanto il R. – come sopra spiegato- nulla ha fatto per poter confidare in sue particolari abilita’ a non contagiare il partner.
Si noti d’altra parte che l’unica sentenza che in materia ravvisa la colpa ( ossia quella sopra citata ) perviene a questo convincimento trovandosi dinanzi a persona in situazione di evidente degrado ambientale e di livello culturale assai scadente, ossia del tutto differente dal R. , affermato imprenditore.
Si legge, infatti, nella sentenza :” Ciò, in quanto, anche in base al suo modesto livello culturale e nonostante le informazioni avute dai medici nella pochissime occasioni nelle quali egli li aveva consultati, aveva maturato la convinzione, poggiante sulla considerazione che il suo stato di salute non aveva negli anni subito alcun processo peggiorativo e godeva, tutto sommato, "buona salute", che niente di male avrebbe potuto succedere alla moglie”
CIRCOSTANZE
Correttamente le lesioni sono state contestate come gravissime trattandosi di malattia insanabile per le motivazioni gia’ sopra riportate a proposito della nozione di malattia .
Piu’ attenzione merita la possibilita’ di riconoscere le circostanze attenuanti generiche .
Sul punto rilevante appare soffermarsi sulla sussistenza o meno del consenso della vittima, che si ritiene rilevante come circostanza da prendere in considerazione ai sensi dell’art 62 bis c.p. dovendosi ritenere ben diverso in termini di gravita’ la condotta di colui che informa il partner del suo virus da cui non lo informa, lasciandolo inconsapevole dei rischi cui va incontro.
Nessun elemento agli atti porta a ritenere che la G. fosse consapevole della sieropositivita’.
Non vi e’ dubbio che alcuni atteggiamenti tenuti dalla donna dopo la scoperta del contagio possano far ritenere il contrario , ma l’insieme degli elementi raccolti porta ad escluderlo.
La G. e’ nota anche tra i suoi amici come donna sportiva , molto attenta alla sua salute (v sit Carozzi e Torre ) e non appena apprende la notizia risulta sconvolta e sorpresa ( v. sempre sit Carozzi e Torre e Noselli ) .
Quando lo comunica all’ex compagno , sicuramente ancora innamorata , spera in un conforto , forse anche ad una ripresa del rapporto atteso che il contagio ormai e’ avvenuto , conforto che non arriva. Di qui le email appassionate agli atti , compatibili con quelle di una donna perdutamente innamorata, disperata e , ormai consapevole del contagio, disposta a proseguire il rapporto in cambio dell’amore del compagno perduto . Email attestanti anche una cieca gelosia nei confronti della nuova convivente. Ma sicuramente mai attestanti una pregressa consapevolezza della malattia del compagno .
In particolare la Carozzi riferisce di aver avvicinato il R. dopo l’accertamento del contagio e di aver chiesto spiegazioni , ma costui , lungi dal giustificarsi riferendo che la G. era consapevole di tutto, nega addirittura di essere sieropositivo.
Anche la teste Noselli conferma la non consapevolezza della sieropositivita’ del R. da parte della G. ricordando di essere stata presente al telefono quando lei comunicava al R. il contagio e costui , all’insaputa di una presenza terza , rispondeva egualmente che lui non era affetto dal virus. Risposte queste che assolutamente non si attagliano ad una persona che riteneva di aver tenuto un rapporto con la G. trasparente e consensuale sul punto.
Inoltre nessun ravvedimento del reo e’ emerso dagli atti, ne’ mai e’ stata palesata una volonta’ risarcitoria .
Si ritiene pertanto di dover concedere le attenuanti generiche solo per la incensuratezza
Peraltro, in un giudizio complessivo di valutazione del fatto e di bilanciamento delle circostanze ex art 69 c.p., l’aggravante contestata di malattia insanabile appare piu’ pesante e pregnante delle circostanze attenuanti concesse sulla base della sola formale incensuratezza.
PENA
Alla luce di quanto premesso sia circa le modalita’ e la gravita’del fatto, sia del comportamento del reo tenuto prima e dopo l’evento, congrua appare la pena di anni sei di reclusione ridotta per il rito ad anni quattro di reclusione .
Trattandosi di fatto commesso prima del maggio 2006 e per reato non escluso dal provvedimento , la pena va dichiarata condonata per anni tre ex art 1 l. 241/06
RISARCIMENTO DEI DANNI E PROVVISIONALE
L’accertamento della responsabilita’ penale porta conseguentemente all’accertamento della responsabilita’ civile ed alla condanna al risarcimento dei danni , danni che peraltro per la loro natura in evoluzione non possono che essere quantificati in separata sede come richiesto dalla P.C.
Atteso il tempo intercorso senza che in alcun modo il R. abbia mai proposto anche solo un simbolico risarcimento del danno , va disposta una provvisionale che alla luce dei parametri di cui alle tabelle del danno biologico , ma tenuto conto anche del danno morale e/0 esistenziale puo’ essere quantificata in € 250.000,00.
Le spese legali si liquidano come da dispositivo nei parametri di legge .
P.Q.M.
Visto l’art. 442 , 533 SS C.P.P.
DICHIARA
R. A. responsabile del reato a lui ascritto e , concesse le attenuanti generiche , ritenuta peraltro prevalente l’aggravante contestata e operata la riduzione per il rito , lo condanna alla pena di anni quattro di reclusione , oltre le spese.
Pena condonata per anni tre
Visto l’art 538 c.p.p.
Dichiara R. A. tenuto e lo condanna al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile costituita da liquidarsi in separata sede, oltre alla rifusione delle spese legali da questa incontrate, che si liquidano in € 3000,00 oltre IVA e CPA .
Lo condanna per l’intanto al pagamento immediato a favore della Parte Civile di una provvisionale pari a € 250.000,00 ( duecentocinquantamila )
Si riserva per i motivi gg 90
Savona 6.12.07
IL GIUDICE
Dott.ssa Donatella Aschero
In caso di diffusione della sentenza omettere le generalita’ e gli altri dati identificativi dell’imputato e della parte offesa ( art . 52 codice privacy)
IL GUP
DR. Donatella Aschero
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