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La causa di giustificazione di cui all’ art. 50 c.p. prevede che non sia punibile chi leda o ponga in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne.
Un campo di applicazione della scriminante in parola è costituito dalle discipline sportive ed in particolar modo dai cosiddetti sports pericolosi.
Si pensi alle percosse o lesioni che possono essere inferte durante un incontro di pugilato, di football americano, oltre che nella pratica di sports meno cruenti quali il calcio, il basket e così via.
L’operatività del consenso dell’avente diritto risiede nel fatto che siano coperte dall’esimente, giustificate, tutte quelle azioni oggettivamente integranti gli estremi di talune fattispecie delittuose, che però vengano poste in essere durante lo svolgimento della competizione sportiva, e nel rispetto delle sue regole.
Non potrà certo essere punito per percosse l’autore di un fallo di gioco, né tantomeno per lesioni laddove il giocatore avversario atterrato abbia riportato delle ferite.
Ugualmente, e a maggior ragione, ciò varrebbe nel caso di sports più duri quali il pugilato.
Di certo non verrebbe punito per omicidio il pugile che avesse malauguratamente provocato la morte dell’avversario, attraverso un pugno da k.o.
Le cose sarebbero però diverse nel caso in cui l’azione delittuosa venisse commessa trascendendo i confini dello sportivamente lecito, ponendosi in palese distonia con lo spirito del gioco: si pensi all’ipotesi (sempre di stretta attualità, come si vide alcuni anni or sono per il caso Ferrigno nella serie B di calcio) in cui un giocatore, a gioco fermo, o a partita conclusa, onde farsi giustizia sommaria per alcuni falli di gioco subiti, decidesse di picchiare un avversario infliggendogli percosse e procurandogli gravi lesioni.
Nel caso di specie non vi è dubbio alcuno sull’impossibilità di scriminare il reato ai sensi dell’art. 50 c.p., non potendosi certo ritenere che il soggetto passivo dell’azione delittuosa abbia acconsentito anche a comportamenti ulteriori e diversi da quelli contemplati dalle regole del gioco.
E’ in ogni caso particolarmente discussa la possibilità che la causa di giustificazione di cui all’art. 50, possa operare anche con riferimento ai reati colposi.
Prima facie, infatti, potrebbe obiettarsi, in senso contrario, che l’elemento psicologico della colpa postula necessariamente atti non voluti; proprio perché non voluti tali atti non potrebbero essere oggetto di consenso; in tale genus la scriminante in oggetto non si attaglierebbe alla struttura degli stessi.
Si è però fatto notare che pure gli atti non voluti possano, cio nondimeno, essere antiveduti e previsti; si pensi ad esempio alle ipotesi di colpa cosciente, categoria peraltro anch’essa non pacifica, almeno nella distinzione, a volte labile, col dolo eventuale.
Le conseguenze dannose di un certo agire, dunque, se contemplate, previste come possibili, ben potrebbero costituire oggetto di consenso: Fiore a riguardo traccia l’ipotesi del soggetto che nel prestare il proprio consenso ad una serie di esami clinici o sperimentazioni sul suo corpo, preveda pure, più o meno esplicitamente, la possibilità che il mancato ossequio alle norme di diligenza regolanti la professione medica, possa determinare conseguenze dannose ulteriori rispetto a quelle preventivate.
In questo caso, lo spettro di operatività del consenso si allargherebbe sino a ricomprendere anche i comportamenti colposamente posti in essere.
E, d’altronde, proprio la tradizionale casistica dell’infortunistica sportiva dimostra, meglio di qualsiasi ipotesi scolastica, la ragionevolezza dell’assunto.
Quanto alle possibili conseguenze giustiziali di simili comportamenti, va rilevata la possibilità che la giustizia sportiva e quella ordinaria seguano due strade differenti.
Sul punto peraltro non possono richiamarsi, neppure per analogia, le norme che sovrintendono e regolano i rapporti tra procedimento disciplinare e giudizio penale in tema di impossibilità di iniziare l’uno nel caso in cui l’altro abbia già avuto inizio, di necessità di sospendere il primo laddove sia partito il secondo, nonché circa la possibilità che la sentenza penale possa, sia pure entro certi limiti e con riferimento al solo accertamento dei fatti, vincolare, fare stato in sede disciplinare.
La giustizia sportiva dunque segue normalmente il suo corso, peraltro sfociando in provvedimenti quali il deferimento del giocatore , la sua squalifica per uno o più turni di gioco, o addirittura anche, nei casi più gravi, per mesi ed anni.
Può sottolinearsi come la scriminante dell’art.50 c.p. affondi le proprie radici nel consenso della persona umana come fattore imprescindibile per la possibilità di disporre della propria sfera giuridica, e questo in tutti i settori dell’ordinamento giuridico.
Si pensi, con riferimento all’autonomia privata nel diritto civile, al consenso come fulcro della disciplina sulla conclusione del contratto (art. 1326 c.c.); anche laddove il legislatore ha dimostrato di voler “aprire” alla possibilità di incidere unilateralmente sulla sfera giuridica altrui, l’ermeneutica giurisprudenziale si è sempre mostrata cauta nel prospettare e nel definire l’ambito di relativa ingeribilità negli altrui interessi; laddove la relatività risiederebbe nella possibilità di produrre unilateralmente effetti giuridici nella sfera giuridica altrui, purchè tout court favorevoli, o almeno prevalentemente tali: si pensi alle tematiche del contratto con obbligazioni del solo proponente o al contratto a favore di terzi. Tali casi peraltro ci suggeriscono la possibilità che il consenso possa anche consistere in un comportamento concludente, tacito, di acquiescenza; sul punto può osservarsi come anche in altri settori giuridici, quello del silenzio con valore legale tipico, quello dell’acquiescenza, quello della concludenza, rappresentino problemi di non poco momento: si pensi ad esempio alla patologia del provvedimento amministrativo ed in particolare alla convalescenza dello stesso con specifico riguardo alla acquiescenza.
In ogni caso l’esigenza e la necessità che per “intromettersi” nell’altrui sfera giuridica, occorra il consenso dell’altro, rappresenta forse la più nobile delle estrinsecazioni del cosiddetto principio personalistico; principio questo, usualmente ricondotto alla circoscritta categoria dei cosiddetti principi supremi dell’ordinamento giuridico, unitamente a quello repubblicano (art. 1 Cost.), di eguaglianza (art. 3 Cost.), lavoristico (art. 4 Cost.); principi che rappresenterebbero l’essenza stessa del nostro ordinamento, baluardo inespugnabile che, come ha osservato un autore, si impongono extra, infra, ed intra: extra nel senso di non poter essere aggirati da norme di rango comunitario, infra nel senso invece di richiedere alle norme di rango inferiore un imprescindibile ossequio, ed infine intra nel senso di non poter venir meno, senza un’automatica rinunzia al sistema stesso, nemmeno attraverso il procedimento di revisione costituzionale ex art. 138.
Il principio personalistico prende le mosse dalla tutela della personalità e dignità umana di cui si fa promotrice l’art. 2 cost.
Su di esso, dunque, è imperniato lo strumento del consenso, quello stesso consenso evocato dall’art. 50 c.p.
Alla base del consenso dell’avente diritto c’è la considerazione della libera disponibilità della propria sfera giuridica, sia pure con i limiti che esamineremo in prosieguo di trattazione.
Perché il consenso di chi subisce l’azione delittuosa possa integrare gli estremi della scriminante in questione, occorre che si tratti di un consenso validamente e spontaneamente prestato da una persona capace di intendere e di volere.
Nessun rilievo rivestirebbe il consenso prestato da un soggetto incapace, così come nessuna decisività assumerebbe un consenso estorto con la violenza o con l’inganno.
Quanto alla valida manifestazione del consenso, occorre ricordare che tale estrinsecazione può avvenire essenzialmente in due modi: espressamente o tacitamente. Ed è su quest’ultima modalità di esternazione che si appuntano da sempre, dibattiti, se non addirittura scontri, tra diversi orientamenti ermeneutici.
Ci si chiede infatti se per consenso tacito debba intendersi un comportamento concludente dal quale si evinca la volontà del soggetto, intesa come volontà consapevole ed effettivamente maturata e manifestatasi, sia pure tacitamente, in ordine ad un dato oggetto; o se invece possa riguardarsi come sufficiente la presunzione circa il fatto che un soggetto, se avesse conosciuto i propositi dell’agente, avrebbe prestato il proprio consenso. Si parla al riguardo del cosiddetto consenso presunto.
La polemica dottrinale sul punto, permette peraltro di ribadire, una volta di più, l’opportunità che la validità di qualsiasi concetto o teoria, vada testata sul campo dell’applicazione giurisprudenziale: con riferimento alla possibilità che il consenso richiesto dall’art. 50 c.p. possa anche essere un consenso presunto, può infatti ritenersi che solo attraverso il riferimento al piano della pratica e l’esame del caso concreto possa di volta darsi una risposta al quesito: ad esempio non v’è dubbio alcuno circa la ricorrenza della scriminante in questione nel caso della moglie che, in virtù di una consuetudine e di una prassi in tal senso, regali al vagabondo gli abiti dismessi del marito. Ma qualche perplessità in più, genererebbe il caso, per rimanere nell’area di reati quasi “bagattellari”, della moglie che al vagabondo donasse una giacca che il marito avesse acquistato di recente, ma che non fosse di suo gradimento e della quale avesse detto di non volerne più sapere.
In ogni caso il consenso dell’avente diritto non può “giustificare”, scriminare qualsivoglia comportamento o azione delittuosa.
L’ordinamento giuridico postula, infatti, una serie di valori, principi, gerarchicamente prevalenti su qualsiasi altro interesse di segno diverso. Si pensi esemplificativamente alla tutela della persona umana, estrinsecatesi, tra l’altro, nel divieto civilistico degli atti di disposizione del proprio corpo ogni qualvolta cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
Sotto il profilo civilistico dunque sarà nullo per violazione di norma imperativa il contratto nel quale un soggetto si impegna a farsi tagliare un dito per esperimenti scientifici, e del pari tale fattispecie integrerebbe gli estremi del reato di lesione, senza giustificazione alcuna. Il bene della salute tutelato anche costituzionalmente attraverso l’art. 32 della Carta Fondamentale, non tollererebbe compressioni così marcate.
A maggior ragione tale tutela si impone laddove la prestazione del consenso nella disposizione del proprio corpo, trasmodi nella disposizione della propria vita: si pensi all’omicidio del consenziente, punito dall’art. 579 c.p., norma peraltro di stretta attualità nell’ambito del mai sopito dibattito sulla eutanasia.
Diversamente, invece, sarebbe a dirsi nell’ipotesi, questa meno cruenta, in cui un soggetto acconsentisse a che gli venisse inoculato il virus del raffreddore o dell’influenza, onde permetterne lo studio a dei ricercatori.
Diversamente è a dirsi in ogni caso, per il risarcimento civilistico del danno, potendosi addivenire alla liquidazione dello stesso anche qualora non risultino integrati gli estremi di un illecito penale.
Il principio personalistico guarda alla persona umana in tutti i suoi aspetti e sfaccettature: tutela dell’immagine, dell’identità personale, della riservatezza, dell’onore, della reputazione, del nome, della libertà personale, oltre che ovviamente della salute.
Sotto il profilo penale dobbiamo ricordare che il libro II del codice contiene un titolo relativo ai reati contro la persona.
E il capo I di questo titolo è rubricato: “dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale”, così evidenziando, attraverso una approfondita previsione di fattispecie penali, che il nostro legislatore ha inteso sommamente tutelare il bene giuridico dell’integrità fisica da qualsivoglia tipo di attacco mosso allo stesso.
Appare d’altronde sintomatico che la stessa scriminante di cui all’art. 50 c.p. relativa al consenso dell’avente diritto, non operi laddove abbia ad oggetto un comportamento lesivo in maniera definitiva e permanente, dell’integrità fisica, come quello che causa la morte del consenziente, azione punita ex art. 579 c.p.
Il rigore penalistico in tema di tutela della persona si attenua soltanto con riferimento agli atti di autolesionismo: si pensi alla non punibilità del tentativo di suicidio. E’ un settore in cui la tutela della salute arretra ed il legislatore, così come accade per le scriminanti usualmente definite limiti istituzionali della punibilità ( ad es. l’art. 649 c.p.) effettua una valutazione di opportunità, scegliendo cioè di non intervenire nella sfera privata . L’opportunità risiede nel fatto che la previsione di una fattispecie incriminante il suicidio, anziché dissuadere, rafforzerebbe il proposito di chi, nell’atto di togliersi la vita, paradossalmente appronterebbe con particolare attenzione le modalità causative della propria morte al fine di scongiurare, nell’ipotesi di esito negativo, la beffa di un’incriminazione penale.
Sul versante civilistico si sottolinea che, in assenza di una significativa evoluzione normativa, la tutela della salute si è però arricchita di una serie di approfondimenti giurisprudenziali che ne hanno determinato la progressiva estensione del campo di applicazione. Anche in quest’ambito un tentativo di ricognizione esaustiva non può non prendere le mosse dall’art. 32 cost.
Tale norma è stata infatti richiamata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per fondare normativamente la risarcibilità del danno ambientale anche attraverso l’esperimento dell’azione ex art. 844 c.c.: strumento, quest’ultimo, nato in un’ottica prettamente privatistica ed interindividuale, ciò nondimeno si è preteso di azionare tale strumento anche al fine di combattere la speculazione ambientale.
Va poi considerato l’art. 5 c.c. secondo cui gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume.
La norma de qua rappresenta il riflesso speculare, sul piano civilistico di quanto esaminato in precedenza sotto il profilo penale relativamente alla prestazione del consenso alla consumazione di reati lesivi dell’integrità fisica del consenziente.
Si osserva quindi che laddove le parti in questione stipulassero un contratto di tal genere, questo sarebbe certamente nullo.
Ma le norme fondamentali in tema di tutela della persona fisica, sono quelle dettate dagli artt. 2043 e seguenti del Codice Civile. Le norme indicate hanno sollevato e tuttora sollevano diversi dubbi e problemi sull’esatta definizione del loro spettro di operatività.
In modo particolare alcune di esse nello stabilire la responsabilità del danneggiante per il danno causato, sembrano prescindere dalla necessità di provare effettivamente la colpevolezza dell’agente: parte della dottrina ravvisa in esse delle ipotesi di vera e propria colpa presunta, se non addirittura di responsabilità oggettiva.
D’altronde, se sul versante penale la responsabilità oggettiva incontra nell’art. 27 cost. limiti alla sua configurabilità, come rilevato dalla famosa sentenza n. 364/88 della Cassazione, diversamente è a dirsi in campo civilistico, dove a rigore non si rintraccerebbero preclusioni così rigorose: d’altronde, si è osservato, nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad un mutamento della concezione della responsabilità da atto illecito, progressivamente passato da una visione tout-court retribuzionistica ad un’ottica prettamente riparatoria.
Ed è in quest’ottica che, pur di assicurare il risarcimento del danno al danneggiato si riterrebbe non decisiva la mancata prova della colpevolezza del danneggiante.
D’altronde, in un’epoca in cui le cosiddette professioni pericolose finiscono con l’essere assicurate, il richiamo alla funzione specialpreventiva della colpevolezza, richiamante cioè l’attenzione sul decorso causale delle proprie azioni escludendo la responsabilità per comportamenti “non rimproverabili”, ha oramai perso gran parte del suo originario rilievo.
Si è sempre molto discusso in passato sulla entità del risarcimento dovuto per il caso di atti lesivi dell’integrità psicofisica della persona.
Inizialmente la giurisprudenza scelse di risolvere la questione attraverso un’interpretazione per così dire “conservativa” degli artt. 1223, 1226 e 1227 così come richiamati dall’art. 2056 relativo alla valutazione del danno nella responsabilità da atto illecito: occorreva cioè valutare il danno emergente ed il lucro cessante diretta conseguenza dell’atto illecito.
Ma a tale stregua, apparvero subito evidenti le storture cui si andava incontro: a parità di danno due soggetti dalla diversa capacità lavorativa e reddituale avrebbero ottenuto risarcimenti dall’entità molto diversa.
Ancorando il risarcimento del danno alla capacità lavorativa del soggetto, si finiva per denegare il riconoscimento di un giusto risarcimento a quanti avessero una ridotta o nessuna capacità reddituale: si pensi ad un incapace, ad un recluso, ad un pensionato, ad un infante e così via.
Anzi, attraverso questo orientamento, in alcuni casi si rischiava addirittura il paradosso: valga per tutti il caso della responsabilità per aver cagionato la morte di un soggetto affetto da sindrome di down e in quanto tale incapace di produrre reddito. Nel caso di specie, a rigore, in base all’orientamento citato il danneggiante non avrebbe dovuto corrispondere alcunché, visto e considerato che addirittura la morte del soggetto sollevava la famiglia dalle spese occorrenti per il mantenimento e per le cure necessarie.
Fu così che allora si cercarono nuove strade che permettessero di eliminare tali incongruenze: quindi per giustificare anche in assenza di capacità lavorativa, una qualche forma di risarcimento, vennero progressivamente create nuove tipologie di danno, terminologicamente qualificate nei modi più svariati: danno biologico, danno estetico, danno alla vita di relazione e così via.
Fu una sentenza del Tribunale di Genova ad aprire uno squarcio nel sistema, sottolineando per la prima volta la necessità di articolare il risarcimento dovuto per i danni da atto illecito, in due componenti: e se la prima di tali due componenti era legata al reddito prodotto dal danneggiato, la seconda ne prescindeva invece completamente, essendo legata al pregiudizio psicofisico subito.
Attualmente il risarcimento del danno biologico si precisa e si specifica nelle voci del danno da postumi invalidanti permanenti, danno da invalidità temporanea totale, danno da invalidità temporanea parziale, danno morale da danno biologico cosiddetto danno morale “da temporanea”.
I maggiori tribunali italiani hanno all’uopo stilato delle tabelle nelle quali ognuna delle voci summenzionate è stata stabilita la soglia minima e quella massima del risarcimento ottenibile per ogni singolo punto di invalidità.
Il tribunale di Napoli ad esempio per ogni punto di invalidità relativa alla percentuale di danno biologico diagnosticato, prevede che il risarcimento vada calcolato attraverso il riferimento a taluni parametri, non ultimo il coefficiente di demoltiplicazione relativo all’età del danneggiato.
La risarcibilità del danno morale pone poi una serie di questioni: prima di affrontarle, occorre preliminarmente precisare che altra cosa dal danno morale è il danno psichico: il danno all’integrità psichica rappresenta infatti una delle possibili estrinsecazioni del danno biologico e come tale ha natura patrimoniale.
Non patrimoniale è invece il danno di cui all’art. 2059 c.c.
Tale norma circoscrive la risarcibilità dei danni non patrimoniali ai soli casi espressamente previsti dalla legge. Trattasi di quei casi in cui il danno morale accede a fattispecie penalisticamente rilevanti. Occorre peraltro che l’esistenza di una fattispecie integrante gli estremi di un reato e la correlativa responsabilità siano state dichiarate con sentenza penale passata in giudicato, oppure accertate nel corso del giudizio civile. Sul punto va però menzionato il recentissimo revirementet del giudice di nomofilachia, il quale ha ritenuto di poter ascrivere all’ ampio genus dei danni non patrimoniali tutti quei danni derivanti da lesioni a diritti costituzionalmente sanciti, ed a prescindere dalla stretta rilevanza penale degli stessi.
Tanto anche alla luce dei recenti arresti della Cassazione in tema di contratti con effetti protettivi del terzo relativamente ai danni cagionati nello svolgimento della propria attività professionale, dove sono gli stessi confini tradizionalmente intesi tra responsablità contrattuale ed extracontrattuale, ad essere rivisitati determinando una fluida mobilità delle barriere tra la fattispecie dell’art.1218 c.c. e quella dell’art.2043 citato.
- avv. Giuseppe De Luca - Segretario Generale di classe III - dicembre 2007
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