Penale.it

Google  

Penale.it - Costantino Murru, Sulle indagini difensive

 La newsletter
   gratis via e-mail

 Annunci Legali




Costantino Murru, Sulle indagini difensive
Condividi su Facebook

Versione per la stampa

Contenuto originariamente pubblicato all'URL:
http://www.penale.it/document/murru01.htm

Relazione dell'Avv. Costantino Murru, del foro di Oristano, tenuta al Convegno “ Le indagini difensive nelle indagini preliminari e nell'udienza preliminare “ svoltosi a Oristano il 24 giugno 2000, con l'organizzazione del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Oristano e della sezione di Oristano della Camera Penale della Sardegna.

Forse la paura, forse la difficoltà avevano indotto il legislatore del 1988 a non delineare in modo descrittivo quella vicenda processuale che è unanimemente nota come la "fase di attività di indagine difensiva".

Il legislatore, compilando l'art. 38 delle Disp. Att. si era infatti limitato ad una enunciazione generale del cosiddetto diritto alla prova, evitando quell'insidioso meccanismo di previsione analitica, che invece era stato espressamente previsto dall'art. 33 del progetto preliminare delle norme attuative al nuovo codice.

E' assolutamente opportuno mettere in risalto come questa scelta del compilatore, anziché risolvere i problemi in materia di quel diritto alla prova esercitato attivamente con l'indagine difensiva, li abbia invece accresciuti; e così, la dottrina più attenta si è spesso trovata nella difficoltà di enunciare in modo compiuto chi potesse effettivamente intendersi come soggetto legittimato a svolgere attività investigative, e quale fosse lo sbocco che tali attività potevano avere nel processo penale [1] .

Per esempio, ricordo come il tentativo di dare concretezza al concetto indicato dall'articolo 2 della legge delega, che si riferisce alla partecipazione dell'accusa e della difesa su basi di parità, e di facoltà dei difensori di indicare elementi di prova, si fosse arenato quando fu proposto che i difensori potessero far svolgere determinate indagini direttamente alla polizia giudiziaria: la proposta non ebbe successo perché, sostanzialmente, si finiva per ipotizzare un segreto d'ufficio della polizia giudiziaria nei confronti della controparte, cioè del pubblico ministero, il che evidentemente contrastava con l'obbligo di riferire, a fronte di eventuali notizie di reato a quell'ufficio contro il quale si sarebbe dovuto ergere il segreto [2] .

Dovendo, per ragioni di sintesi, trascurare l'importanza di questioni che riguardano l'individuazione dei soggetti legittimati ad attivarsi per la ricerca della prova in favore della parte privata, il ruolo che i sostituti del difensore rivestono in questa attività di ricerca della prova, e soprattutto trascurando la difficoltà che questo tema riveste circa il problema della correttezza deontologica e i limiti che subito si sono manifestati dopo l'emanazione dell'articolo 38 disp. att., mi sembra opportuno - per iniziare il mio intervento - prendere le mosse dalla prima delle tre profonde innovazioni del sistema processuale penale italiano, che hanno più direttamente inciso sul tema delle indagini difensive, e cioè la l. 332/1995, la quale ha definitivamente sottoposto all'attenzione dell'opinione pubblica il valore della centralità dell'indagine difensiva nel processo penale.

L'innovazione contenuta nell'articolo 38, 2° c. bis delle norme di attuazione offre una prima analitica previsione di come, concretamente, possano introdursi nel procedimento le risultanze dell'inchiesta difensiva, e come altresì la documentazione di esse debba essere presente all'interno del fascicolo relativo alle indagini preliminari; in pratica la norma ribadisce come il difensore possa  presentare gli elementi che costui riterrà opportuni ai fini della decisione che dovrà poi adottare il giudice, e come ciò possa essere svolto in tutte quelle fasi in cui il giudice sarà chiamato a decidere, sia essa la fase della custodia cautelare sia essa la fase delle chiusura delle indagini preliminari .

Ma una volta data questa descrizione astratta, della funzione del difensore, il legislatore del 1995 è riuscito a risolvere quelli che già dal 1988 apparivano come nodi irrisolti sul tema delle indagini difensive?

Già all'indomani dell'entrata in vigore dell'articolo 38 secondo comma bis, gli interpreti sottolineavano come numerosi fossero i dubbi sotto il profilo in discorso [3] : nulla si diceva anzitutto circa gli eventuali soggetti autorizzati a raccogliere le dichiarazioni rese dalle persone informate sui fatti, senza precisare altresì chi potesse essere legittimato ad una verbalizzazione che finiva per assumere una importante rilevanza in materia di formazione della prova; ed ancora, qualche autore si doleva di come fosse rimasto del tutto indeterminato il regime formale della documentazione difensiva, mancando ogni riferimento circa il contenuto della modalità della verbalizzazione da parte del difensore [4] , e  come, ancora, non fosse stato sufficientemente approfondito lo specifico profilo relativo alle modalità del colloquio tra difensore e fonte dell'informazione. 

Va' detto a onore dell'unione delle camere penali italiane che i problemi sollevati dalla dottrina processual penalistica, erano stati intuitivamente focalizzati sin dal 1988, dallo stesso organismo della avvocatura penale, sollecitato ad una attenta e specifica definizione di regole deontologiche, e rispondendo con ciò all'esigenza di un rovesciamento dell'approccio sull'indagine difensiva ( una volta addirittura oggetto di censura disciplinare ) resa facoltà o addirittura obbligo del difensore, nel rispetto di forme e limiti cui la reticenza del legislatore non aveva pensato.

Nasceva così una ambizioso ma opportuno codice deontologico per il penalista, le cui regole etiche erano state approvate a Catania il 30 marzo 1996, e che si dimostravano già allora capaci di colmare la lacune rappresentate dall'articolo 38 delle disposizioni attuative.

Basterebbe pensare all'articolo 9 di quelle regole etiche, e cioè l'articolo nel quale si legge : " il difensore può intervistare la persona informata sui fatti già escussa dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, ma non chiederle informazioni sul contenuto dell'interrogatorio reso, né può intervistare il teste già indicato dal giudice ai sensi degli articoli 422, 468, 507 e 603 e da altre parti processuali, ammesso che ciò non si renda necessario in seguito a nuove iniziative e attività di indagine del pubblico ministero o delle altre parti processuali" [5] , per comprendere come tale codice sia stato addirittura propedeutico alla norma infine introdotta nella l. 479 del 16 dicembre 1999, all'art. 430 bis.

Si é passati quindi da un sistema totalmente restio ad accettare la figura del difensore come autore di attività di indagine [6] , ( limitiamoci a far memoria della resistenza che l'Avvocatura aveva a prendere contatto con il testimone, a maggior ragione se teste proveniente dall'accusa ) ad un sistema processuale nel quale, per la verità per molti anni  solo in modo formale, si è riconosciuta l'esistenza del diritto attivo alla formazione dell'atto, per giungere infine a queste ultime vicende di produzione normativa, che sanno più di cronaca che di storia del processo penale, nelle quali l'attività dell'indagine difensiva sembrerebbe, ma ahime' solo sembrerebbe, avere finalmente trovato una sua giusta dignità.

Non saremmo in questo paese, se non fosse accaduto, come sempre succede, che le grandi riforme si verificano, soprattutto, sulla scorta di sollecitazioni emotive ; fu quella la motivazione che all'indomani delle stragi di mafia portò in pratica a tradire il principio accusatorio che aveva di fatto ispirato la costruzione del codice di procedura penale del 1988 ( e chi non ricorda il criterio di presunzione di pericolosità per i reati tipicizzati nell'art. 275 c.p.p., in materia di custodia cautelare in carcere ?) Ed infatti, all'epoca, qualche interprete - Vittorio Grevi se non sbaglio - finì per usare la definizione di contro-riforma, nel descrivere i presupposti di giurisprudenza costituzionale che avevano minato dalle fondamenta il sistema, ad esempio, con la reviviscenza del perverso meccanismo delle contestazioni all'esame dibattimentale.

D'altra parte, non può negarsi che queste motivazioni "emotive" abbiano influito in modo decisivo sulle due grandi riforme che hanno infine ricostruito il codice di rito processual-penalistico italiano: mi riferisco come è chiaro alla l. 16 luglio 1997 n. 234, ed alla più attuale l. 16 dicembre 1999 n. 479, nota unanimemente come "Legge Carotti".

L'interprete che tenti di trovare una possibilità di raccordo tra le varie normative, sarebbe probabilmente disorientato: basterebbe pensare a come, in modo clamorosamente contraddittorio, le due normative sembrano introdotte per riequilibrare il ruolo di accusa e difesa (e si vedrà con quali sistemi tale tentativo di riequilibrio è stato adottato ) ma contemporaneamente vengano attribuiti al giudice terzo, sopratutto nella fase della udienza preliminare e dell'udienza in sede di giudizio abbreviato, tutta una serie di poteri inquisitori, che correttamente dagli interpreti sono ricondotti ad una interpretazione inquisitoria del ruolo del giudice, il quale si trova a costruire e interpretare una prova non direttamente proveniente dalle parti processuali ma da lui stesso introdotta nell'esercizio dei poteri di integrazione del quadro accusatorio [7] .

Di fronte ad un quadro così contraddittorio, ed alle sollecitazioni sociali e politiche che hanno angustiato il legislatore processuale italiano in questi ultimi cinque anni, v'è da dire che molti osservatori hanno, secondo me, frettolosamente, plaudito ai due riferimenti normativi suddetti, manifestando segni, se non di compiacimento quando meno di soddisfazione per il fatto che, almeno sul piano dell'esercizio formale del diritto di difesa, a loro dire erano intervenuti due meccanismi di garanzia che alla fine, se correttamente utilizzati, potevano contribuire a riequilibrare il processo verso il criterio di parità processuale tra accusa e difesa.

Il primo dei due meccanismi è evidentemente quello della discovery che il legislatore del 1997 aveva introdotto con l'art.2, 2° l. 234/95, modificativo dell'articolo 416, 1° c.p.p., e cioè la previsione di nullità della richiesta di rinvio a giudizio se non preceduta dall'invito a rendere l'interrogatorio secondo le forme previste dall'art. 375, 3° ; il secondo è invece quello introdotto con la l. 479/99, meccanismo che concerne l'avviso di garanzia nella forma prevista dall'art. 415 bis c.p.p., e cioè il cosiddetto avviso all'indagato della conclusione dell'indagini preliminari

Per fare un po' di storia della disciplina precedente a questi due innovazioni, basterebbe ricordare che fino al 1997 il pubblico ministero poteva compiere le sue indagini senza interrogare l'interessato (che magari poteva avere conoscenza del procedimento per avere ricevuto l'informazione di garanzia, o, più probabilmente non saperne nulla).

Nel 1997, con l'introduzione dell'obbligo di invitare l'indagato a rendere l'interrogatorio veniva certamente soddisfatta l'esigenza, di civiltà che limitava lo spazio del segreto investigativo, venendo altresì soddisfatta un'esigenza  pratica relativa alla stessa economia del processo, visto che non erano rimasti isolati i casi nei quali l'imputato aveva fornito al giudice, solo in sede di dibattimento, quella versione a chiarimento dei fatti che, se fosse stata chiesta in precedenza, avrebbe reso inutile il processo e certamente determinato l'archiviazione ; in verità però la forma dell'art. 375 c.p.p. si era appalesata  secondo le regole della "coperta troppo corta", anche per il verificarsi di quella non apprezzabile situazione nella quale gli indagati, chiamati obbligatoriamente ed a pena di nullità, a rendere l'interrogatorio, erano tendenzialmente rivolti, come loro diritto, a non sottoporsi all'esame, e quindi sostanzialmente a vanificare lo scopo per il quale il legislatore aveva introdotto la previsione dell'art. 375.

Certamente, con il correttivo dell'art. 415 bis, il pubblico ministero mette in condizione il diretto interessato  di contribuire maggiormente alla indagini. Infatti è stato evidenziato come con tale nuova previsione normativa sia tramontata definitivamente la possibilità che le indagini preliminari possano chiudersi con l'esercizio dell'azione penale senza che sia mai stata concessa l'opportunità di offrire il proprio contributo alla ricostruzione dei fatti e oggetto dell'investigazione [8]

L'importanza di queste due nuove disposizioni può ben  comprendersi, nel ricordo dei primi processi governati dal nuovo codice, se qualcuno farà memoria di quello che accadeva quando l'imputato, conosciuta l'esistenza di un procedimento penale aperto a suo carico, chiedeva di essere sentito dal pubblico ministero ; "non solo le sue richieste istruttorie potevano rimanere lettera morta" [9] - è stato efficacemente scritto -  ma il pubblico ministero poteva rispedire al mittente gli atti di indagine svolti dalla difesa , se non addirittura rifiutare di sentire la persona spontaneamente presentatasi in sua presenza. 

Quanto di significativamente nuovo la legge Carotti introduce è il fatto che l'art. 415 amplia e formalizza le chances offerte all'indagato per intervenire nella formazione del materiale investigativo destinato a supportare le determinazioni del pubblico ministero e del GIP dopo l'esercizio dell'azione penale. Ricapitolata brevemente la disciplina, essa al momento si presenta così: prima della scadenza del termine previsto dall'art. 405 il p.m. deve far notificare alla persona sottoposta alle indagini ed al difensore un avviso di conclusione delle indagini stesse nel quale sia presentata la sommaria enunciazione del fatto per il quale si procede, delle norme di legge che sarebbero state violate, e con avvertimento che la documentazione relativa alle indagini e depositata presso la segreteria del p.m. e che l'indagato e il difensore hanno facoltà di prenderne visione e di estrarne copia. Da quel momento, decorrono 20 giorni di tempo per esercitare un ventaglio di facoltà: presentare memorie, produrre documenti, depositare la documentazione relativa alle indagini del difensore, e qui il punto nodale il mio intervento, chiedere al pubblico ministero il compimento di atti di indagine, presentarsi per rilasciare dichiarazioni ; se poi l'indagato di essere sottoposto all'interrogatorio, il pubblico ministero è vincolato a svolgere effettivamente questo atto a pena di nullità della stessa richiesta di rinvio a giudizio. 

Da tale ventaglio di opzioni difensive discende l'obbligo per il pubblico ministero di svolgere le indagini nei 30, o 60 giorni in caso di proroga successivi, peraltro con il vincolo di nullità della presentazione dell'eventuale richiesta di rinvio a giudizio se la persona sottoposta alle indagini non sia stata effettivamente sottoposta all'interrogatorio, qualora lo avesse chiesto, entro il termine indicato nell'articolo 415 bis, 3° c.p.p. 

Questo il quadro normativo che attualmente si presenta ai nostri occhi. L'apparente semplicità del sistema, propone in realtà una fattispecie di riferimento assai più complessa, poiché è chiaro che il riferimento delle legislatore del 1999 nel terzo comma dell'articolo 415 bis è fatto, senza alcun dubbio guardando l'art. 38, 2°, bis delle disposizioni attuative.

Quando il legislatore si riporta alla documentazione relativa alle investigazioni del difensore, evidentemente, si sta riferendo proprio alla norma introdotta con la l. 332/95 ed allora, va anzitutto ricordato che quando l'ondata emotiva che travolse Tangentopoli indusse il legislatore estivo a produrre la l. 332/95, il primo problema che si manifestò all'attenzione dell'interprete fu comprendere se sussistesse un vero e proprio diritto a presentare direttamente gli elementi ritenuti rilevanti ai fini della decisione da adottare, all'attenzione del giudice, o se tale diritto o meglio tale facoltà, spettasse all'indagato, con la possibilità di rivolgere tale bagaglio investigativo all'attenzione del p.m. [10]  .

Due posizioni dunque si manifestavano : quella di chi leggeva nell'articolo 38 secondo comma bis, l'incompatibilità di percorso alternativo e di penetrazione nel fascicolo delle indagini, mediante una irrituale presentazione diretta pubblico ministero, e quella di chi considerava che vi fossero invece, già nel codice, una serie di precisi riferimenti che portavano a sostenere che non vi fosse più ragion d'essere perché gli uffici del pubblico ministero dovessero ritenere irricevibili le istanze di indagini difensive, o meglio le vere e proprie indagini difensive: i riferimenti normativi erano, nella fattispecie, gli articoli 291, 292, 2° e 309 nr. 5 c.p.p., tutte norme contenute e riprodotte nel testo della l. 332/95.

Il problema poi si complica ulteriormente, nel senso che anche i lavori preparatori della l. 479/99 farebbero supporre che possa parlarsi di doppio binario per l'attività di indagini difensive, tanto è vero che nell'intervento in assemblea, al Senato, del Sen. Russo del 6 ottobre 1999 si afferma "certo, poi, nella strategia difensiva può anche esserci il difensore che preferisce far valere le sue carte davanti al giudice e non nella fase che precede l'esercizio dell'azione penale, e scegliere l'una o l'altra strada è sarà rimesso alla libera determinazione del difensore stesso".

Chiaramente per doppio binario intendiamo la possibilità che il difensore possa presentare l'esito della attività di indagine difensiva al pubblico ministero o personalmente al giudice.

E qui si pone preliminarmente un problema, che  giustifica le perplessità cui ho fatto cenno e che da più parti sono state mosse all'art. 415 bis : sostanzialmente le critiche riguardano da un lato la significativa tempestività che dalla l. 479 é stabilita per lo svolgimento dell'attività di impulso al p.m. e di indagine propria, dall'altro riguardano l'impossibilità per la difesa di esercitare il potere di indagine nell'ambito della udienza preliminare. 

I termini intanto: c'è da chiedersi come si possa pretendere che un difensore possa essere in grado in soli 20 giorni di procurarsi le copie degli atti e studiarsi e articolare un serio contributo nell'interesse del proprio assistito [11] : non bisogna dimenticare infatti che solo un ristretto numero di atti processuali è accessibile alla parte privata durante l'indagine preliminare, e penso per esempio al fascicolo relativo alle misure cautelari.

Per il resto molta parte del fascicolo delle indagini preliminari, depositato dal pubblico ministero è ignota al difensore, ed al di là del problema pratico in questione, è anche vero che il termine stabilito nell'art. 415 si rapporta come estremamente ristretto, proprio in considerazione della complessità delle attività investigative che si aprono al difensore, che è bene ricordare, non sono soltanto la richiesta di interrogatorio o la preparazione della spontanea comparizione dell'indagato avanti al pubblico ministero ma possono, secondo l'articolo 38 delle disp.att., riguardare anche una vera e propria attività di indagine difensiva successiva a quelle prodotte dal pubblico ministero, una sorta di indagine a confutazione.

La conclusione è che se è il termine sarà inteso, come appare da qualche curia, come termine di decadenza da qualunque attività di indagine che possa entrare a far parte del fascicolo del pubblico ministero, questa rigorosa scansione processuale finirà per vanificare la volontà del difensore di essere parte attiva nella difesa.

A questa obiezione Giorgio Spangher ha tentato di rispondere sottolineando come " proprio per evitare arbitrari sfondamenti del termine delle indagini, il legislatore ( seguendo la linea per la quale le eventuali deroghe presuppongono la previsione normativa, le condizioni legittimanti e l'intervento del GIP) ha preferito cadenze serrate per l'iniziativa della difesa e per l'attività del pubblico ministero” [12] .

L'espletamento - secondo l'autore - fuori dai termini darà luogo all'inutilizzabilità dell'attività compiuta, verosimilmente sia in caso di esito favorevole sia in caso di esito negativo per l'indagato.

Al di là della opportunità mostrata dalla Carotti di non ricorrere ad una previsione tassativa di decadenza nella determinazione dei termini assegnati alla difesa per esercitare il proprio diritto di difesa attiva, mi pare assolutamente riduttivo e scarsamente pratico un termine così tempestivo, probabilmente lontano dalle regole che governano quelle segreterie, così poco dotate di mezzi e di personale.

Ma il nodo è purtuttavia centrale, e questa doglianza non è solo di stile. Infatti, è doveroso chiedersi, che cosa può accadere se il difensore non eserciti il diritto alla formazione della prova difensiva nel rispetto dei 20 giorni previsti dalla norma ?

Abbiamo già detto che secondo i lavori preparatori una soluzione alternativa alla decadenza dall'impossibilità di dedurre prove in fase pre-dibattimentale si avrebbe mediante l'esercizio da parte della difesa di richiedere l'acquisizione della propria attività d'indagine nella sede dell'udienza preliminare: in pratica, secondo questa interpretazione, che prende le mosse dagli interventi in assemblea, le attività difensive svolte nel rispetto dell'art. 38 disp. att. potrebbe avere il duplice sbocco della fase preliminare all'udienza di cui all'art. 421, o quello vero e proprio della udienza preliminare: del resto questa soluzione potrebbe essere autorizzata proprio perché l'art. 38, 2° bis delle disp. att., consenta al difensore di presentare direttamente al giudice gli elementi rilevanti ai fini della decisione da adottare [13] .

Sta di fatto che questa soluzione non mi pare conferente al sistema processuale attualmente vigente, con il rischio quindi che il difensore intempestivo potrebbe non svolgere più nessuna attività di indagine prima dell'eventuale dibattimento.

A me sembra, infatti, che non ci si possa allontanare dal riferimento letterale dell'art. 419, 2° c.p.p., nel quale si legge che l'avviso è altresì comunicato al pubblico ministero e notificato al difensore dell'imputato, con l'avvertimento della facoltà di prendere visione degli atti e delle cose trasmesse a norma dell'art. 416, 2° c.p.p., e di presentare memorie e produrre documenti.

In effetti l'art. 415 bis, al terzo comma, distingue attentamente l'attività di produzione di documenti, affidata al difensore, dalla specifica attività di deposito della documentazione relativa alla investigazione svolta dal difensore; il che significa, senza timore di dare eccessiva rilevanza alla terminologia adottata dal nostro legislatore emotivo, che nella fase dell'udienza preliminare la difesa non può depositare la documentazione relativa alle investigazioni svolte nel rispetto dell'art. 38 disp. att..

Ha scritto recentemente sul punto Francesco Caprioli [14] che i due concetti si trovano, per la prima volta, nettamente contrapposti, e che da ciò deriva un curioso obbligo di discovery a parti invertite: per rendere spendibili la propria investigazione in sede di udienza preliminare, il difensore ha l'obbligo di presentare la relativa documentazione al pubblico ministero a norma dell'art. 415 bis del codice di rito, in difetto non resterebbe al difensore che avvalersi delle conoscenze acquisite nell'indagine parallela, al fine di esercitare i poteri di integrazione probatoria concessi al giudice dell'udienza preliminare che, come è noto, sono stati notevolmente potenziato i dalla nuova disciplina dell'udienza preliminare stessa. 

Va da sé, allora, che ciò che apparentemente si poteva rappresentare come una momento genetico importante per la formazione della prova è diventato invece un simulacro difensivo, che anziché sollecitare la difesa ad una produttiva attività di contributo all'accertamento della verità potrebbe ( secondo me ), di qui a poco, portare ad una presa di coscienza che anche stavolta, nel tentativo di espandere i diritti della difesa, si è scelta una soluzione di compromesso che va a discapito della stessa nostra funzione.

Ciò a maggior ragione perché la norma dell'art. 415 bis non obbliga assolutamente il pubblico ministero ad accogliere le richieste istruttorie provenienti dall'indagato o dal suo difensore [15] .

Costui, o per carenza di mezzi nel proprio studio legale, o per opportunità, potrebbe comunque aver intenzione di far svolgere l'attività di indagine difensiva non a propri collaboratori, sostituti o investigatori, quanto piuttosto agli uffici del pubblico ministero, normalmente più strutturati, almeno in periferia, per l'espletamento di alcune importanti attività di indagine.

Ebbene, il fatto che il P.M. sia svincolato dall'obbligo di svolgere le attività di indagine dedottegli dalla difesa, sembra ricavabile in modo univoco : infatti, lo stesso art. 415 bis, 3° ( nella parte in cui il legislatore dichiara espressamente vincolante per l'accusa la sola richiesta dell'indagato di essere sottoposto ad interrogatorio ) può indurre a tale conclusione.

Del resto, anche  gli artt. 416 e 552 c.p.p. non prevedono alcuna nullità per l'atto di esercizio dell'azione penale non preceduta dallo svolgimento delle indagini sollecitate dalla difesa, portano a questa non felice constatazione, per la quale lo spazio di incidenza dell'attività difensiva è, davvero, anche in questo caso, troppo ristretto, e ciò con buona pace di quell'inciso dettato dall'art. 358 c.p.p., nel quale si legge che il p.m. svolge inoltre accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.

A questo punto c'è da chiedersi, se, al di là del capestro dell'art. 415 bis, non fosse più coerente con le garanzie difensive il primo sistema, quello cioè tratteggiato dal solo articolo 38 delle disposizioni attuative, posto che consentendo il ricorso al solo organo giurisdizionale e non alla controparte processuale, si sarebbe non soltanto garantita una maggiore affidabilità complessiva dei materiali prodotti nella fase dell'indagine, ma anche elevato il tasso di effettività del diritto di difesa.

Ed infatti da più parti si chiede a gran voce un ritorno all'incidente probatorio allargato, e cioè a quella attività di indagine proposta dalla difesa direttamente all'organo giurisdizionale, senza i filtri ed i laccioli dell'art. 415 bis.

In conclusione, neppure la tanto propagandata riforma della vera parità tra accusa e difesa ha colto nel segno, sempre ammesso che il vero obbiettivo del processo penale debba essere, anche per il difensore, il raggiungimento del livello di piena e totale equiparazione tra la parte processuale pubblica e quella privata.

In realtà, malgrado la Carotti, siamo ancora - e le recentissime istanze di rimessione alla Corte Costituzionale lo dimostrano - a quella che Giuseppe Frigo ha chiamato la "parabola involutiva subita rapidamente dal modello processuale penale" [16] .

Le parole di Frigo sono emblematiche di un malessere diffuso : "...a cagione del quale è stato in gran parte distrutto l'impianto della separazione delle fasi, così che nel dibattimento hanno fatto irruzione, con valenza probatoria, gli atti d'indagine del P.M. , ed addirittura la difesa è stata imbavagliata, da quando è costretta a subire gli effetti delle dichiarazioni precedenti, resa alla polizia o al P.M. da coimputati, che a dibattimento si avvalgono della facoltà di non rispondere" [17] .

Ed è proprio per tale ragione che tanta attenzione riveste, adesso, il metodo di attuazione dell'indagine difensiva, e tanto rilevante è divenuto lo "stile" comportamentale, cioè il rispetto del "codice deontologico" del penalista, nell'adempimento del mandato difensivo, ed in particolare nell'esercizio del diritto - dovere di attività di indagini difensive.

avv. Costantino Murru, Foro di Oristano - 4 luglio 2000

(riproduzione riservata)


[1] Tra le molte opinioni al riguardo, ricordiamo, a titolo meramente esplicativo, quella di F. PERONI, in "Le indagini difensive tra problematiche attuali ed istanze di riforma" in CASSAZIONE PENALE, 1998, 2224, n. 1265

[2] cfr. A. CRISTIANI, "Manuale del nuovo processo penale", Torino, 1989, p. 583

[3] cfr. F. LAZZARONE, "Le indagini difensive" in "Indagini preliminari ed instaurazione del processo", Torino, 1999, pag. 307

[4] cfr. G. LOCATELLI, "La documentazione degli atti d'indagine del p.m. e delle investigazioni difensive" in CASSAZIONE PENALE, 1997, 590, n. 375

[5] Cfr. "Il Prontuario del Penalista", in GUIDA AL DIRITTO - DOSSIER MENSILE, Novembre 1998, pag. 64

[6] cfr. Consiglio nazionale Forense, decisione 29 marzo 1973, Avv. E.T., ove leggessi "l'avvocato che abbia invitato nel proprio studio i testimoni di parte avversaria al fine di informarli di una denuncia già presentata contro di loro per falsa testimonianza...va punito per violazione dei doveri di correttezza professionale".

[7] cfr. G. GARUTI, "La nuova fisionomia dell'udienza preliminare" in  "Il processo penale dopo la riforma del giudice unico", Padova, 2000, pag. 397

[8] cfr. F. CAPRIOLI, "Nuovi epiloghi nella fase investigativa" in  "Il processo penale dopo la riforma del giudice unico", Padova, 2000, pag. 266

[9] cfr. F. CAPRIOLI, ibidem

[10] cfr. G. CONSO - V. GREVI, "Compendio di procedura penale", Padova, 2000, p. 486

[11] cfr. P. MICHELI, "La legge Carotti, problemi pratici e interpretativi", in "giudice Unico, gli effetti della riforma", divulgato sul sito web "Cittadino.lex" in www.cittadino.lex/commento

[12] cfr. G. SPANGHER, in "Diritto penale e processo", Febbraio 2000, p. 187

[13] cfr. G. LOZZI, in "Lezioni di procedura penale", Torino, 1997, p. 351

[14] cfr. F. CAPRIOLI, ibidem

[15] cfr. R. BRICCHETTI, in "Udienza preliminare protagonista in deflazione", in GUIDA AL DIRITTO, 2000, 1, p. 44

[16] cfr. G. FRIGO, "Penalisti : La giusta parità nel processo si conquista anche sul terreno deontologico" in "Il Prontuario del Penalista", in GUIDA AL DIRITTO - DOSSIER MENSILE, Novembre 1998, pag. 4

[17] cfr. G. FRIGO, ibidem

 
© Copyright Penale.it - SLM 1999-2012. Tutti i diritti riservati salva diversa licenza. Note legali  Privacy policy