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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 18 ottobre 2007 (dep. 22 novembre 2007), n. 43329

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Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 18 ottobre 2007 (dep. 22 novembre 2007), n. 43329
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Poteri di integrazione probatoria in appello: maglie larghe anche in abbreviato (e i tabulati telefonici sono sempre acquisibili e utilizzabili, anche se provenienti da altro procedimento)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE



Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIZZO Aldo Sebastiano - Presidente
Dott. CARMENINI Secondo Libero - Consigliere
Dott. PAGANO Filiberto - Consigliere
Dott. FIANDANESE Franco - rel. Consigliere
Dott. AMBROSIO Annamaria - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA



sul ricorso proposto da M.G., nato il ..., avverso la sentenza del 23/05/2005 della Corte d’Appello di Torino;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott.ssa Annamaria Ambrosio;
udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Tindari Baglioni che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito il difensore Avv. T.S.che ha concluso per l'accoglimento del ricorso;

OSSERVA



1.1. Con sentenza in data 9-2-2004 il G.U.P. di Torino, in esito a giudizio abbreviato, assolveva M.G. dall'imputazione del reato di truffa continuata e aggravata (ex artt. 110, 81 cpv. c.p., art. 640 c.p., comma 2, n. 1, art. 56 c.p., art. 640 c.p., comma 2, n. 1) con la formula perchè il fatto non sussiste.

Secondo l'ipotesi accusatoria, il M., nel periodo dal 27-2- 2002 al 22-9-2002, durante il quale era stato trasferito a Torino con trattamento di missione per svolgere le funzioni di dirigente della Polizia Stradale del Comando provinciale della città, aveva posto in essere un manifesto disegno fraudolento, consapevolmente rivolto a indurre in errore gli organi preposti a verificare la documentazione presentata a corredo delle domande dirette a conseguire il trattamento di missione, allegando alle domande e, in buona parte percependo il relativo rimborso, ricevute di pasti in ristoranti e di pernotto in albergo ideologicamente false (con il concorso dei titolari degli esercizi commerciali e alberghieri, giudicati separatamente, a seguito della scelta del M. del rito speciale).
La tesi dell'accusa era essenzialmente fondata su un argomento di ordine deduttivo che muoveva dalla constatazione che, nello stesso arco temporale cui si riferivano le ricevute di spese, ivi incluso un periodo di congedo ordinario per ferie, il M. aveva utilizzato i buoni pasto nel servizio di mensa della caserma (...) di (...) e aveva avuto, altresì, la disponibilità di una stanza nella stessa caserma.

Secondo la difesa, invece, le circostanze dedotte dall'accusa non erano incompatibili con l'effettività delle spese: l'imputato, infatti, aveva utilizzato i buoni pasto a fronte di "spuntini" che si rendevano necessari per "un disturbo gastrico" da lui sofferto, mentre i pasti principali erano stati effettivamente consumati all'esterno nei ristoranti indicati nelle allegate ricevute fiscali; allo stesso modo la stanza nella caserma (...) aveva avuto un utilizzo secondario, essendo servita - sempre secondo quanto riferito dall'imputato - unicamente al deposito della divisa e dell'arma di ordinanza, nonchè per qualche saltuario "sonnellino" e non per pernottarvi; l'albergo, inoltre, era rimasto a disposizione anche nel periodo di congedo per ferie e, pertanto, l'imputato aveva ritenuto in perfetta buona fede di chiedere il rimborso.

In tale contesto il Giudice di primo grado respingeva l'argomento deduttivo su cui poggiava l'accusa e riteneva, invece, che la tesi difensiva fosse confortata dalle dichiarazioni dei titolari degli esercizi commerciali e di alcuni dipendenti della Polizia di Stato.

1.2. Con sentenza 23-5-2005, la Corte di appello di Torino, previa integrazione istruttoria ex art. 603 c.p.p., comma 3 con acquisizione dei tabulati telefonici relativi all'utenza dell'imputato nel periodo che qui interessa ed espletamento di una perizia per decifrare i relativi dati, dichiarava M.G. responsabile del reato ascrittogli, condannandolo, con le generiche equivalenti alla contestata aggravante, alla pena di anni uno e mesi due di reclusione ed Euro 500,00 di multa con i doppi benefici di legge.

I Giudici di appello osservavano che gli elementi acquisiti con l'integrazione probatoria, valutati unitamente alle prove già considerate in primo grado, confermavano la tesi dell'appellante circa il reale andamento dei fatti; precisavano che si era trattata di un'attività di integrazione probatoria di decisiva rilevanza in quanto l'individuazione della cella telefonica e, quindi, dell'antenna cui si era di volta in volta connessa l'utenza telefonica del M., permetteva di trarre attendibili inferenze circa la precisa collocazione sul territorio della persona che se ne era avvalsa; in particolare, per quanto riguardava i pernottamenti, nemmeno una volta le telefonate, in entrata o in uscita dall'utenza del M. negli orari riservati al riposo notturno, avevano agganciato la cella relativa all'Hotel (...), dove l'imputato avrebbe dovuto alloggiare e, invece, in più di un'occasione, esse agganciavano la cella corrispondente all'ubicazione della caserma (...); allo stesso modo, durante le numerose conversazioni intrattenute negli orari normalmente destinati ai pasti principali, nessuna telefonata aveva impegnato le celle telefoniche degli esercizi di ristorazione le cui ricevute erano allegate in atti, mentre negli stessi orari risultava agganciata con regolarità la cella relativa alla caserma (...).

Sulla base di tali risultanze i Giudici di appello reputavano la tesi difensiva implausibile; ritenevano, quindi, fondate le critiche dell'appellante in ordine all'inattendibilità della ricostruzione dei fatti, su cui riposava la sentenza di assoluzione, rilevando, tra l'altro, l'insufficienza e l'opinabilità di certe dichiarazioni su cui aveva fatto affidamento il G.U.P..

Con specifico riferimento alla truffa contestata per il periodo di ferie godute dal M. nell'estate del 1992, la Corte di appello - precisato che lo stesso imputato aveva ammesso di essersi allontanato da (...) durante il congedo - escludeva che vi potesse essere un doppio errore materiale, e, cioè, del ristoratore prima e del M. dopo, in ordine alla data di due ricevute di un ristorante, allegate alla domanda di missione, nonostante alla stessa data l'imputato si trovasse in (...); osservava che vi erano ben ventotto pasti che il M. assumeva di avere consumato nello stesso ristorante di (...), nonostante nello stesso periodo si trovasse con certezza lontano dalla città; precisava che il fatto che la richiesta del rimborso relativa a tali pasti non fosse inclusa nel capo di imputazione era dovuta alla scelta del P.M. di contestare i soli rimborsi per i quali risultava che il prevenuto aveva nello stesso giorno consumato buoni pasto presso la mensa; la circostanza era, comunque, significativa, in quanto confermava il carattere ideologicamente falso delle ricevute.

1.2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione M.G., per mezzo del difensore, deducendo i seguenti motivi di ricorso.

- Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) c) ed e) con riferimento all'inammissibilità dell'impugnazione presentata dal pubblico ministero ai sensi dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. C) e dei motivi nuovi.
Con il primo motivo il ricorrente deduce l'inammissibilità dell'appello del P.M., per l'omessa indicazione dei capi o i punti della decisione impugnata, come prescritto dall'art. 581 c.p.p., lett. a; di conseguenza l'impugnazione non avrebbe potuto essere integrata dai "motivi nuovi", destinati esclusivamente al logico sviluppo di censure sugli stessi capi o punti della decisione investiti dal gravame.

- Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e) con riferimento all'ordinanza pronunciata dalla Corte di appello in data 19-12-2004 con la quale venne disposta l'integrazione dell'istruttoria ex art. 603 c.p.p., comma 3 in procedimento svoltosi in primo grado con il rito abbreviato.
Con il secondo motivo il ricorrente censura la legittimità dell'integrazione istruttoria in appello, ritenuta eccedente i limiti connaturati al rito abbreviato prescelto dall'imputato in primo grado e ciò in quanto:
a) il parametro dei poteri istruttori del Giudice di appello, da ravvisarsi in quello della non decidibilità allo stato degli atti, escluderebbe il ricorso ai poteri ufficiosi per colmare lacune probatorie nel merito; e poichè, nel caso di specie, vi era stato proscioglimento in primo grado con la formula di cui al comma 1 dell'art. 530 c.p.p. che il fatto non sussiste, non sarebbe ravvisabile tale presupposto;
b) l'integrazione della prova avrebbe potuto essere disposta solo in bonam partem; nel caso di specie la Corte di appello avrebbe, dunque, errato a non ritenere operante tale limite, assumendo come riferimento il novellato art. 441 c.p.p.; tale norma, infatti, a parere del ricorrente, riconoscerebbe al Giudice di primo grado poteri istruttori, nello stesso ambito ristretto ed eccezionale già riconosciuto dall'elaborazione giurisprudenziale al Giudice di appello; neppure si trattava di una prova "neutra" come affermato dalla Corte di appello, avuto riguardo all'esito del giudizio di primo grado e alla finalità della prova, sollecitata dal P.M.; in tal modo sarebbe stato pregiudicato il diritto di difesa, dal momento che l'imputato aveva già effettuato la non più revocabile scelta del rito abbreviato;
c) in ogni caso l'integrazione probatoria sarebbe stata possibile solo per le acquisizioni documentali, stante il requisito della necessaria compatibilità con la celerità del rito; nel caso di specie, la "comprensione" dei tabulati telefonici aveva richiesto il conferimento di un incarico peritale e, quindi, un'attività incompatibile con la celerità del rito;
d) la prova rappresentata dai tabulati telefonici, sulla base dei quali i Giudici di appello avevano deciso di riformare la sentenza di primo grado, sarebbe, comunque, inutilizzabile ai sensi dell'art. 191 c.p.p., per violazione della disciplina di cui al D.Lgs. n.196 del 2003, art. 132, come novellato dalla L. n. 45 del 2004, nonchè in relazione all'art. 238 c.p.p., comma 3 e art. 270 c.p.p., comma 1.

- Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. B) ed E) in ordine all'affermazione della penale responsabilità fondata sulle prove acquisite a seguito della rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale da ritenersi inutilizzabili e su una motivazione illogica rispetto alle risultanze processuali.
Con l'ultimo motivo il ricorrente lamenta che i Giudici di appello abbiano fatto ricorso a mere petizioni di principio, abbiano, altresì, attinto a prove inutilizzabili e compromesso il diritto di difesa, che non aveva potuto esercitarsi in considerazione della scelta di una decisione allo stato degli atti effettuata in primo grado.

2.1. Relativamente al primo motivo di ricorso si osserva - in conformità a un costante orientamento di questa S.C. - che il principio di formalismo che ispira le norme in materia di impugnazione, va applicato in funzione dell'esigenza che lo ispira, che è quella di delimitare in esatti confini il campo di indagine del gravame, con la conseguenza che vanno ripudiate inutili esasperazioni, che mortificherebbero il favor impugnationis, ogni qualvolta una valutazione complessiva dell'atto consenta di verificare la completezza del suo contenuto e, quindi, la sua idoneità a dare impulso al grado successivo del giudizio (v. Cass. 1- 3-1995, n. 5414).

Può inoltre rammentarsi che, ai fini dell'individuazione dell'ambito di cognizione attribuito al giudice di appello dall'art. 597 c.p.p., comma 1, per "punto" della decisione deve ritenersi quella statuizione della sentenza che può essere considerata in modo autonomo, non anche le argomentazioni esposte in motivazione, che riguardano il momento logico e non già quello decisionale del procedimento (ex plurimis Cass. sez. 1^, 14-1-1998, n. 2768).

Ciò precisato, si osserva che, nel caso di specie, l'atto di appello rivela sin dal suo incipit ("...propone formale atto di appello, avverso la predetta sentenza, denunciando la mancanza di presupposti per il proscioglimento, perchè il fatto non sussiste, dalle violazioni contestate") che i "punti" sui quali era concentrato l'impugnazione del P.M. devolvevano al Giudice di appello l'integrale cognizione del fatto, comprensivo di tutte "le violazioni contestate" (id est, di tutte le ipotesi di truffa e tentata truffa contemplate nell'unitario capo di imputazione).

L'esame globale dell'atto, nonchè il tenore delle conclusioni ("si chiede che il M. venga ritenuto responsabile per tutti i reati che gli sono stati contestati e, quindi, condannato alla pena richiesta all'esito dell'udienza del 9-2-2004 ...") convalidano l'esito positivo della pregiudiziale verifica di ammissibilità del gravame, in considerazione della completezza e della specificità delle censure espresse dall'organo requirente, seguendo lo stesso schema della sentenza impugnata e investendo tutti i punti (nel senso sopra precisato) della decisione impugnata.

In tale contesto non è lecito dubitare che "i motivi nuovi" abbiano rispettato l'ambito del devolutum, risultando, per quanto appena detto, il thema decidendum in appello esteso alla vicenda per cui è processo nella sua integralità.

Di conseguenza la Corte di appello ha correttamente fatto riferimento agli stessi "motivi nuovi", quale fonte di sollecitazione dei poteri istruttori di ufficio.

Resta fermo che l'ingresso nel processo dei "tabulati" telefonici è conseguente all'acquisizione disposta dalla Corte di appello, con il provvedimento di cui si discorrerà di seguito, e non già alla relativa allegazione alla memoria contenente i cd. "motivi nuovi".

2.2. Il punto nodale delle censure del ricorrente si incentra sull'attività di integrazione probatoria d'ufficio svolta dalla Corte di appello di Torino.
Le deduzioni difensive sono dichiaratamente ispirate a un indirizzo giurisprudenziale minoritario, che circoscrive in termini drasticamente restrittivi il potere di integrazione probatoria ex art. 603 c.p.p., comma 3, ritenendolo compatibile con le caratteristiche del giudizio abbreviato solo per le acquisizioni documentali assolutamente indispensabili ai fini del decidere e attinenti alla capacità processuale dell'imputato e ai presupposti del reato o della punibilità.

In particolare l'integrazione probatoria non sarebbe consentita per colmare lacune nel merito, nè per acquisire prove a carico, dovendo essa avvenire solo in bonam partem (Cass. 20-10- 1996/19-3-1997 n. 2628; riv. 207891).

Al riguardo va premesso che già nel vigore dell'originaria normativa del rito abbreviato la giurisprudenza di questa Corte ha espresso un orientamento progressivamente favorevole al riconoscimento dell'attività di integrazione probatoria in appello.

In particolare le SS.UU. prima della riforma del 1999, (sentenza 29 gennaio 1996, n. 930 riv. 203427) affermarono il principio secondo cui "nel processo celebrato con la forma del rito abbreviato al giudice di appello è consentito, a differenza che al giudice di primo grado, disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della decisione, secondo il disposto dell'art. 603 c.p.p., comma 3".
Nell'occasione il Supremo Collegio precisò che nel processo di appello non poteva configurarsi alcun potere di iniziativa delle parti in ordine all'assunzione delle prove, giacchè esse, prestando il consenso all'adozione del rito abbreviato, avevano definitivamente rinunciato al diritto alla prova, potendo solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria che spettano al giudice di secondo grado (fermo restando che l'acquisizione di prove ammesse ex officio non fa perdere all'imputato il beneficio della diminuzione della pena di cui all'art. 442 c.p.p., comma 2).

Orbene se nella giurisprudenza antecedente alla riforma era ormai acquisita la possibilità di istruttoria nel rito abbreviato in appello (in applicazione della norma generale in tema di impugnazione di cui all'art. 603 c.p.p., comma 3), a fortiori il principio deve ritenersi valido nell'attuale assetto normativo, con la precisazione che - non trattandosi più di un rito vincolato "allo stato degli atti" - non hanno ragion d'essere soluzioni restrittive del tipo di quelle suggerite dal ricorrente.

Si vuole dire, cioè, che il potere officioso di integrazione probatoria riconosciuto dall'art. 441 c.p.p., comma 5 al giudice di primo grado è certamente esercitabile negli stessi limiti, anche dal giudice di appello e la sua valutazione discrezionale circa la necessità della prova non è censurabile in sede di legittimità (Cass. pen., Sez. 5^, 9-5-2006, n. 19388).

Inoltre, proprio perchè è disposta ai fini della decisione, l'integrazione probatoria in appello deve ritenersi consentita indipendentemente dal fatto che essa possa comportare o meno una decisione sfavorevole all'imputato e, quindi, anche su sollecitazione del P.M., in quanto, allorchè il legislatore ha voluto limitare i poteri di indagine del giudice lo ha indicato chiaramente, come nell'ipotesi di cui all'art. 422 c.p.p., comma 1 (cfr. Cass. sez. 1^ 9 giugno 2004, n. 36122).

E' pur vero, come osserva il ricorrente, che la riforma dell'art. 441 c.p.p. (L. 16 dicembre 1999, n. 479) - che al comma 5 ora prevede espressamente che "quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione" - non impinge direttamente sulla disciplina del processo di secondo grado; tuttavia il superamento e lo stravolgimento dell'originario modello di giudizio "allo stato degli atti" a favore di un modello dibattimentale più complesso "a prova contratta", svincolato dalle originarie logiche negoziali, non appare privo di ricadute nella definizione delle coordinate per l'esercizio del potere di integrazione probatoria anche in appello.

Non è qui il caso di discorrere dei limiti di esercizio delle iniziative dell'imputato ex art. 603 c.p.p., comma 1, che la mutata architettura del procedimento speciale lascia ipotizzare nel caso di rito abbreviato condizionato (cfr. Cass. pen. sez. 3^ n. 15296/2004), trattandosi di questione che esorbita l'ambito del decidere.
Ciò che preme, invece, osservare è che non è ravvisabile una divaricazione tra il presupposto della "non decidibilità allo stato degli atti", in presenza del quale l'art. 441 c.p.p.,comma 5 consente nel giudizio abbreviato di primo grado di assumere anche di ufficio "gli elementi necessari ai fini della decisione” e il parametro dell' "assoluta necessità" che deve ricorrere ai fini dell'integrazione probatoria in appello ai sensi dell'art. 603 c.p.p., comma 3.

L'una e l'altra norma presuppongono, infatti, il superamento della presunzione di completezza della prova, immanente al rito abbreviato e sotteso (anche nel rito ordinario) alla disciplina dell'appello, autorizzando il Giudice, che non si ritenga in grado di decidere per la lacunosità o insufficienza del materiale probatorio di cui dispone, ad ammettere le prove che gli consentono un giudizio più meditato e aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a ricostruire.

Si rammenta che le SS;UU. di questa Corte - discorrendo dei limiti del potere ufficioso previsto dall'art. 507 c.p.p. - hanno rinvenuto nell'ordinamento una fondamentale esigenza di completezza dell'accertamento probatorio, sul presupposto che se le informazioni probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è più probabile che la sentenza sia più equa e che il giudizio si mostri aderente ai fatti (sentenza 17 ottobre 2006, n. 41281).
Nell'occasione le SS.UU. hanno ribadito principi già espressi con la sentenza Martin del 6 novembre 1992, definendo il potere istruttorio del giudice ex art. 507 c.p.p. nello stesso ambito previsto dall'art. 603 c.p.p., comma 3 e precisando che esso è esercitabile anche in caso di inerzia delle parti e, quindi, anche nel caso di prove che, benchè conosciute, non siano state assunte (cfr. anche Corte Cost. 26 marzo 1993, n. 111), fermo restando che l'iniziativa ufficiosa deve essere "assolutamente necessaria" (sia l'art. 507 c.p.p., comma 1, che l'art. 603 c.p.p., comma 3 usano questa espressione) e che la prova deve avere carattere di decisività (altrimenti non sarebbe "assolutamente necessaria").

Con più specifica attinenza alle peculiarità del rito di cui trattasi, pare utile evidenziare che il Giudice delle leggi ha fornito, con la sentenza n.115 del 9 maggio 2001, una chiave di lettura del tessuto normativo, in cui i presupposti dell'integrazione probatoria introdotta dalla richiesta condizionata dell'imputato ex art. 438 c.p.p., comma 5 e quelli dell'integrazione disposta d'ufficio ai sensi dell'art. 441 c.p.p., comma 5 finiscono per coincidere, svalutando, nella sostanza, il requisito di "compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del procedimento", previsto espressamente solo dalla prima delle norme indicate.
La Corte costituzionale ha, infatti, ritenuto che, qualora si debbano compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l'ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina, nè con il giudizio abbreviato "puro", accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio.

In sostanza nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una integrazione probatoria (sia essa ex officio, sia essa sollecitata dalla parte) anche se "consistente", il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto alla più onerosa formazione della prova in dibattimento, con la conseguenza che il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua ad essere un carattere essenziale del rito alternativo.

In tale prospettiva le SS.UU. di questa Corte (sentenza 27 ottobre 2004 n.44711) hanno individuato il limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie nel giudizio abbreviato condizionato, nel senso che esse debbano essere soltanto integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva, ponendosi, siccome circoscritte e strumentali "ai fini della decisione" di merito, quale essenziale e indefettibile supporto logico della stessa.

Nell'occasione il Supremo Collegio - svolgendo argomentazioni che appaiono utili e rilevanti anche per la soluzione del tema che ci occupa - ha precisato che la valutazione sulla "necessità" è più stringente di quella prevista dai tradizionali requisiti di pertinenza/rilevanza e non superfluità di cui all'art. 190 c.p.p., giacchè il valore probante dell'elemento da acquisire, cui fa riferimento l'art. 438 c.p.p., comma 5, va sussunto piuttosto nell'oggettiva e sicura utilità/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell'ambito dell'intero perimetro disegnato per l'oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all'art. 187 c.p.p..

In definitiva la valutazione della "necessità" dell'integrazione probatoria nel rito abbreviato (sia essa officiosa, sia essa introdotta con la richiesta dell'imputato ex art. 438 c.p.p., comma 5 non è condizionata alla complessità o lunghezza dei tempi dell'accertamento probatorio, nè si identifica con l'assoluta impossibilità di decidere o (il che è lo stesso) con l'incertezza della prova (trattandosi di situazioni che devono trovare soluzione nell'art.530 cpv. c.p.p.), ma presuppone, da un lato, un'informazione probatoria in atti incompleta e, dall'altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell'attività integrativa.

Si tratta di una valutazione tipicamente discrezionale che, se congruamente e logicamente motivata, risulta insindacabile in sede di legittimità.

Ciò posto in via di principio, occorre dire che nessuno dei rilievi del ricorrente coglie nel segno.

Va, innanzitutto, osservato che la Corte di appello di Torino ha logicamente e congruamente motivato, nell'ordinanza istruttoria, la valutazione di "assoluta necessità" dell'acquisizione probatoria, ritenuta "astrattamente idonea a consentire di accertare la verità o la falsità dell'ipotesi di ricostruzione dei fatti sulla quale si regge il capo di imputazione" (cfr. ordinanza pag. 10), confermando, poi, nella sentenza impugnata che l'integrazione aveva avuto "un carattere chiarificatore" e che gli elementi acquisiti "valutati in unione con le prove già considerate nella sentenza impugnata" consentivano di riconoscere la fondatezza del gravame proposto dal P.M. (cfr. sentenza, rispettivamente, a pag. 21 e pag. 14).

In altri termini, in presenza di una prova certa - quale era quella relativa all'utilizzo dei buoni-pasto e alla disponibilità della stanza della caserma da parte del M. - la Corte territoriale ha ritenuto "assolutamente necessario" acquisire i tabulati telefonici, ritenuti idonei, attraverso l'individuazione delle "celle" di volta in volta agganciate, ad accertare se nelle ore dei pasti principali e nelle ore notturne il M. si trovasse nella sala mensa e nella stanza della caserma (come assumeva l'appellante) ovvero negli esercizi di ristorazione e nella stanza di albergo, le cui ricevute di spesa erano allegate alla richiesta di trattamento di missione (come dedotto dalla difesa).

Appare chiaro allora come l'integrazione probatoria non sia stata svolta in malam partem, trattandosi di acquisizioni che, nel momento in cui sono state disposte, non potevano essere considerate nè in bonam, nè in malam partem, ma assolutamente neutre.

E' evidente, altresì, l'errore di prospettiva in cui si pone il ricorrente, allorchè attribuisce all'attività integrativa i caratteri della prova "contro" l'imputato ed esclude la sussistenza della "assoluta necessità" dell'acquisizione probatoria, facendo riferimento all'esito del giudizio di primo grado, giacchè, al contrario, la relativa valutazione andava effettuata sulla base della critica svolta dal P.M. nell'atto di appello e della possibilità di una diversa ricostruzione del fatto storico ivi sollecitata.

Quanto al preteso pregiudizio che avrebbe subito il diritto della difesa è sufficiente osservare che si tratta di evenienza coerente con il duplice rischio che l'opzione per il giudizio abbreviato "puro", nell'attuale assetto normativo, comporta per l'imputato: da un lato, il rischio di essere giudicato (e condannato) allo stato degli atti sulla base del solo materiale probatorio fornito dal P.M., dall'altro il rischio opposto, di non essere giudicato allo stato degli atti e di andare incontro all'integrazione ufficiosa della prova (ex art. 441 c.p.p., comma 5) ferma restando la preventiva rinuncia all'escussione orale della prova già acquisita in atti.

Invero è stato osservato nella sentenza n. 11954/2005 della sez. 5 di questa S.C. con argomentazioni condivise dal Collegio che - seppure va riconosciuto, a fronte dell'iniziativa ufficiosa, il diritto alla controprova dell'imputato dopo l'assunzione delle prove ammesse d'ufficio dal giudice a norma dell'art. 441 c.p.p., comma 5 secondo una ragionevole analogia con l'interpretazione giurisprudenziale dell'art. 507 c.p.p. – va, però, escluso il diritto all'escussione orale di una prova già documentata, attese le ragioni di economia processuale proprie del rito speciale e la preventiva rinuncia alla formazione delle prove in contraddittorio da parte dell'imputato (che, per questa ragione, beneficia di una riduzione di pena in caso di condanna).

E' il caso di aggiungere che la censura sul punto pecca anche di aspecificità, dal momento che il ricorrente non deduce di avere richiesto (o sollecitato) altre acquisizioni probatorie o almeno di aver indicato piste investigative diverse da quelle emergenti dalle s.i.t., già valutate in primo grado.

Resta, poi, superato, sulla base di quanto sopra evidenziato in ordine al criterio della "compatibilità" con la celerità del rito, l'altro argomento relativo alla durata dell'accertamento tecnico, giacchè "il segmento" di istruttoria svolto in appello non incide sulla complessiva economia del giudizio: ciò che rileva non è la "consistenza" o la durata dell'accertamento svolto, ma la sua necessità ai fini della lettura della prova documentale acquisita.

In definitiva, nel caso all'esame, la valutazione discrezionale di disporre l'integrazione probatoria risulta diffusamente e logicamente motivata, nonchè orientata in coerenza con i parametri normativi sopra fissati; il che basta a rendere insindacabile la relativa decisione in questa sede.

2.3. Un discorso a parte meritano le deduzioni del ricorrente che si riferiscono alla pretesa inutilizzabilità della specifica prova, rappresentata dai tabulati telefonici: e ciò sia in relazione alla normativa in materia di protezione dei dati personali di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 132, che al comma 3 (nel testo modificato dalla L. n. 45 del 2004 all'epoca in vigore) prevedeva l'acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico presso il fornitore "con decreto motivato del giudice su istanza del pubblico ministero", sia anche in relazione alle norme del codice di rito, in tema di utilizzabilità di atti irripetibili e di intercettazioni telefoniche acquisiti in altri procedimenti (art. 238 c.p.p., comma 3 e art. 270 c.p.p.).

In particolare il ricorrente assume che i dati dell'utenza telefonica erano stati acquisiti in altro procedimento con decreto del P.M. e non già dal giudice; che alla data del giudizio di appello i tabulati non potevano più essere acquisiti dal gestore di telefonia dal momento che era decorso il termine di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 132, comma 3; che, peraltro, l'acquisizione probatoria nel presente procedimento non poteva ritenersi consentita in base alla normativa in tema di atti "irreperibili", non ricorrendo un caso di imprevedibilità della ripetizione dell'atto.

Per la comprensione delle ragioni della decisione va premesso - sulla scorta della già citata ordinanza istruttoria e della documentazione ivi richiamata - che i tabulati telefonici erano allegati agli atti di altro procedimento penale nei confronti di Ma.Fl. (imputato di favoreggiamento personale in favore del M. in relazione al reato di truffa per cui si procede in questa sede).

In particolare, in detto procedimento, l'acquisizione venne disposta nel termine di cui al comma 3del citato art.132 dal P.M. a seguito di provvedimento del G.I.P. di Torino che autorizzava l'organo inquirente ad "acquisire presso i competenti uffici delle società concessionarie dei servizi telefonici i tabulati dell'utenza" telefonica del M. nel periodo 10-2-2002/10-3-2002, nonchè 1-7- 2002 e 31-8-2002.

Ciò posto, va, innanzitutto, osservato che, nel procedimento a quo, l'acquisizione della documentazione relativa al traffico telefonico avvenne nel pieno rispetto della normativa all'epoca vigente in materia: invero la ratio della disposizione normativa di affidare al "giudice" la tutela dei dati personali risulta pienamente assolta con il richiamato provvedimento autorizzativo del G.I.P., essendo stata affidata all'organo inquirente la sola attività di materiale richiesta dei dati.

Va poi considerato che per l'acquisizione dei tabulati non è necessaria la procedura richiesta per le intercettazioni telefoniche (cfr. sezioni unite di questa Corte: sentenze 23 febbraio 2000 n. 6, D'Amuri e 21 giugno 2000 n. 16, Tammaro) e ciò basta a rendere non pertinente il richiamo all'art. 270 c.p.p..

Infine è del tutto irrilevante la circostanza che i tabulati siano stati acquisiti in altro procedimento di cui il M. (imputato di reato connesso) non era parte: trattasi, infatti, di documenti che non vengono formati nel procedimento o nel processo, ma hanno origine esterna ad esso e quindi sono comunque acquisibili, indipendentemente dalla ripetibilità o meno della richiesta al gestore.

Dal che consegue l'infondatezza della censura di violazione dell'art.238 c.p.p., quale norma a presidio della formazione della prova in dibattimento.

2.4. L'ultimo motivo di ricorso, per un verso, svolge argomentazioni in tema di utilizzabilità dei tabulati e del lamentato pregiudizio per la difesa, che per ragioni di organicità dell'esposizione si sono già esaminate e confutate nei precedenti paragrafi, e, per altro verso, prospetta una valutazione delle risultanze di causa diversa ed alternativa rispetto a quella plausibilmente effettuata dai giudici di merito; esso, sotto tale profilo, esula dal novero delle censure ammissibili in questa sede ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), la cui recente modifica non ha certo alterato la natura del giudizio di legittimità nel senso di consentire incursioni nell'ambito dell'apprezzamento delle risultanze fattuali.

Giova rammentare che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione di merito ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali.
Esula, infatti, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali.

Ciò significa che a questa Corte è normativamente precluso il potere non solo di sovrapporre una propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dai giudici di merito, ma anche di saggiare la tenuta logica della pronuncia impugnata mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sostiene ed eventuali altri modelli di ragionamento privilegiati dal ricorrente, risultando il controllo di legittimità limitato alla verifica della coerenza strutturale della sentenza in sè considerata, ancorchè i parametri valutativi da essa indicati siano ipoteticamente sostituibili con altri (SS.UU. 31 maggio 2000, Jakani).

Nel caso all'esame le censure, al di là dell'apparenza dei vizi denunziati, mascherano una critica della valenza probatoria degli elementi utilizzati dalla Corte territoriale nella ricostruzione del fatto e risultano destituite di fondamento proprio alla stregua delle emergenze processuali, diffusamente e analiticamente riportate in premessa.
I Giudici di merito si sono attenuti ad un coerente, ordinato e conseguente modo di disporre i fatti, le idee e le nozioni necessari a giustificare la loro decisione, che resiste perciò alle censure - ai limiti del merito - del ricorrente sul punto.

In definitiva, per la prevalenza delle ragioni di infondatezza su quelle di inammissibilità, il ricorso va rigettato con i consequenziali provvedimenti.

P.Q.M.



La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 22 novembre 2007

 

 
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