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Illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE "
- Ugo DE SIERVO "
- Paolo MADDALENA "
- Alfio FINOCCHIARO "
- Alfonso QUARANTA "
- Franco GALLO "
- Luigi MAZZELLA "
- Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE "
- Maria Rita SAULLE "
- Giuseppe TESAURO "
- Paolo Maria NAPOLITANO "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003 n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 9 gennaio 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di M.U.G. ed altri, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del presidente del Consiglio dei ministri;
uditonella camera di consiglio del 24 ottobre 2007 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto in fatto
1. – Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui prevede che – ove la Camera competente neghi l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» o «casuali» di conversazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento – la relativa documentazione debba essere immediatamente distrutta, e che i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6, debbano essere dichiarati inutilizzabili in ogni stato e grado del procedimento; anziché limitarsi a prevedere l’inutilizzabilità di detta documentazione nei confronti del solo parlamentare indagato.
Il rimettente riferisce che, nel procedimento a quo, il pubblico ministero aveva fatto istanza, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003, affinché fosse richiesta alla Camera dei deputati l’autorizzazione all’utilizzazione di alcune conversazioni telefoniche, intercettate su utenze in uso a terzi, alle quali aveva preso parte un membro di detta Camera, iscritto nel registro delle notizie di reato per fatti di turbativa d’asta aggravata in concorso.
I difensori del parlamentare si erano opposti alla richiesta, osservando che il citato art. 6 concerneva – per espressa previsione del comma 1 – le intercettazioni di conversazioni di membri del Parlamento eseguite nel corso di procedimenti «riguardanti terzi»: ipotesi, questa, che non ricorreva nella specie, essendo il parlamentare indagato nel medesimo procedimento. I medesimi difensori avevano quindi prospettato al giudice a quo la seguente alternativa: o ritenere applicabile l’art. 4 della legge n. 140 del 2003 (che richiede l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza al fine di eseguire intercettazioni nei confronti di un membro del Parlamento), dichiarando di conseguenza inutilizzabili le conversazioni telefoniche; ovvero sollevare questione di legittimità costituzionale dei citati artt. 4 e 6, nella parte in cui – non disciplinando espressamente il caso in esame – sembrerebbero consentire all’autorità inquirente di intercettare «indirettamente» (ossia tramite utenze in uso a terzi) il parlamentare indagato, rimettendo successivamente all’autorità giudiziaria la scelta se utilizzare le conversazioni intercettate senza alcuna autorizzazione, ovvero se chiedere una autorizzazione «postuma», in applicazione analogica dell’art. 6, comma 2. Ad avviso della difesa, anche questa seconda opzione interpretativa sarebbe stata irragionevole e non rispettosa della garanzia prevista dell’art. 68, terzo comma, Cost., il quale fa riferimento alle intercettazioni, «in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni»: e, dunque – secondo l’assunto difensivo – anche alle intercettazioni «indirette» del parlamentare, eseguite nell’ambito del procedimento in cui risulta indagato.
Il giudice a quo dichiarava manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, ritenendo che la norma applicabile nel caso di specie fosse proprio l’art. 6 della legge n. 140 del 2003, e non l’art. 4, che disciplina le intercettazioni su utenze in uso al parlamentare. Di conseguenza, richiedeva l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni alla Camera dei deputati, la quale, con delibera assunta nella seduta del 20 dicembre 2005, la negava.
Ciò premesso, il rimettente osserva come – a fronte del diniego della Camera – l’art. 6, comma 5, della legge n. 140 del 2003 imporrebbe l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche delle conversazioni cui ha preso parte il parlamentare. Prima di dar corso alla distruzione, il giudice a quo ritiene, tuttavia, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2, 5 e 6 del citato art. 6.
Al riguardo, il rimettente muove dall’assunto che la disciplina complessiva, risultante dalla norma impugnata, si sarebbe spinta «ben oltre il raggio di operatività delle guarentigie parlamentari, previste dall’art. 68 Cost.». Tali guarentigie atterrebbero, infatti, unicamente alle intercettazioni «dirette» delle conversazioni dei parlamentari: non potendosi far leva, in contrario, sulla locuzione «in qualsiasi forma», impiegata nel terzo comma dello stesso art. 68 Cost., la quale si riferirebbe non già alle intercettazioni «indirette» od «occasionali», ma soltanto alle differenti modalità con le quali la captazione delle conversazioni può avvenire ed ai diversi mezzi di comunicazione intercettati. Occorrerebbe, di conseguenza, stabilire se l’estensione della guarentigia, ad opera del legislatore ordinario, anche alle conversazioni e comunicazioni contemplate dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 esponga la disciplina adottata a censure di illegittimità costituzionale.
A tale interrogativo il rimettente risponde in senso affermativo, assumendo che le previsioni normative censurate risulterebbero lesive, anzitutto, del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), sotto lo specifico profilo della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione. In rapporto a tale principio – il quale si colloca alle origini della formazione dello Stato di diritto – il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento potrebbe, difatti, venire in rilievo solo come eccezione e valere unicamente per i casi espressamente considerati, in quanto ritenuti dal Costituente idonei ad interferire sulla libera esplicazione della funzione parlamentare.
L’esigenza di preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze o condizionamenti, tuttavia, non giustificherebbe affatto la distruzione della documentazione delle intercettazioni «indirette» od «occasionali», prevista dal comma 5 dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003. Detta distruzione – come pure l’inutilizzabilità dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni acquisiti in violazione del disposto dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003, prevista dal comma 6 del medesimo articolo – non avrebbe, infatti, nulla «a che vedere» con la libera esplicazione delle funzioni parlamentari: discutendosi, da un lato, di intercettazioni eseguite su utenze o presso luoghi non in uso a membri del Parlamento; e, dall’altro lato, di conversazioni la cui utilizzabilità processuale nei confronti del parlamentare risulta comunque preclusa dalla mancata autorizzazione della Camera di appartenenza. La prevista distruzione della documentazione si spiegherebbe, pertanto, unicamente con l’intento di tutelare «oltre modo» la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare, con ingiustificata subordinazione a questa del principio di eguaglianza.
La disciplina censurata determinerebbe, in tale ottica, una irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento (sia esso, o no, indagato per lo stesso reato). Infatti – in caso di diniego dell’autorizzazione, da parte della Camera di appartenenza – le conversazioni in questione, benché legittimamente acquisite dall’autorità giudiziaria, dovrebbero essere immediatamente distrutte, anziché rimanere inutilizzabili soltanto nei confronti del parlamentare indagato; con la conseguenza che la tutela delle prerogative parlamentari finirebbe per tornare a vantaggio anche degli indagati non parlamentari.
In secondo luogo, ad avviso del rimettente, risulterebbe leso l’art. 24 Cost., giacché la distruzione immediata della documentazione – con conseguente perdita irrimediabile delle conversazioni intercettate – potrebbe penalizzare o compromettere il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (prima fra tutte, la persona offesa).
Da ultimo, la disciplina denunciata si rivelerebbe incompatibile con l’art. 112 Cost., giacché l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale resterebbe inevitabilmente compresso o escluso dalla impossibilità di utilizzare le conversazioni in parola, allorché queste costituiscano elemento di prova rilevante nei confronti di indagati che non beneficiano delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost.
2. – È intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
Ad avviso della difesa erariale, l’avvenuta richiesta di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni ed il diniego della stessa ad opera della Camera dei deputati non consentirebbero di denunciare la pretesa violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale tramite questione incidentale di legittimità costituzionale: dovendo detta denuncia essere proposta sollevando conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Solo con tale strumento, infatti, sarebbe possibile sindacare il merito della determinazione parlamentare: mentre un’ipotetica censura riguardante l’obbligo di richiedere l’autorizzazione avrebbe dovuto essere formulata prima di ottemperare a tale obbligo, diversamente da quanto è accaduto nel giudizio a quo.
Parimenti inammissibili risulterebbero le residue censure, riferite agli artt. 3 e 24 Cost., in quanto – una volta determinatasi l’inutilizzabilità delle intercettazioni – l’obbligo di distruzione resterebbe irrilevante nel giudizio principale.
Considerato in diritto
1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140, nella parte in cui stabilisce che – nel caso di diniego dell’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» o «casuali» di conversazioni, cui ha preso parte un membro del Parlamento – la relativa documentazione debba essere immediatamente distrutta; e che i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6, debbano essere dichiarati inutilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, anziché limitarsi a prevedere l’inutilizzabilità della predetta documentazione nei confronti del solo parlamentare indagato.
Ad avviso del rimettente, la disciplina delle intercettazioni «indirette» o «casuali» dei parlamentari, delineata dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, esorbiterebbe dai limiti della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., la quale atterrebbe alle sole intercettazioni «dirette». Nella sua concreta configurazione, detta disciplina verrebbe quindi a ledere l’art. 3 Cost., con riguardo al basilare principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione. L’esigenza di preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze o condizionamenti – che ispira il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento – non giustificherebbe, difatti, le previsioni oggetto di censura: e ciò perché si discute di intercettazioni che non incidono sulla predetta funzione, in quanto sono state eseguite su utenze o presso luoghi non in uso al parlamentare e la loro utilizzabilità processuale nei confronti di quest’ultimo resta comunque preclusa dalla mancata autorizzazione della Camera di appartenenza.
Le disposizioni denunciate tutelerebbero, piuttosto, il diverso interesse alla riservatezza delle comunicazioni del parlamentare, subordinando ingiustificatamente ad esso il principio di eguaglianza. In conseguenza delle previsioni normative in questione si determinerebbe, infatti, per un verso, una irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia o meno un membro del Parlamento; e, per un altro verso, l’estensione di fatto delle prerogative parlamentari a soggetti privi di tale qualifica.
Risulterebbe leso, altresì, l’art. 24 Cost., giacché la distruzione immediata della documentazione – con la perdita definitiva delle conversazioni intercettate – rischierebbe di penalizzare il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (tra cui, anzitutto, la persona offesa); nonché l’art. 112 Cost., in quanto l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni – quando costituiscano elemento di prova nei confronti di indagati che non beneficiano delle guarentigie di cui all’art. 68 Cost. – comprimerebbe l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale.
2. – In via preliminare, l’interpretazione della norma censurata, sulla cui base il rimettente afferma la rilevanza della questione nel procedimento a quo, non può ritenersi implausibile.
Il problema ermeneutico trae origine dall’apparente discrasia tra i campi di applicazione degli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003. La prima delle due disposizioni regola l’ipotesi in cui occorra «eseguire» intercettazioni «nei confronti» di un membro del Parlamento (cosiddette intercettazioni «dirette»); e prevede che, a tal fine, l’«autorità competente» debba richiedere l’autorizzazione della Camera cui il parlamentare appartiene, in assenza della quale l’atto è ineseguibile. Si tratta, dunque, di una autorizzazione a carattere preventivo, concernente i casi nei quali il parlamentare si presenta – non necessariamente in quanto indagato, ma anche (per diffuso convincimento) quale persona offesa o informata sui fatti – come il destinatario dell’atto investigativo.
Invece – come si desume dalla clausola di riserva iniziale («fuori delle ipotesi previste dall’articolo 4») – l’art. 6 attiene ai casi in cui le comunicazioni dell’esponente politico vengano intercettate fortuitamente, nell’ambito di operazioni che hanno come destinatarie terze persone (cosiddette intercettazioni «indirette» o «casuali»). In tale evenienza, il giudice per le indagini preliminari, se ravvisa la necessità di far uso del materiale probatorio (comma 2) – dovendo, per contro, essere distrutte le intercettazioni irrilevanti, per ordine del giudice stesso, «a tutela della riservatezza» (comma 1) – deve richiedere un’autorizzazione successiva alla Camera cui il parlamentare appartiene o apparteneva al momento dell’intercettazione (si veda, sul punto, l’ordinanza n. 389 del 2007): un’autorizzazione la quale condiziona, cioè, non l’esecuzione dell’atto (ormai avvenuta), ma l’utilizzazione processuale dei suoi risultati. Qualora l’assenso sia negato, la documentazione delle intercettazioni va distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego (comma 5); inoltre, i verbali e le registrazioni delle comunicazioni, acquisiti in violazione dello stesso art. 6 (e, segnatamente, in difetto di autorizzazione), sono dichiarati inutilizzabili dal giudice, in ogni stato e grado del processo (comma 6).
In base al disposto del comma 1, peraltro, presupposto di operatività della disciplina ora descritta è che l’intercettazione occasionale del deputato o del senatore avvenga «nel corso di procedimenti riguardanti terzi»: donde il dubbio circa il regime applicabile allorché la captazione fortuita abbia luogo in procedimenti che – come quello a quo – coinvolgano lo stesso parlamentare, unitamente ad altri soggetti. Ad avviso del rimettente, simili intercettazioni rimarrebbero egualmente soggette alla disciplina dell’art. 6, stante il carattere residuale che la stessa assume, negli intenti del legislatore, rispetto alla previsione dell’art. 4, di per sé non riferibile alle captazioni considerate (lex minus dixit quam voluit). Questa lettura non è implausibile: non solo perché conforme alla corrente prassi parlamentare in tema di autorizzazioni e recepita, altresì, dalla giurisprudenza di legittimità; ma, anche e soprattutto, in considerazione della oggettiva problematicità delle possibili alternative esegetiche.
Il rilievo vale, innanzitutto, per l’opinione secondo cui la fattispecie in discorso non ricadrebbe nell’orbita applicativa dell’art. 6, ma in quella dell’art. 4. In base a tale tesi, l’autorizzazione preventiva – prescritta da quest’ultima disposizione – andrebbe richiesta chiunque sia la persona da intercettare, allorché un parlamentare figuri tra gli indagati: e ciò in ragione della elevata probabilità che le intercettazioni, disposte in un procedimento che riguarda (anche) il parlamentare, finiscano comunque per captarne le comunicazioni, ove pure il controllo venga materialmente effettuato su altri soggetti. Siffatta dilatazione del perimetro applicativo dell’art. 4 si basa, peraltro, su una presunzione priva di riscontro nella lettera della norma (la quale, richiedendo il placet della Camera, per eseguire l’intercettazione «nei confronti» del parlamentare, evoca una concreta ed attuale prospettiva di intrusione nella sua sfera comunicativa); e introduce, al tempo stesso, una limitazione all’attività di indagine che può apparire di dubbio fondamento razionale, specie quando il procedimento concerna numerosi fatti e soggetti (la circostanza che uno solo fra gli indagati abbia la qualità di deputato o senatore paralizzerebbe il mezzo di ricerca della prova nei confronti di tutti).
A sua volta, la tesi alternativa, secondo la quale l’ipotesi de qua non sarebbe regolata dalla legge – non essendo riconducibile né alla previsione dell’art. 4 né a quella dell’art. 6 – oltre a risultare, primo visu, contraria all’intentio del legislatore della legge n. 140 del 2003 (di ampia protezione delle comunicazioni del parlamentare), determinerebbe una sperequazione palesemente irragionevole. In tale prospettiva, infatti, il parlamentare sarebbe tutelato esclusivamente rispetto alle intercettazioni occasionali effettuate in procedimenti che riguardino solo terzi; mentre resterebbe sfornito di garanzia nei confronti delle intercettazioni occasionali eseguite in procedimenti che riguardino anche lui stesso: intercettazioni i cui risultati, pertanto, potrebbero essere utilizzati senza necessità di alcuna autorizzazione.
3. – Sotto diverso profilo, va rilevato come il giudice a quo – che ha sollevato la questione dopo aver chiesto, con esito negativo, l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» ai sensi dell’art. 6 – non censuri, con l’incidente di costituzionalità, la previsione dell’obbligo di richiedere detta autorizzazione (allorché l’indagine coinvolga anche il parlamentare), ma soltanto la regolamentazione degli effetti del suo diniego.
Come emerge dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione, il rimettente si duole segnatamente del fatto che il legislatore ordinario – nell’estendere il regime di garanzia al di là dell’ambito stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost. (che si riferirebbe, in assunto, alle sole intercettazioni «dirette») – abbia adottato una disciplina eccedente la finalità di preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze e condizionamenti; mentre solo questa finalità potrebbe giustificare una deroga al principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione. A tale scopo, nel caso di rifiuto dell’autorizzazione, sarebbe sufficiente – secondo il rimettente – la semplice inutilizzabilità delle intercettazioni nei confronti del parlamentare indagato. Per contro, prevedendo la distruzione della documentazione e la sua inutilizzabilità nei confronti di qualunque altro soggetto, il legislatore avrebbe inteso, in realtà, tutelare un interesse diverso – quello alla riservatezza delle comunicazioni del parlamentare – inidoneo a legittimare deroghe al predetto principio fondamentale.
A fronte di tale petitum, le due eccezioni di inammissibilità della questione, sollevate dall’Avvocatura dello Stato, si rivelano infondate.
Quanto alla prima, infatti – contrariamente a quanto sostiene la difesa erariale – le censure del rimettente non investono il merito della decisione di diniego dell’autorizzazione adottata dalla Camera; così da rendere necessario, in assunto, il ricorso al diverso strumento del conflitto di attribuzioni.
Quanto alla seconda eccezione, la questione risulta rilevante nel giudizio a quo – nella prospettiva del rimettente – anche dopo il rifiuto dell’autorizzazione, proprio perché mira a rimuovere (parzialmente) le conseguenze di detto rifiuto, che ancora debbono prodursi nel procedimento principale.
4. – Ciò puntualizzato, deve escludersi che il risultato perseguito dal giudice a quo – ossia la limitazione del campo applicativo dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, ai casi in cui si debbano utilizzare i risultati delle intercettazioni contro il parlamentare – possa essere desunto dalla norma impugnata già in via di interpretazione.
La circostanza che il presupposto della disciplina sia individuato in rapporto ai procedimenti riguardanti «terzi»; la genericità del riferimento alla necessità di utilizzazione delle intercettazioni, senza alcuna specificazione limitativa rispetto ai soggetti; la perentorietà delle previsioni in tema di distruzione del materiale e di inutilizzabilità, oggi censurate: sono tutti argomenti testuali che ostano al recepimento dell’esegesi dianzi indicata. Quest’ultima, d’altra parte, non rispecchierebbe la voluntas del legislatore, il quale – alla luce dei lavori preparatori e del dibattito che ha preceduto la legge n. 140 del 2003 – intendeva sicuramente comprendere nell’art. 6 i casi di utilizzazione nei confronti di terzi.
5. – Nel merito, la questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
5.1. – La disciplina delle intercettazioni «indirette» – o, più propriamente, per quanto si dirà, delle intercettazioni «casuali» – quale delineata dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, non può ritenersi in effetti riconducibile alla previsione dell’art. 68, terzo comma, Cost.
Al riguardo, giova premettere come, nell’ambito del sistema costituzionale, le disposizioni che sanciscono immunità e prerogative a tutela della funzione parlamentare, in deroga al principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione – principio che si pone «alle origini della formazione dello Stato di diritto» (sentenza n. 24 del 2004) – debbano essere interpretate nel senso più aderente al testo normativo. Tale esigenza risulta accentuata dal passaggio – avutosi con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, di riforma dell’art. 68 Cost. – ad un sistema basato esclusivamente su specifiche autorizzazioni ad acta: un sistema nel quale ogni singola previsione costituzionale attribuisce rilievo ad uno specifico interesse legato alla funzione parlamentare e fissa, in pari tempo, i limiti entro i quali esso merita protezione, stabilendo quali connotazioni debba presentare un determinato atto processuale, affinché si giustifichi il suo assoggettamento al nulla osta dell’organo politico.
Nella specie, dal testo dell’art. 68, terzo comma, Cost. («analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza») non può ricavarsi alcun riferimento ad un controllo parlamentare a posteriori sulle intercettazioni occasionali. La norma costituzionale ha riguardo, infatti, alla «sottoposizione» di un parlamentare ad intercettazione e ad una autorizzazione di tipo preventivo: il nulla osta è richiesto per eseguire l’atto investigativo, e non per utilizzare nel processo i risultati di un atto precedentemente espletato. Il che è confermato, ove ve ne fosse bisogno, dal fatto che la norma richiama un’autorizzazione «analoga» a quella – indubitabilmente preventiva – prevista dal secondo comma dello stesso art. 68 Cost. in rapporto alle perquisizioni personali o domiciliari, all’arresto e alle misure privative della libertà personale.
Né giova, in senso contrario, l’inciso «in qualsiasi forma», che nell’art. 68, terzo comma, Cost. qualifica le intercettazioni soggette ad autorizzazione. Come emerge, infatti, dai lavori preparatori della legge costituzionale n. 3 del 1993, detto inciso fu introdotto dalla Camera dei deputati in sostituzione del riferimento alle «intercettazioni telefoniche e ambientali», che compariva nel testo approvato dal Senato della Repubblica il 19 giugno 1993: e ciò sia a fronte delle perplessità di ordine tecnico, generate dall’impiego – in una norma costituzionale – della locuzione «intercettazioni ambientali», estranea alla terminologia del codice di rito; sia a fronte della opportunità di adottare una formula più generica, atta ad abbracciare ogni possibile mezzo comunicativo.
Nell’intenzione del legislatore costituzionale, dunque, l’espressione «in qualsiasi forma» si riferiva unicamente alle modalità tecniche di captazione e ai tipi di comunicazione intercettata; non già al carattere «diretto» o «casuale» della captazione. Di ciò offre conferma la stessa legge n. 140 del 2003, nella quale l’identica espressione «in qualsiasi forma» compare – col significato ora indicato – a proposito sia delle intercettazioni «dirette» (art. 4, comma 1) che di quelle «indirette» (art. 6, comma 1).
5.2. – La ratiodella garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. converge, d’altro canto, con la lettera della norma.
L’art. 68 Cost. mira a porre a riparo il parlamentare da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo, cioè, dal rischio che strumenti investigativi di particolare invasività o atti coercitivi delle sue libertà fondamentali possano essere impiegati con scopi persecutori, di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze della giurisdizione. La necessità dell’autorizzazione viene meno, infatti, allorché la limitazione della libertà del parlamentare si connetta a titoli o situazioni – come l’esecuzione di una sentenza di condanna irrevocabile o la flagranza di un delitto per cui sia previsto l’arresto obbligatorio – che escludono, di per sé, la configurabilità delle accennate evenienze.
Destinatari della tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari uti singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario (si veda, al riguardo, con riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del 2004): il che spiega l’irrinunciabilità della garanzia (sentenza n. 9 del 1970).
In tale prospettiva, l’autorizzazione preventiva – contemplata dalla norma costituzionale – postula un controllo sulla legittimità dell’atto da autorizzare, a prescindere dalla considerazione dei pregiudizi che la sua esecuzione può comportare al singolo parlamentare. Il bene protetto si identifica, infatti, con l’esigenza di assicurare il corretto esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei membri del Parlamento, e non con gli interessi sostanziali di questi ultimi (riservatezza, onore, libertà personale), in ipotesi pregiudicati dal compimento dell’atto; tali interessi trovano salvaguardia nei presidi, anche costituzionali, stabiliti per la generalità dei consociati.
Questo rilievo vale anche in rapporto alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni. Richiedendo il preventivo assenso della Camera di appartenenza ai fini dell’esecuzione di tale mezzo investigativo, l’art. 68, terzo comma, Cost. non mira a salvaguardare la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale. Quest’ultimo diritto trova riconoscimento e tutela, a livello costituzionale, nell’art. 15 Cost., secondo il quale la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge.
L’ulteriore garanzia accordata dall’art. 68, terzo comma, Cost. è strumentale, per contro, anche in questo caso, alla salvaguardia delle funzioni parlamentari: volendosi impedire che l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività. E ciò analogamente a quanto avviene per l’autorizzazione preventiva alle perquisizioni ed ai sequestri di corrispondenza, il cui oggetto ben può consistere anche in documenti a carattere comunicativo.
5.3. – Nel caso delle intercettazioni fortuite, peraltro, l’eventualità che l’esecuzione dell’atto sia espressione di un atteggiamento persecutorio – o, comunque, di un uso distorto del potere giurisdizionale nei confronti del membro del Parlamento, volto ad interferire indebitamente sul libero esercizio delle sue funzioni – resta esclusa, di regola, proprio dalla accidentalità dell’ingresso del parlamentare nell’area di ascolto.
Né, d’altra parte, si può ritenere che il nulla osta successivo della Camera all’utilizzazione del mezzo probatorio sia imposto dall’esigenza di evitare una surrettizia elusione della garanzia dell’autorizzazione preventiva: elusione che si realizzerebbe allorché, attraverso la sottoposizione ad intercettazione di utenze telefoniche o luoghi appartenenti formalmente a terzi – ma che possono presumersi frequentati dal parlamentare – si intendano captare, in realtà, le comunicazioni di quest’ultimo. Al riguardo, va infatti osservato che la norma costituzionale vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello che conta – ai fini dell’operatività del regime dell’autorizzazione preventiva stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost. – non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto d’indagine. Se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi.
La previsione – nella norma costituzionale – dell’autorizzazione preventiva al compimento dell’atto, e non anche dell’autorizzazione successiva all’utilizzazione dei suoi risultati, è del tutto coerente con tale prospettiva: giacché, nella prima ipotesi, l’autorità giudiziaria è comunque in grado di chiedere in anticipo l’assenso della Camera cui appartiene il parlamentare. Dall’ambito della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost. non esulano, dunque, le intercettazioni «indirette», intese come captazioni delle conversazioni del membro del Parlamento effettuate ponendo sotto controllo le utenze dei suoi interlocutori abituali; ma, più propriamente, le intercettazioni «casuali» o «fortuite», rispetto alle quali – proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare – l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza.
Sotto questo profilo, si deve quindi ritenere che la previsione dell’art. 68, terzo comma, Cost. risulti interamente soddisfatta, a livello di legge ordinaria, dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003, le cui statuizioni debbono necessariamente interpretarsi in coerenza con quelle del precetto costituzionale che esso mira ad attuare. La disciplina dell’autorizzazione preventiva, dettata dall’art. 4, deve ritenersi destinata, cioè, a trovare applicazione tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti. In tal senso può e deve intendersi la formula «eseguire nei confronti di un membro del Parlamento […] intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni», che compare nella norma ordinaria.
Per contro, l’autorizzazione successiva prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 – ove configurata come strumento di controllo parlamentare sulle violazioni surrettizie della norma costituzionale – non solo non sarebbe indispensabile per realizzare i fini dell’art. 68, terzo comma, Cost.; ma verrebbe a spostare in sede parlamentare – in una situazione nella quale risulterebbe eventualmente attivabile anche il rimedio del conflitto di attribuzioni – un sindacato che trova la sua sede naturale nell’ambito dei rimedi interni al processo. Con il rischio – da taluni paventato – che un siffatto meccanismo possa porsi addirittura in contrasto con la stessa norma costituzionale, attribuendo, di fatto, all’Assemblea parlamentare – nel caso di concessione dell’autorizzazione – la facoltà di “sanare”, rendendoli utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem.
5.4. – Al regime autorizzatorio prefigurato dalla disposizione denunciata si è attribuita – oltre a quella di evitare le elusioni – anche una diversa ratio. L’autorizzazione all’utilizzazione dei risultati dell’atto mirerebbe, cioè, ad impedire che, immettendo nel circuito processuale la documentazione dei colloqui accidentalmente captati, si determini una loro divulgazione strumentale: e ciò in situazioni nelle quali quella documentazione dovrebbe essere, invece, prontamente distrutta per la sua irrilevanza, secondo quanto è previsto – «a tutela della riservatezza» – dal comma 1 dell’art. 6, in sostanziale assonanza con la norma generale dell’art. 269, comma 2, del codice di procedura penale. Tale documentazione potrebbe essere così impiegata, tramite la cassa di risonanza dei mass media, a fini di pressione politica.
A prescindere, peraltro, dalla reale idoneità del diniego dell’assenso successivo, all’esito di dibattito in Assemblea, a porre al riparo il parlamentare da temute strumentalizzazioni giornalistiche, neppure l’anzidetta ratio può essere ricondotta alle previsioni dell’art. 68, terzo comma, Cost.: giacché essa comporta un evidente mutamento dell’oggetto del sindacato parlamentare, rispetto a quello prefigurato nella norma costituzionale.
Nella prospettiva in questione, difatti, la Camera di appartenenza del parlamentare non sarebbe più chiamata a vagliare i presupposti di esecuzione dell’atto invasivo, per impedire intrusioni indebite dell’autorità giudiziaria nella sfera delle comunicazioni riservate dell’esponente politico (nella specie, l’intrusione si è già consumata); ma verrebbe chiamata a verificare la correttezza della successiva valutazione giudiziale circa la rilevanza processuale dei risultati dell’intercettazione (legittimamente eseguita). In altre parole, alla Camera verrebbe attribuito un potere di sindacato non sull’espletamento o meno del mezzo di ricerca della prova – com’è nella logica generale delle immunità previste dall’art. 68 Cost. – ma sulla gestione processuale di una prova già formata.
Tale diversa angolazione del sindacato è stata, del resto, affermata dalla stessa prassi parlamentare in tema di autorizzazioni. In essa si è espressamente affermato che il parametro – sulla base del quale consentire o negare l’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» – non possa essere quello «del fumus persecutionis, venendo in rilievo il risultato probatorio di un’istruttoria già effettuata, ma piuttosto la rilevanza e l’utilizzabilità processuale di tale risultato rispetto all’oggetto dell’accusa» (in questo senso, la relazione della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati presentata alla Presidenza il 19 marzo 2007, doc. IV, n. 6-A).
5.5. – Escluso, pertanto, che la disciplina censurata possa considerarsi “costituzionalmente imposta” dall’art. 68, terzo comma, Cost., resta da chiarire se la stessa possa ritenersi comunque “costituzionalmente consentita”. Si tratta di stabilire, cioè, se il legislatore ordinario sia abilitato a prevedere – in un’ottica di prevenzione di ipotizzabili condizionamenti sullo svolgimento del mandato elettivo – forme speciali di tutela della riservatezza del parlamentare, rispetto ad un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo, come le intercettazioni. E ciò pur tenendo conto che le esigenze di protezione in materia risultano particolarmente avvertite in conseguenza di un fenomeno patologico che incide, di per sé, sulla generalità dei cittadini: quello, cioè, della disinvolta diffusione, anche a mezzo della stampa, dei contenuti dei colloqui intercettati, spesso anche per le parti irrilevanti ai fini del processo.
Al suddetto quesito, la Corte è chiamata a dare risposta, in questa sede, nei limiti del petitum del giudice rimettente: ossia, unicamente per quanto attiene alla prevista inutilizzabilità erga omnes e alle radicali conseguenze del rifiuto di autorizzazione della Camera (distruzione del materiale, con perdita irrimediabile dei dati probatori da esso offerti, anche quando vengano in rilievo posizioni di terzi); non, invece, per quanto attiene al profilo – che resta impregiudicato – della disciplina circa l’utilizzabilità o meno delle intercettazioni casuali nei confronti dello stesso parlamentare intercettato.
Sotto l’aspetto censurato, le disposizioni impugnate si rivelano incompatibili con il fondamentale principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione. Dette disposizioni accordano, infatti, al parlamentare una garanzia ulteriore rispetto alla griglia dell’art. 68 Cost., che – per l’ampiezza della sua previsione e delle sue conseguenze – finisce per travolgere ogni interesse contrario: giacché si elimina, ad ogni effetto, dal panorama processuale una prova legittimamente formata, anche quando coinvolga terzi che solo occasionalmente hanno interloquito con il parlamentare.
In questo modo, viene quindi introdotta una disparità di trattamento non soltanto tra il titolare del mandato elettivo e i terzi – tema, quest’ultimo, che il giudice a quo non sottopone al giudizio di questa Corte – ma tra gli stessi terzi. Le intercettazioni eseguite nel corso di un procedimento penale, infatti, possono contenere elementi utili, o addirittura decisivi, sia per le tesi dell’accusa che per quelle della difesa. Ne deriva che, coeteris paribus, la posizione del comune cittadino, cui quegli elementi nuocciano o giovino, viene a risultare differenziata – eventualmente, sino al punto da determinare il passaggio da una pronuncia di condanna ad una assolutoria (e viceversa); ovvero, quanto al danneggiato dal reato, il passaggio dal riconoscimento al diniego della pretesa risarcitoria – in ragione della circostanza, puramente casuale, che il soggetto sottoposto ad intercettazione abbia avuto, come interlocutore, un membro del Parlamento.
Al tempo stesso, impedendo di utilizzare le intercettazioni in questione anche nei confronti di soggetti non parlamentari, le disposizioni in parola finiscono, di fatto – senza alcuna base di legittimazione costituzionale – per configurare una immunità a vantaggio di soggetti che non avrebbero comunque ragione di usufruirne, in quanto non chiamati ad esercitare alcun mandato elettivo.
In sostanza, ciò che rende contrastante il complesso di norme in esame non soltanto con il parametro dell’eguaglianza, ma anche con quello della razionalità intrinseca della scelta legislativa, è il fatto che – per neutralizzare gli effetti della diffusione delle conversazioni del parlamentare, casualmente intercettate – sia stato delineato un meccanismo integralmente e irrimediabilmente demolitorio, omettendo qualsiasi apprezzamento della posizione dei terzi, anch’essi coinvolti in quelle conversazioni.
6. – I commi 2, 5 e 6 dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003 vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi nella parte in cui stabiliscono che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.
La declaratoria di illegittimità costituzionale comporta che l’autorità giudiziaria non debba munirsi dell’autorizzazione della Camera, qualora intenda utilizzare le intercettazioni solo nei confronti dei terzi. Invece, qualora si voglia far uso delle intercettazioni sia nei confronti dei terzi che del parlamentare, il diniego dell’autorizzazione non comporterà l’obbligo di distruggere la documentazione delle intercettazioni, la quale rimarrà utilizzabile limitatamente ai terzi.
Le residue censure del giudice rimettente, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2007.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 novembre 2007.
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