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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 11 luglio 2007 (dep. 26 ottobre 2007), n. 39619

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Corte di Cassazione, Sezione IV Penale, Sentenza 11 luglio 2007 (dep. 26 ottobre 2007), n. 39619
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Gestione di impianti sciistici: Responsabilità anche in caso di "fuori pista"

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Magistrati:
Dott. COCO Giovanni Silvio - Presidente
Dott. CAMPANATO Graziana - Consigliere
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere
Dott. ROMIS Vincenzo - rel. Consigliere
Dott. FOTI Giacomo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
1) B.P., nato il ...;
2) A.E., nato il ...;
 
avverso la sentenza del 16/01/2007 della Corte d'Appello di Torino;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Vincenzo Romis;
udito il Procuratore Generale in persona del Sost. Proc.Gen. Dott. Antonio Gialanella, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito, per la parte civile P.L. l' Avv. S.S., che ha depositato conclusioni scritte;
Uditi i difensori Avv.ti G.G. e L.G., fu l'imputato B., che hanno concluso per l'accoglimento del
ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il giorno 4 gennaio 2000, vero le or 15,40, la societa' Colomion, che gestiva gli impianti di risalita in localita' (OMISSIS), segnalava alla Polizia di Stato che nella zona fuoripista, situata tra le piste (OMISSIS), si era verificato un incidente; attivata immediatamente la Croce Verde, l'infortunato, il giovane C.F., veniva trasportato presso il C.T.O. di Torino dove purtroppo decedeva poi il 13 gennaio 2000 in conseguenza di un gravissimo traumatismo. Le indagini immediatamente avviate consentivano di accertare lo svolgimento dei fatti. La societa' Colomion gestiva entrambe le piste da sci, la n. (OMISSIS), ed aveva predisposto alle stazioni di risalita alcuni cartelli con i quali gli utenti venivano invitati a non lasciare i percorsi delle piste. Il (OMISSIS) il giovane C. stava sciando insieme all'amico C.A. lungo la pista (OMISSIS), e i due avevano deciso di lasciare quella pista e di ricollegarsi alla pista n. (OMISSIS) attraverso un varco senza tuttavia accordarsi su quale passaggio avrebbero utilizzato: ad un certo punto il C., senza preavviso, usciva dalla pista utilizzando un varco di circa 15 metri nella vegetazione che delimitava la pista (OMISSIS), mentre l'amico Caprile proseguiva la discesa ed usciva dalla pista (OMISSIS) effettuando l'attraversamento solo circa 200 metri piu' a valle. Nel tratto fuoripista imboccato dal C., che divideva i due tracciati, scorreva, a circa 20 metri dal bordo della pista (OMISSIS), un torrente che, ad innevamento normale, risultava totalmente coperto, al punto che molti utenti lo sorpassavano sciando fuori pista. In quel giorno l'innevamento era scarso ed il C., il quale non aveva potuto avvistare prima il letto del torrente perche' nascosto dal profilo della neve, era precipitato per una scarpata di circa quattro metri battendo il capo contro le rocce affioranti che delimitavano il corso del torrente. Due giorni prima, esattamente il (OMISSIS), gia' altri sciatori avevano effettuato lo stesso passaggio ed erano caduti nel torrente. La societa' Colomion era stata informata delle cadute avvenute il 2 gennaio ed A.E., dipendente preposto agli impianti di risalita, aveva assunto l'iniziativa, che rientrava nelle sue mansioni, di avvisare l'amministratore delegato B.P.: era stato quindi posizionato un cartello giallo e nero di pericolo di caduta (disegno di omino che precipita in una scarpata) sporgente dalla neve per circa un metro. All'esito delle indagini B. P. ed A.E. (unitamente al Presidente della Colomion U.C. poi assolta per non aver commesso il fatto) venivano quindi tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Torino - Sez. di Susa per rispondere del reato di cui agli artt. 113 e 589 c.p., perche', in cooperazione colposa tra loro, ciascuno con le responsabilita' derivanti dal proprio ruolo all'interno della predetta societa' "Colomion S.p.A." (il B. quale amministratore delegato, direttore tecnico amministrativo con incarico di gestire gli impianti, e l' A. quale caposervizio addetto alla sicurezza dell'impianto), per colpa, consistita in negligenza, imprudenza e imperizia, avevano cagionato la morte del C.: in particolare, non delimitando in modo netto il bordo della pista n. 26 e non interdicendo agli sciatori il varco di collegamento esistente tra la pista n. (OMISSIS) e la n. (OMISSIS), mediante idonea palinatura, apponendo inoltre, anziche' un cartello di divieto, un cartello di pericolo, peraltro del tutto inidoneo (in quanto posto a valle e non a monte del pericolo che doveva fronteggiare, nonche' scarsamente visibile perche' mimetizzato con la vegetazione esistente), non avevano consentito al C. di percepire ed evitare il grave pericolo derivante dalla presenza, a circa 20 metri dall'inizio del citato varco di collegamento, del greto di un torrente, non visibile dalla pista, con una scarpatella di circa 4 metri, cosicche' il C., dopo aver imboccato il varco, era finito nel letto del torrente sbattendo il capo su una roccia al margine del greto, in tal modo riportando gravissime lesioni da trauma cranio - facciale che ne avevano determinato il decesso qualche giorno dopo (fatto verificatosi il 4 gennaio 2000, decesso avvenuto il 13 gennaio 2000). Il Tribunale predetto condannava quindi il B. e l' A. alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, e motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono cosi' riassumersi:
A) i due imputati, avuto riguardo alle cariche dagli stessi ricoperte all'interno della societa' Colomion, erano venuti meno a doveri di sorveglianza in termini di sicurezza dell'impianto;
B) il varco utilizzato dal C. era un percorso fuori pista, e cioe' una variante annessa alle piste gestite, e notoriamente utilizzato - malgrado i cartelli inibitori - persino dai maestri di sci con i loro scolari;
C) la conoscenza da parte degli imputati di un tale pericolo, connesso alle piste gestite, era assolutamente concreto, e per giunta insidioso per l'urente (non essendo il torrente visibile), ed aveva fatto sorgere a loro carico l'obbligo di impedire l'evento dannoso;
D) la colpa contestata non muoveva da una norma specifica ma dai principi generali in tema di colpa: la responsabilita' della Colomion non avrebbe potuto certo estendersi a tutta la montagna, ma in presenza di un pericolo conosciuto ed attuale sussisteva l'obbligo di evitare l'evento;
E) sia i cartelli di invito a non uscire dalle piste, sia quello specifico di rischio di caduta (apposto dopo le cadute verificatesi il (OMISSIS)), non potevano considerarsi idonei ad inibire e prevenire il rischio: i primi perche' troppo generici, l'altro perche' era di mero pericolo e posto a valle del pericolo stesso;
F) la condotta doverosa sarebbe stata quella di chiudere il passaggio ovvero segnalare la pista come chiusa con un cartello, vigilando sull'osservanza del divieto;
G) non appariva ravvisarle un'interruzione del nesso causale per la condotta imprudente del C., posto che, proprio per l'abitudine con cui veniva utilizzato dall'utenza quel varco, si era verificata una situazione di affidamento dell'utente C. nei confronti dei gestori dell'impianto.
A seguito di gravame ritualmente proposto dagli imputati, la Corte d'Appello di Torino confermava l'affermazione di colpevolezza pronunciata nei confronti degli stessi in primo grado, riducendo la pena a mesi sette di reclusione, ciascuno, e confermando le statuizioni civili con condanna degli imputati alle spese sostenute dalle costituite parti civili per il grado di giudizio.
Preliminarmente, la Corte territoriale rigettava la richiesta di rinnovazione del dibattimento per l'espletamento di una perizia tecnica, evidenziando l'inutilita' di tale incombente istruttorio sul rilievo dell'insussistenza di qualsiasi incertezza sulle modalita' dell'incidente; al riguardo, la Corte precisava altresi' che le perplessita' della difesa degli appellanti circa la specializzazione del C.T. del P.M. sarebbero state fugate dando per accettati i punti di vista dei difensori. La Corte di merito, quindi, nel ricordare la vicenda processuale portata al suo vaglio, quale descritta dal Tribunale, e nel disattendere tutte le doglianze degli appellanti in punto di affermazione di colpevolezza, evidenziava, le seguenti circostanze di fatto:
A) il C. era passato dalla pista (OMISSIS) attraverso un varco, tecnicamente da ritenersi fuoripista, dove dalla pista superiore si vedeva il tracciato di quella inferiore, ed in un punto in cui le due piste avevano la distanza minima fra loro;
B) il passaggio fra una pista e l'altra era, malgrado i generici inviti della "Colomion" agli utenti di non lasciare la pista, di fatto permesso in altri tratti persino con un'apposita regolamentazione;
C) l'utilizzo di quello specifico collegamento fuori pista, utilizzato dal C., era conosciuto dai gestori dell'impianto, non solo dopo il (OMISSIS) per la caduta nel torrente da parte di tre sciatori, ma anche prima per l'abitudine di dare in quella zona lezioni di sci;
D) quel passaggio era altamente pericoloso perche' intersecante con un torrente che, coperto in caso di innevamento copioso, era invece scoperto in caso di innevamento scarso;
E) la specifica pericolosita' del passaggio, dovuta al torrente, era occulta allo sciatore, in quanto non sempre presente per innevamento ed in quanto non percepibile visivamente nel momento della decisione di abbandonare la pista;
F) il pericolo altissimo e specifico di quei giorni era conosciuto dai gestori per le tre precedenti cadute verificatesi il giorno (OMISSIS);
G) consci di tale alto pericolo, entrambi gli imputati si erano attivati con la collocazione di un segnale di pericolo di caduta in un dirupo: detto segnale, regolamentare per disegno e dimensioni, era stato collocato a due metri dall'uscita dalla pista, alla sua sinistra, e a dieci metri prima del torrente, ed era visibile per chi si accingesse a lasciare la pista utilizzando quel varco.
Sotto il profilo strettamente giuridico, la Corte distrettuale cosi' argomentava:
1) all'epoca non esisteva alcuna normativa ne' statale ne' regionale che imponesse particolari obblighi ai gestori degli impianti di attivita' sciistica, ma gli stessi gestori dovevano essere ben consapevoli di farsi carico della complessiva pericolosita' dell'attivita' svolta, anche al di fuori delle piste battute ma riconnessa al loro utilizzo: in quanto gestore dell'impianto sportivo, la C. era titolare di una speciale posizione di garanzia a tutela dell'incolumita' degli utenti dell'impianto;
2) non era ravvisabile alcuna colpa per la mancata adeguata segnalazione della delimitazione della pista, sia perche' la pista era ben segnalata, sia per la mancanza di nesso di causalita' posto che il C. era uscito dalla pista consapevolmente;
3) rilevava piuttosto il profilo di colpa di non aver segnalato adeguatamente ai margini della pista lo specifico rischio nascente dall'esistenza del torrente occulto, gravando sugli imputati l'obbligo giuridico derivante dall'attivita' dagli stessi svolta in quanto generatrice di pericolo: cio' in base alla generale norma in tema di responsabilita' dettata dall'art. 2050 c.c., relativa ad attivita' pericolose, che impone al gestore l'onere di adottare tutte le misure idonee ad evitare il danno e trova fondamento nel principio costituzionale di solidarieta' sociale: dovendo intendersi per pericolo anche "quello che involge l'altrui imprudente condotta" (fg. 8 sentenza della Corte d'Appello);
4) la sola collocazione del segnale di pericolo di caduta non poteva ritenersi misura idonea a ritenere assolto l'obbligo di garanzia degli imputati; il gestore avrebbe dovuto farsi carico del comportamento dello sciatore medio che, specie nel caso di utenza giovane, e' connotato da un certo tasso di imprudenza, "qui tragicamente rappresentato dalla decisione con cui C. usci' di pista, e che lo porto' a non fermarsi e dunque a non vedere il segnale di pericolo" (cosi' testualmente a pag. 9 della sentenza d'appello);
5) solo una evidente e fitta palinatura (meglio ancora una transennatura con apposite strisce zebrate) avrebbe assolto in maniera adeguata all'obbligo di segnalazione del pericolo; detta misura sarebbe stata agevolmente approntabile dal gestore, e la sua omissione si era posta in nesso causale certo con l'evento: il C., attraverso i generici e contraddittori inviti a non lasciare la pista e ad utilizzare solo alcune connessioni fra le due piste, poteva dirsi sufficientemente avvisato dei generici pericoli riconnessi al fuori pista (presenza di ostacoli, asperita' della neve, possibili smottamenti) ma non della presenza di un torrente, occulto alla sua vista, e con uno strapiombo di quattro metri;
6) se avesse ritrovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisso, il C. avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi, cosi' vedendo il segnale esplicito di pericolo affisso, misura da sola inidonea ad arrestare la sua condotta. Avverso detta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, con atti separati, B.P. e A.E..
Le doglianze dei ricorrenti possono sintetizzarsi come segue:
A) Ricorso B.:
1) Con un primo motivo si denuncia l'irritualita' della notifica dell'avviso di deposito dell'estratto contumaciale ex art. 548 c.p.p., comma 3;
2) e
3) Per quanto attiene al primo profilo del secondo motivo di ricorso, con esso si lamenta una violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), per non avere, il Giudice di appello, disposto l'effettuazione di una perizia; con il secondo profilo del secondo motivo e con il terzo motivo di ricorso viene denunciato il vizio di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), da due diversi punti di vista: da un lato, si assume che "... la ricostruzione effettuata dalla sentenza impugnata, in realta', non corrisponde a quella effettuata dai consulenti tecnici e dai testimoni" sicche' si sarebbe di fronte ad "...errori presenti nella ricostruzione del fatto" (cfr. foll. 4 - 6); dall'altro, si afferma che "...la sentenza impugnata sarebbe priva dei necessari passaggi logici e trascurerebbe del tutto atti del processo" che vengono indicati in ricorso e, quindi, allegati allo stesso (si tratta di consulenze tecniche e copie di verbali di udienza); atti che "se tenuti in considerazione, avrebbero portato all'assoluzione del B.", tanto che il ricorrente parla della sussistenza, nel caso di specie, di un vero e proprio "travisamento del fatto" (fog. 7 - 8 del ricorso);
4) Con il quarto motivo di ricorso si sostiene che la Corte di merito avrebbe reso motivazione illogica e contraddittoria laddove, dopo aver ritenuto corretta la segnalazione della delimitazione della pista, ha poi affermato che sarebbe stato necessario porre un ostacolo fisso al passo del varco;
5) Con il quinto motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la condanna nei suoi confronti sarebbe stata pronunciata con riferimento ad un fatto nuovo mai contestato;
6) Il sesto motivo di ricorso e' dedicato alla critica mossa alla sentenza impugnata laddove la Corte di merito ha ritenuto di individuare nell'art. 2050 c.c., la fonte normativa dell'obbligo giuridico la cui inosservanza avrebbe integrato la colpa omissiva oggetto della contestazione; ad avviso del ricorrente il riferimento a detta norma risulterebbe assolutamente non pertinente posto che non sarebbe ravvisabile, nell'attivita' di gestione di impianti sciistici, alcuna connotazione di pericolosita'; 7) Con il settimo (ed ultimo) motivo di doglianza si assume che il Giudice di secondo grado avrebbe "...effettuato in maniera superficiale e carente l'operazione del giudizio controfattuale", laddove la stessa Corte di merito ha osservato che, se la vittima avesse trovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisico, egli avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi; in sostanza, ad avviso del ricorrente, non potrebbe escludersi, al di la' di ogni ragionevole dubbio, che il C., tenuto conto della volontarieta' della sua condotta di uscire fuori di pista, si sarebbe comportato in egual maniera pur in presenza di una diversa segnalazione di pericolo effettuata con sbarramento ovvero interdizione del varco;
B) Ricorso A.: Il ricorrente A., pur con argomentazioni meno diffuse ed articolate rispetto a quelle addotte a sostegno del ricorso del B., ripropone sostanzialmente le censure di quest'ultimo, sotto un duplice profilo:
1) non sussisterebbe posizione di garanzia per l'attivita' di chi va fuori pista;
2) l'incidente in questione non potrebbe considerarsi conseguenza della condotta (attiva od omissiva) degli imputati, ma sarebbe stato determinato dal comportamento del C., il quale, pur conoscendo compiutamente la stato dei luoghi essendo un abituale frequentatore delle piste di (OMISSIS), avrebbe coscientemente violato un divieto derivante dalla presenza del cartello di pericolo portandosi volontariamente fuori pista;
3) nelle conclusioni del suo ricorso, l' A. chiede poi la sospensione dell'esecuzione della condanna civile ai sensi dell'art. 612 c.p.p., assumendo che l'esecuzione della condanna civile potrebbe comportare un danno grave ed irreparabile essendo egli un operaio addetto agli impianti e come tale stipendiato.
Resiste con memoria ritualmente depositata la parte civile P. L. la quale, in particolare, evidenzia l'inutilizzabilita' della consulenza tecnica dell'ing. BE.Fr. datata giugno 2000, allegata al ricorso del B., in quanto mai prodotta in precedenza; in tale memoria si precisa che nel corso del dibattimento risulterebbe acquisita una consulenza BE. datata 2 luglio 2003 il cui contenuto differirebbe in parte rispetto a quello della consulenza allegata al ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I ricorsi vanno rigettati per le ragioni di seguito indicate.
Per maggiore chiarezza espositiva, si ritiene opportuno esaminare singolarmente i motivi dedotti dai due ricorrenti.
Ricorso B.;
A) In ordine alla prima censura e' sufficiente osservare che, a tutto voler concedere, resta, ad ogni buon conto, che nel caso di specie, essendo stato ritualmente interposto, dall'imputato, il ricorso per cassazione, deve trovare applicazione il principio di diritto enunciato (e piu' volte ribadito) da questa Corte secondo cui nell'ipotesi in cui l'imputato abbia regolarmente presentato nei termini l'impugnazione, l'eventuale nullita' della notifica dell'estratto contumaciale deve ritenersi sanata, essendosi l'interessato avvalso della facolta' al cui esercizio l'atto (affetto da nullita') era preordinato (cosi', "ex plurimis", Sez. 5, n. 3349 del 16/03/2000, Rv. 215586, imputato Palmegiani ed altri).
B) Per quanto attiene al primo profilo del secondo motivo di ricorso, va ribadito anche in questa circostanza quanto gia' ripetutamente affermato nella giurisprudenza di legittimita', e cioe' che la perizia e' mezzo di prova neutro ed e' sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze: la sua assunzione e' pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non e' riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non e' sanzionabile ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione come nella concreta fattispecie, avendo i giudici del merito dato conto del proprio convincimento come sopra ricordato (nella parte relativa allo "svolgimento del processo) - e' insindacabile in sede di legittimita', anche ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), (cfr, al riguardo, Sez. 5, n. 12027 del 06/04/1999, Rv. 214873, imputato Mandala).
La mancata assunzione di una prova decisiva - quale motivo di impugnazione per cassazione puo' essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'ammissione a norma dell'art. 495 c.p.p., comma 2. Il diritto alla controprova riconosciuto all'imputato dall'art. 495 c.p.p., comma 2, non puo' avere ad oggetto l'espletamento di una perizia, mezzo di prova non classificabile ne' a carico ne' a discarico dell'accusato e rimesso essenzialmente al potere discrezionale del giudice, la cui valutazione, se assistita da adeguata motivazione, e' insindacabile in sede di legittimita'. Conseguentemente deve negarsi che l'accertamento peritale possa ricondursi al concetto di prova decisiva la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d); infatti, sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva, di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), allorquando l'elemento probatorio pretermesso di per se' abbia un contenuto tale da risolvere il "thema decidendum"; dunque, non puo' definirsi decisiva una prova abbisognevole, come nel caso di specie, di comparazione con altri elementi acquisiti in processo, (non per negarne la efficacia dimostrativa, bensi' per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione argomentativa per quanto oggetto del giudizio): in tal caso, infatti, viene meno il carattere di "decisivita'". A cio' aggiungasi che, secondo il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte, sussiste il vizio di mancata ammissione di prova decisiva che legittima il ricorso per cassazione avverso la decisione di secondo grado e di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), solo in caso di violazione del diritto alla prova. Orbene, nel giudizio di appello le parti hanno il diritto alla prova ad esse attribuito dagli artt. 190 e 495 c.p.p., solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronunzia di primo grado (art. 495 c.p.p., comma 2), cosi' come espressamente dispone l'art. 603 c.p.p., comma 2; ne consegue che, se non ricorre tale ipotesi (e dunque nella prospettiva dell'art. 603 c.p.p., comma 1), la mancata assunzione della prova e' censurabile in cassazione solo per mancanza o manifesta illogicita' della motivazione (art. 606 c.p.p., lett. e) del provvedimento che rigetta la relativa richiesta, e non anche ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d). Nel caso di specie il Giudice ha ritenuto superflua o irrilevante, ex art. 190 c.p.p., comma 1, non una prova oggetto di diritto ex art. 495 c.p.p., comma 2, sicche' la motivazione della Corte di merito appare del tutto conforme ai reiterati principi enunciati da questa Corte con riferimento all'art. 603 c.p.p., ed ai contenuti dell'obbligo di motivazione del Giudice di appello (Sez. 5, n. 6924 del 20/02/2001, RV. 218279, IMP. Delfino). Nel giudizio d'appello la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale e' istituto eccezionale al quale puo' farsi ricorso solo quando il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Al di fuori del caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le parti non hanno il diritto alla prova che riconoscono loro gli artt. 190 e 495 c.p.p.. Fuori di tali ipotesi la mancata assunzione della prova non e' mai censurabile in cassazione a norma dell'art. 606 c.p.p., lett. d), bensi' solo ai sensi della lett. e) di tale ultimo articolo. (Cass. Sez. 5, 21 ottobre 1996, Bruzzise, RV 207067; vedi anche Cass. Sez. 6, 30 aprile 2003, Gervasi, RV 227706, secondo cui "con riguardo al giudizio di appello, la mancata assunzione di una prova decisiva puo' costituire motivo di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. d), solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, che avrebbero dovuto essere ammesse, secondo il disposto dell'art. 603 c.p.p., comma 2, sui presupposti stabiliti dell'art. 495 c.p.p., comma 1. Negli altri casi la decisione istruttoria del giudice di appello e' censurabile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), sotto il solo profilo della mancanza o manifesta illogicita' della motivazione della sentenza, come risultante dal testo del provvedimento impugnato".
C) Possono ora esaminarsi congiuntamente il secondo profilo del secondo motivo di ricorso ed il terzo motivo di censura, posto che con entrambi viene denunciato vizio motivazionale con riferimento ad asseriti errori nella ricostruzione del fatto da parte della Corte territoriale.
Va innanzi tutto sottolineato che le deduzioni del ricorrente, piu' che denunciare plateali errori di lettura (da parte del giudice "a quo") di inequivoche rappresentazioni di circostanze di fatto, si risolvono:
1) in primo luogo:
A) nella prospettazione, con rilevanti profili di genericita', di punti di vista semplicemente alternativi a quelli fatti propri, nella lettura del fatto, dalla Corte di merito (ad esempio, in ordine al carattere "minimo" o non "minimo" della distanza tra le piste (OMISSIS));
B) nella prospettazione apodittica di opinioni generiche del ricorrente (ad esempio, in ordine alla visibilita' "da grande distanza" del c.d. segnale di pericolo od alla ragione delle cadute verificatesi, nel luogo ove poi avvenne l'evento letale, nei giorni precedenti lo stesso;
C) nella reiterata prospettazione, del pari tautologica, dell'opinione dei consulenti della difesa (in ordine, ad esempio, alla visibilita' del torrente per chi, come la vittima, provenisse dalla pista a monte);
2) in secondo luogo, nella prospettazione, in termini ancora una volta del tutto generici, di un "travisamento del fatto" ad opera della Corte di merito. Orbene: a fronte di motivi di ricorso cosi' formulati, compito di questa Corte non e' quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensi' quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimita', l'incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte di merito, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell'equilibrio della decisione impugnata. In realta', le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell'indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimita', sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell'assenza, in quest'ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realta' degli appartenenti alla collettivita', o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilita' cosi' da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione.
Orbene, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla legge 46/2006, occorre allora tener conto che:
1) la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, puo' parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioe', incorra in una utilizzazione di un'informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della legge n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificita' per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell'art. 581 c.p.p., lett. e), (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente accanto all'onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell'art. 581 c.p.p., anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta piu' adeguate alla natura degli atti stessi, e cioe' integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr. Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicita' del provvedimento, pena altrimenti l'impossibilita', per la Corte di Cassazione, di procedere all'esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicita' motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte della decisione impugnata, e di quella (integrativa) resa all'esito del primo grado di giudizio, a tutti i temi toccati dalla difesa del B.. Ma v'e' di piu', posto che non era sufficiente:
A) che gli atti del processo invocati dal ricorrente fossero semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilita';
B) ne' che tali atti fossero astrattamente idonei a fornire una ricostruzione piu' persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorreva invece che gli "atti del processo", presi in considerazione dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione, fossero "decisivi", ossia e giova qui ripetere quanto si e' avuto gia' modo di precisare innanzi autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticolasse l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determinasse al suo interno radicali incompatibilita' cosi' da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
In definitiva: la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimita', del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimita', per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all'intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilita' che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).
Tenendo conto di tutti i principi teste ricordati, deve dunque concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure appena esaminate non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all'art. 606 c.p.p., lett. e), pur asserendo di volere contestare l'omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realta', ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e cio' ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.
D) A questo punto si ritiene opportuno anticipare l'esame del quinto motivo di ricorso - con il quale e' stata lamentata la violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza - onde poter poi procedere, successivamente, alla trattazione congiunta degli ulteriori motivi di censura (quarto, sesto e settimo) essendo gli stessi intimamente connessi.
Va rilevata la manifesta infondatezza di detta doglianza, muovendo innanzi tutto dal carattere articolato della contestazione contenuta nel capo d'imputazione, ove, tra le altre condotte contestate, vi e' esattamente quella ritenuta, infine, decisiva dalla Corte di merito, consistente nell'avere, gli imputati, omesso di adottare adeguate cautele per interdire il passaggio attraverso il varco tra la pista n. (OMISSIS), predisponendo invece solo una segnalazione di pericolo inidonea a consentire alla vittima di percepire ed evitare il grave pericolo derivante dalla presenza, a circa 20 metri dall'inizio del citato varco di collegamento, del greto di un torrente, non visibile dalla pista con una scarpatella di circa 4 metri. Giova ricordare che, in materia, questa Corte ha avuto piu' volte modo di pronunciarsi (anche a Sezioni Unite: n. 16 del 22 ottobre 2006, ric. Di Francesco) con plurime decisioni con le quali e' stato costantemente ribadito l'indirizzo interpretativo che ben puo' essere sintetizzato nel principio di diritto cosi' espresso: "La mancata correlazione tra contestazione e fatto ritenuto in sentenza si verifica solo quando si manifesti radicale difformita' tra i due dati, in modo che possa derivarne assoluta incertezza sull'oggetto della imputazione, con conseguente pregiudizio dei diritti della difesa. Pertanto, l'indagine volta ad accertare la eventuale sussistenza di tale violazione non puo' esaurirsi in un'analisi comparativa, meramente letterale, tra imputazione e sentenza, dal momento che il contrasto non sarebbe ravvisabile se l'imputato, attraverso l'iter del processo, fosse comunque venuto in concreto a trovarsi in condizione di difendersi in ordine all'oggetto della contestazione" (cfr. Sez. 5, n. 7583 del 11/06/1999, Rv. 213645, imp. Grossi L ed altri).
Dunque, nel caso in esame, avuto riguardo alla formulazione della contestazione ed alle ragioni che i giudici del merito hanno posto a base della pronuncia di condanna, non puo' certo dirsi che il principio di correlazione tra reato contestato e fatto ritenuto in sentenza sia stato violato, giacche' non e' a discutersi di assoluta incompatibilita' tra i due dati, di modo che la pronuncia del giudice di merito debba ritenersi relativa ad un fatto del tutto nuovo rispetto alla ipotesi di accusa: non vi e' dubbio che, nel caso di specie, non ricorre tale violazione posto che tra i due fatti sussiste omogeneita' in un nesso di specificazione. Nella concreta fattispecie, l'imputazione e' stata, in sentenza, precisata o integrata, con le risultanze degli atti acquisiti al processo, alla cui assunzione ha partecipato la difesa dell'imputato, e tali integrazioni non hanno certo inciso sugli elementi costitutivi del reato formalmente contestato: l'imputato stesso, pertanto, e' venuto a trovarsi nella condizione di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (al riguardo, cfr., "ex plurimis", Sez. 4, Sentenza n. 16900 del 2004, Rv. 228042, Imp. Caffaz ed altri).
Conclusivamente, deve escludersi che, nel caso in esame, possa parlarsi di mutamento del fatto, inteso come una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassumeva l'ipotesi astratta prevista dalla legge, cosi' da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto della imputazione tale da determinare un reale pregiudizio dei diritti della difesa; dal tenore della formulazione della doglianza in esame, si rileva che il ricorrente ha inteso richiedere a questa Corte un'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto attraverso un mero confronto letterale tra contestazione e sentenza laddove il tema e', piuttosto, quello delle garanzie difensive: e, in materia di garanzie difensive, come detto, la violazione in argomento, nel caso di specie, non sussiste, giacche' l'imputato, attraverso l'iter del processo, e' comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all'oggetto della imputazione.
E) Quarto, sesto e settimo motivo di ricorso.
Va preliminarmente evidenziata la correttezza della doglianza oggetto del 6 motivo di ricorso, nella parte in cui il B. lamenta che la Corte di merito, al fine di individuare l'obbligo giuridico gravante sugli imputati, obbligo al quale andava ancorata la colpa omissiva, ha ritenuto che tale obbligo andasse individuato nella "generalissima norma dettata dal codice civile in tema di responsabilita' dall'art. 2050 relativo ad attivita' pericolose che impone al gestore l'onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno" (per come si legge testualmente a pagina 8 dell'impugnata sentenza).
La Corte territoriale, nell'enunciare le considerazioni in diritto formulate a sostegno delle sue conclusioni, afferma il principio per il quale "la colpa omissiva deve ancorarsi ad un obbligo giuridico che non e' necessariamente vincolato all'esistenza di una norma o regola dettata da fonte pubblicistica o privatistica ma puo' derivare anche dall'attivita' propria dell'obbligato in quanto generatrice di pericolo"; principio, di per se', certamente condivisibile e piu' volte affermato dalla giurisprudenza civile di questa Corte ("ex plurimis", Sez. 3 Civ., n. 5341 del 29/05/1998, Rv. 515946, Casalino contro Ferma: nella fattispecie e' stato ribadito che costituiscono attivita' pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c., non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperate comportino una rilevante possibilita' del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialita' offensiva): con l'ulteriore precisazione che lo stabilire se in concreto un'attivita' sia da considerare pericolosa costituisce compito del giudice di merito la cui valutazione e' insindacabile in sede di legittimita' se congruamente motivata.
Cio' premesso, rileva il Collegio che l'applicazione di detto (pur condivisibile) principio, risulta affermata dalla Corte distrettuale in modo apodittico, giacche' la medesima Corte, nell'ancorare all'art. 2050 c.c., la responsabilita' del B. e dell' A., non ha fornito alcuna indicazione concreta sul perche' dovesse considerarsi pericolosa l'attivita' di costoro, vale a dire, per il B., la gestione degli impianti di risalita del comprensorio sciistico (OMISSIS), e, per l' A., nella sua veste di capo servizio, la gestione della sicurezza degli impianti citati. Cosi' come posta, l'affermazione dei giudici del merito risulta, dunque, in contrasto con quanto precisato nella giurisprudenza civile di questa Corte, ed in particolare con il principio di diritto secondo cui non costituisce attivita' pericolosa, ai sensi dell'art. 2050 c.c., la gestione di un impianto sciistico; e cio' alla stregua di una doppia considerazione che risulta del tutto pertinente in relazione al caso in esame:
A) in primo luogo, l'accertamento della potenzialita' lesiva di una attivita' - che si traduce in un apprezzamento di fatto strettamente riservato al giudice del merito - va compiuto "ex ante" e cioe' senza riferimento al fatto dannoso concretamente verificatosi, ma con riguardo alle ordinarie modalita' di esercizio dell'attivita' considerata;
B) in secondo luogo, cio' che e' notoriamente pericolosa e' l'attivita' sciistica in se', ossia la pratica sportiva dello sci, che e', tuttavia, attivita' ben diversa e distinta da quella di gestione dei relativi impianti (al riguardo, cfr. Sez. 3 Civ., n. 6113 del 12/05/2000, Rv. 536456, Tomaselli contro Panarotta).
Detto questo, la correttezza del motivo di doglianza ora esaminato e la non condivisibilita' della considerazione della Corte circa l'individuazione della fonte della responsabilita' degli imputati nell'art. 2050 c.c., non scalfiscono, tuttavia, la sostanziale fondatezza della decisione impugnata, anche con riferimento al quarto e settimo motivo di ricorso, entrambi riconducibili al tema del nesso di causalita'. E' vero, infatti, che la Corte di merito non del tutto congruamente evoca anche la L. 24 dicembre 2003, n. 363, peraltro successiva al fatto, e stabilisce un ed. contemperamento tra la stessa legge e l'art. 2050 c.c., (cfr. fg. 9, punto 4, della sentenza impugnata); ma e' altresi' vero che la stessa Corte di merito, subito dopo (punto 5 di fol. 9), individua prescindendo del tutto dalle affermazioni in punto di principio appena ricordate, e come detto non condivisibili quali fossero i contenuti dell'obbligo gravante sugli imputati (segnalazione del pericolo mediante piu' fitta patinatura, o, meglio ancora, con una transennatura con apposite strisce zebrate) con conseguente identificazione, in capo a costoro, di una posizione di garanzia; obbligo la cui violazione ha comportato l'insorgenza di una responsabilita' in ordine alla quale la Corte di merito fornisce adeguata motivazione in termini che riconducono detta responsabilita', concretamente individuata, ad una responsabilita' contrattuale, diversa da quella extracontrattuale di cui all'art. 2050 c.c., in sintonia con l'indirizzo interpretativo delle Sezioni civili di questa Corte: basti ricordare la sentenza n. 2563 del 6 febbraio 2002, della Seconda Sez. Civile (RV. 594375, Carbognin contro Paganella) con la quale e' stato precisato che il contratto di "ski-pass" del tutto identico a quello di cui al caso di specie, contratto che consente allo sciatore l'accesso, dietro corrispettivo, ad un complesso sciistico al fine di utilizzarlo liberamente ed illimitatamente per il tempo convenzionalmente stabilito presenta i caratteri propri di un contratto atipico nella misura in cui il gestore dell'impianto assume anche, come di regola, il ruolo di gestore delle piste servite dall'impianto di risalita, con derivante obbligo a suo carico della manutenzione in sicurezza della pista medesima e la possibilita' che lo stesso gestore sia chiamato a rispondere dei danni prodotti ai contraenti determinati da una cattiva gestione (manutenzione) della pista, sulla scorta delle norme che governano la responsabilita' contrattuale per inadempimento; sempre che l'evento dannoso sia eziologicamente dipendente dalla suddetta violazione e non, invece, ascrivibile al caso fortuito art. 2051 c.c., riconducibile ad un fatto esterno al sinallagma contrattuale. Orbene, in maniera corretta, e sostanzialmente coerente rispetto all'orientamento interpretativo appena ricordato, la Corte distrettuale ha affermato che:
1) non sarebbe ravvisabile colpa a carico degli imputati per non avere costoro disposto che fosse adeguatamente segnalata la delimitazione della pista, atteso che la vittima consapevolmente usci' dalla pista stessa;
2) tuttavia a carico degli imputati era configurabile un obbligo di informare lo sciatore - con adeguate, incisive e specifiche segnalazioni - prima che lo sciatore stesso lasciasse la pista battuta, del particolare e grave rischio cui egli andava incontro abbandonando la pista medesima: proprio a questo obbligo sarebbero venuti meno gli imputati, con conseguente insorgenza di responsabilita' connessa alla posizione di garanzia.
Sul punto, la motivazione della Corte di merito risulta correttamente articolata laddove e' stato evidenziato che quel passaggio fuori pista era altamente pericoloso - ed ancor piu' in caso di scarso innevamento, come nella concreta fattispecie - in particolare per l'intersezione con un torrente non percepibile visivamente nel momento in cui si decideva di abbandonare la pista; dunque, un rischio concretante, secondo la definizione della giurisprudenza di questa Corte, "insidia o trabocchetto".
La pericolosita' di quel passaggio era ben nota agli imputati, per tutte le ragioni esposte nella decisione impugnata, in specie in conseguenza degli incidenti gia' verificatisi due giorni prima del tragico evento; d'altra parte gli stessi imputati avevano ritenuto essere proprio obbligo, in quanto afferente, comunque, alla gestione della pista, segnalare (con indicazioni peraltro inadeguate in relazione alla rilevante gravita ed elevata prevedibilita' del pericolo) la situazione di rischio che poteva determinarsi per i fruitori della pista stessa, attesa la particolare conformazione dei luoghi: conformazione che poteva lasciare intendere che quel fuori pista, pericoloso in se', costituisse, invece, una c.d. variante.
Orbene, la Corte di merito ha puntualmente evidenziato che le segnalazioni di pericolo adottate furono del tutto inidonee in relazione alla pericolosita' della situazione concreta: probabilmente adeguate rispetto ad un generico pericolo di fuori pista, ma del tutto incongrue a fronte della peculiarita' della situazione concreta, caratterizzata, per chi abbandonasse la pista, dalla presenza di un torrente, occultato alla vista.
Trattasi di una conclusione che si pone anche in sintonia con quanto affermato da questa stessa Sezione (Sez. 4, n. 27861 del 20/04/2004, Rv. 229073, Imputato: Marchelli) in relazione a fattispecie in cui sono ravvisabili affinita' con il caso in esame: con tale decisione e' stato ritenuto sussistente, in capo al gestore di impianti sciistici, l'obbligo di porre in essere ogni cautela per prevenire i pericoli anche esterni alla pista ai quali lo sciatore puo' andare incontro in caso di uscita dalla pista medesima: pur se, nel caso oggetto della decisione ora ricordata, la situazione dei luoghi poteva rendere probabile, per conformazione naturale del percorso, siffatta evenienza accidentale (nella fattispecie, la pista, battuta fino all'orlo, rendeva probabile, in mancanza di reti di protezione, lo scivolamento per il declivio al lato in caso di perdita di controllo da parte dello sciatore). Certo, il caso appena evocato e quello in esame non sono sovrapponibili, presentando, come detto, solo talune affinita'; ma con la citata sentenza Marchelli sono stati affermati principi di diritto che risultano ben applicabili anche in relazione al caso in esame:
1) quanto alla fonte dell'obbligo giuridico, nel caso in esame sussisteva l'obbligo di garanzia a carico degli imputati, nei termini correttamente argomentati dalla Corte di merito, atteso che l'obbligazione del gestore degli impianti di risalita ricomprende prestazioni accessorie, costituenti un pacchetto di servizi che trascendono il mero trasporto da valle a monte e riguardano l'intera attivita' dell'utente, quali la messa a disposizione di piste dotate delle necessarie misure di sicurezza;
2) quanto all'estensione di tale obbligo, deve ritenersi che, nella concreta fattispecie, correttamente la Corte di merito abbia argomentato nel senso per il quale il pericolo da prevenire, oggetto della posizione di garanzia, non fosse solo quello interno alla pista: ed invero l'obbligo di protezione che e' proiezione della posizione di garanzia riguardava anche i pericoli atipici, cioe' quelli che lo sciatore non si attende di trovare, diversi quindi da quelli connaturati a quel quid di pericolosita' insito nell'attivita'; certo, deve escludersi che un tale obbligo di protezione si possa dilatare sino a comprendervi i ed. pericoli esterni, ma, nondimeno, il gestore, nel caso in esame, doveva prevenire quei pericoli fisicamente esterni alle piste, ma cui si poteva andare incontro in caso di uscita di pista, giacche' la situazione naturale dei luoghi rendeva altamente probabile, per le ragioni dinanzi citate, che si fuoriuscisse dalla pista;
3) quanto alla colpa, alla stregua di tutto quanto fin qui detto, appare indubbia la sussistenza dei profili di colpa riconducibili alla condotta omissiva degli imputati;
4) quanto, ancora, al rapporto di causalita', correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che, nel caso di specie, il pericolo esterno alla pista, nel senso sopra precisato, non fosse estraneo alla posizione di garanzia, con la conseguente necessita' di congrue protezioni e segnalazioni al bordo della pista stessa: sul punto, basta annotare che la qualificazione dell'elemento soggettivo del reato come colpa ha la sua essenza negli elementi della prevedibilita' e prevenibilita', mentre gli stessi aspetti hanno rilievo quale patrimonio soggettivo del leso in ordine alla sussistenza dell'insidia o del trabocchetto, e non puo' dirsi illogica la motivazione che ha ravvisato, nel caso di specie, un'insidia nella non visibilita' dello strapiombo di 4 metri posto al limitare della pista.
Privo di fondamento e' l'assunto del ricorrente (posto specificamente a base del settimo motivo di ricorso) secondo cui il Giudice di secondo grado avrebbe effettuato in maniera superficiale e carente l'operazione del giudizio controfattuale, laddove la stessa Corte di merito ha osservato che, se la vittima "avesse ritrovato a sbarrargli il passo del varco un ostacolo fisico, egli avrebbe dovuto necessariamente arrestarsi". Certo, il comportamento del C., come ha osservato la Corte di merito, fu consapevole e volontario. Ma tanto non basta ad ipotizzare l'intervenuta interruzione del nesso di causalita', ne' possono condividersi le considerazioni in punto di dubbio, che il ricorrente vorrebbe insinuare, in ordine a quale sarebbe stato il comportamento della vittima ove avesse trovato uno sbarramento ad impedirgli il passo, vale a dire il varcare ugualmente il bordo della pista. Ed invero il punto dirimente del tema non e' questo, e non ha rilievo alcuno il richiamo, quale espresso dal ricorrente, ad un asserito "ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del gestore". In realta', proprio la considerazione di tale condotta omissiva vale ad escludere la fondatezza della prospettazione oggetto del motivo di ricorso in esame, ove si abbia mente al consolidato orientamento di questa Corte in tema di causalita' omissiva, secondo cui l'omissione ha valore assorbente rispetto al comportamento della vittima, la cui condotta puo', infatti, assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano state osservate le prescrizioni di loro competenza. In altri termini, la responsabilita' del destinatario della posizione di garanzia non puo' essere esclusa, per causa sopravvenuta, una volta riscontrato l'inadempimento dell'obbligo, allorche' il comportamento della vittima, che pure abbia dato occasione all'evento, sia da ricondurre, comunque, alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio di siffatto comportamento.
Il ricorso del B. deve dunque essere rigettato.
Ricorso A.:
A) Tutte le considerazioni svolte nell'esaminare il ricorso del B. valgono anche per i motivi addotti, peraltro anche con profili di genericita', dall' A. relativamente all'affermazione di colpevolezza: dunque, onde evitare superflue ripetizioni, devono intendersi qui richiamate, con riferimento alle doglianze dell' A. quali sopra ricordate (nella parte relativa allo "svolgimento del processo), le argomentazioni svolte nell'esaminare la posizione del B..
B) Ne' puo' trovare accoglimento la richiesta con la quale, nelle conclusioni del suo ricorso, l' A. domanda annullarsi la decisione impugnata anche in punto di "sospensione dell'esecuzione della condanna civile nei propri confronti" ai sensi dell'art. 612 c.p.p.." Invero, il ricorrente sottopone a questa Corte la questione della sospensione dell'esecuzione della condanna civile ai sensi dell'art. 612 c.p.p., semplicemente assumendo che danno grave ed irreparabile discenderebbe dall'essere egli un operaio addetto agli impianti, e come tale stipendiato.
Quanto alla ritualita' della richiesta formulata dall' A., si rinviene in giurisprudenza un contrasto interpretativo: ed invero, in alcuni casi e' stato affermato che in tema di sospensione dell'esecuzione della condanna civile da parte della cassazione, per la relativa pronunzia da adottarsi con ordinanza in camera di consiglio, si esige una richiesta di carattere interlocutorio, da introdursi "medio tempore", in attesa della decisione del ricorso (Sez. 5, Sentenza n. 1471 del 12/02/1992, Rv. 189083, imp. Benevento); altre volte e' stato detto che in tema di sospensione dell'esecuzione della condanna civile, da parte della cassazione, la richiesta puo' essere contenuta nel ricorso stesso, che e' il primo atto di contestazione delle statuizioni, anche civili, assunte in appello, non essendo necessaria un'apposita ed autonoma istanza interlocutoria di sospensione (Sez. 4, Sentenza n. 42030 del 06/11/2006, Rv. 235396, imp. Landucci).
Ma, anche ad accedere al secondo dei due orientamenti appena ricordati, deve comunque trovare applicazione il consolidato principio secondo cui il danno grave ed irreparabile che puo' derivare dalla esecuzione della condanna civile, in considerazione del quale la Cassazione puo' sospendere tale esecuzione, deve essere inteso nel senso di pregiudizio eccessivo che il debitore subisce, ossia tale da risolversi nella distruzione o disintegrazione del bene controverso (cosi', "ex plurimis", Sez. 1, Sentenza n. 4380 del 31/08/1995, Rv. 203183, imp. Mascaro).
Orbene, alla stregua di tale principio ed a prescindere dalla possibilita' o meno di riferire il concetto di irreparabilita' del danno al pagamento di una somma di denaro, questione oggetto di decisioni contrastanti nella giurisprudenza di questa Corte (in senso affermativo Sez. 6, n. 2992 del 28/11/1996, Rv. 206370, imp. Surace A; in senso negativo Sez. 1A, 26/9/1995 n. 4380, Mascara, RV 20318
3) - risulta assorbente e tranciante la genericita' della doglianza come formulata dall' A. il quale, infatti, non ha fornito alcuna concreta indicazione in ordine agli elementi e termini necessari per la valutazione della gravita del danno, al di la' della generica allegazione della qualita' di stipendiato; nulla, in particolare, e' stato allegato sulla consistenza del patrimonio dell'obbligato. Di tal che, anche da tale punto di vista il ricorso dell' A. non puo' trovare accoglimento.
Al rigetto dei ricorsi segue, per legge, la condanna dei ricorrenti, in solido, al pagamento delle spese processuali.
I ricorrenti stessi vanno altresi' condannati, in solido, al pagamento delle spese sostenute per il presente grado di giudizio dalla parte civile P.L. (per l'altra parte civile C.C., ritualmente presente nei giudizi di merito, nessuno e' comparso all'odierna udienza), che si liquidano in complessivi Euro 2.000,00, (duemila), oltre spese forfettarie nella misura del 12,50%, I.V.A. e C.P.A..
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti, in solido, al Pagamento delle spese processuali. Li condanna inoltre, in solido, alla rifusione in favore della parte civile P.L. delle spese che liquida in complessivi Euro 2.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del 12,50%, I.V.A. e C.P.A.
Cosi' deciso in Roma, il 11 luglio 2007.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2007
 
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