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Penale.it - Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Roma, Sentenza 23 luglio 2007 (dep. 17 ottobre 2007), n. 2049

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Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Tribunale di Roma, Sentenza 23 luglio 2007 (dep. 17 ottobre 2007), n. 2049
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La condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti sancito dalla Costituzione (cd. Caso Welby).

G.u.p. Dr. Secchi

Svolgimento del processo

Previa richiesta di rinvio a giudizio, formulata dal Pm ai sensi dell’art. 409 c.p.p. nei confronti di Riccio Mario per i fatti di cui alla suindicata imputazione, veniva fissata udienza il 6-7-07 per il rinvio a giudizio.
Nel corso di detta udienza, oltre all'interrogatorio dell'imputato, al cui espletamento si procedeva contestualmente, il Gup disponeva un'integrazione probatoria; in particolare venivano disposte l'audizione della persona offesa Schett Wilhelmine e l’acquisizione del libro "Lasciatemi morire'' di Piergiorgio Welby, nonché della sua lettera al Presidente della Repubblica. Infine il Giudice nell'odierna udienza, assunta la suindicata testimonianza, invitava le parti a formulare le conclusioni, di cui al separato verbale, decidendo come da dispositivo.
In merito al fatto storico, oggetto del presente giudizio, risulta dagli atti che perveniva presso la Procura della Repubblica di Roma la comunicazione, redatta il 21-12-06 dalla stazione CC di Roma-Cinecittà, riguardante il decesso di Piergiorgio Welby, avvenuto in data 20-12-06 per «arresto cardiorespiratorio secondario a grave insufficienza respiratoria in portatore di distrofia scapolo-omerale progressiva dal 1962».
Il Pm, senza aprire un procedimento penale a carico di alcuno, disponeva una consulenza medico-legale e tossicologica per accertare le cause della morte del predetto, nonché acquisiva per il tramite della Pg le dichiarazioni del medico anestesista operante, Riccio Mario, e di altra persona presente ai fatti, ovvero l’on. Marco Cappato; veniva inoltre acquisita documentazione sanitaria riguardante il decesso in possesso della vedova, Schett Wilhelmine.
Sulla base di tali atti il Pm formulava richiesta di archiviazione nei confronti del Riccio, seppure a carico di quest'ultimo non fosse mai stato formalmente iscritto alcun procedimento penale presso il registro di cui all'art. 335, c.p.p..
Il Gip, previa richiesta al Pm di iscrivere il Riccio al predetto registro, fissava ai sensi dell'art. 409 c.p.p., udienza camerale, nel corso della quale acquisiva le spontanee dichiarazioni dell'indagato. La riserva di cui al verbale di udienza del 28-5-07 veniva sciolta dal Gip con la reiezione della richiesta di archiviazione del Pm, a cui veniva imposto di formulare l’imputazione nei confronti del Riccio.
La richiesta di rinvio a giudizio perveniva, pertanto, a questo Giudice che decideva come sopra meglio specificato.

Motivi della decisione

I fatti all’origine del presente procedimento, secondo quanto risulta dagli atti presenti nel fascicolo del Pm e secondo quanto emergente dalle integrazioni probatorie disposte da questo Gup, sono da ricostruirsi nel modo che segue.
A Piergiorgio Welby nel 1963, all’età di 18 anni, veniva diagnosticata una distrofia fascio-scapolo-omerale, una patologia che secondo la letteratura medica attuale viene univocamente definita come «malattia degenerativa dei muscoli scheletrici, progressiva ed ereditaria; lentamente progressiva che interessa, in particolare, i muscoli della faccia e delle spalle. Le funzioni intellettive sono normali. L’insufficienza respiratoria è presente nella maggior parte delle forme distrofiche. Non vi sono terapie specifiche: il medico è costretto ad assistere impotente alla progressione inesorabile della perdita di forze e della atrofia» (cit. Adams e Victor, Principi di neurologia, ed, 2002).
Tale patologia viene descritta dai consulenti tecnici del Pm nella relazione in atti come malattia a «progressione estremamente lenta con periodi prolungati di stazionarietà anche se sono stati segnalati rari casi ad evoluzione rapida»; nei confronti di tale malattia nella relazione tecnica, inoltre, si afferma che «a tutt'oggi non esistono protocolli terapeutici efficaci per cui la strategia è essenzialmente riabilitativa e sintomatologica». In conclusione, dalla relazione tecnica si evince che la distrofia è ad esito infausto e le terapie somministrabili risultano essere di mero supporto fisico-riabilitativo e di transeunte contenimento dei sintomi, imponendo tale patologia, per il resto, i tempi della sua progressione e le modalità di manifestazione, senza possibilità di guarigione o di arresto di queste ultime, e potendo la scienza medica solo fornire ai malati terapie finalizzate, nel migliore dei casi, a rallentare l’evoluzione della predetta patologia e a lenire le sue manifestazioni più eclatanti.
Di come, poi, le fasi della malattia e la sua inevitabile progressione si siano manifestate in concreto nella vita di Piergiorgio Welby non vi può essere, naturalmente, descrizione più puntuale e più autentica di quella effettuata da chi ha vissuto tale esperienza sulla propria pelle. Infatti quest’ultimo con grande consapevolezza e lucidità nel suo libro dal titolo emblematico “Lasciatemi morire”, pubblicato nel 2006, racconta:
"La mia storia è simile a tanti altri distrofici. Non è facile ricordare come tutto sia cominciato: forse fu una caduta immotivata o un bicchiere troppo spesso sfuggito di mano. Ma quello che non si può dimenticare è il giorno in cui il medico, dopo la biopsia muscolare e l’elettromiografia, ti comunica la diagnosi: distrofia muscolare progressiva. È una delle patologie più crudeli perché, mentre lascia intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti, da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l’insufficienza respiratoria e la tracheotomia. Il cuore di solito non viene colpito e quello che i medici chiamano esito infausto si ha per i decubiti o una polmonite. Per me la diagnosi arriva nel 1963. Il solito pellegrinaggio alla ricerca di una cura approda alla sentenza di un luminare: «non supererà i vent’anni». Lascio gli studi e tra il 1969 ed il 1971 giro l’Europa. Non muoio, ma la malattia si aggrava … negli anni ottanta vi è un ulteriore aggravamento: non posso più camminare. Incontro Mina, nativa dell’Alto Adige, durante un viaggio parrocchiale ed è colpo di fulmine. Mi sposo ed aspetto la fine. Non arriva. Ma con l’aggravarsi della malattia facciamo un patto: se avrò una crisi respiratoria non voglio che chiami soccorso e mi faccia ricoverare. Non voglio accettare la tracheotomia, un atto chirurgico cruento che mi renderebbe schiavo di un ventilatore polmonare.
Il 14 luglio 1997 altro aggravamento: insufficienza respiratoria, l’ultimo stadio della distrofia. Perdo i sensi, vado in coma. Mi risveglio nella rianimazione del Santo Spirito. Mina non è riuscita ad accettare di perdermi, l’ambulanza ha trovato tutti i semafori verdi, nessuna fila al pronto soccorso, ho subito l’intervento. Sono tracheostomizzato.
Oggi respiro con l’ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare) e altri elementi semiliquidi, parlo con l’ausilio di un computer e di un software. La notte alle volte non riesco a creare quel vuoto mentale che mi permetta di ignorare il rumore del ventilatore polmonare e allora quell’ansare rauco da bestia ferita a morte mi invade il cervello, mi paralizza i neuroni, ne blocca la sinapsi, tramuta tutte le percezioni in terrore. Non è paura di morire, sono già morto una volta ed è stato come spegnere la luce, non è quindi il dover morire che mi tormenta in quei momenti ma è il dover vivere! Sono gli stessi i tetti e le antenne che vedo incorniciati dalla finestra, sono gli stessi i dolori e le disperazioni, gli attimi di smarrimento e i momenti, sempre più rari, in cui una lettura mi rasserena e mi fa scordare quest'orrore quotidiano, queste giornate fotocopia, questo nulla che si ripete con costanza diabolica spalmando le ore, i giorni, i mesi, gli anni sulla traccia di una esistenza più inutile di un buco di una scarpa
".
E in data 11-6-02 egli scriveva nel libro: ''Io non vorrei parlare dei miei guai, ma ho la pressione a 180 su 130 per colpa del cortisone, mi hanno fatto un endovena di Lassix, senza cortisone boccheggio come un pesce rosso, l'ulcera della cannula mi tormenta, ho un orecchio chiuso perché senza la circolazione d'aria nel naso...non posso muovermi, ho dolori alla schiena, un braccio gonfio. Non posso parlare, comunico con un campanello ... e so che il peggio deve ancora venire"; e il 25-6-02: ''Per evitare che il Pulmocare risalga dallo stomaco al polmone dovrei mettere una sonda che dal naso arrivi all’intestino superando lo stomaco: quelli del Centro nutrizionale fanno tutto facile! Un altro tubo ... io mi sto sfasciando come un vecchio scafo. Un po' di catrame nella stoppa … chiudi un buco e se ne riapre un altro. Il fasciame non si tiene più e io soffro. Senza poter sperare in una fine rapida”.
Nella sua audizione la moglie fornisce ulteriori informazioni ad integrazione di quanto descritto al riguardo dal marito nel libro ed in particolare riferisce che, subito dopo essersi conosciuti, il futuro marito le disse tutto sul suo stato di salute, comunicandole che era malato di distrofia progressiva, e che le spiegò:
«morirò di una morte orribile di soffocamento perché i muscoli piano piano si disfano e la mia fine sarà quella di non potere più respirare». Ella racconta che, all'epoca della loro conoscenza {l’ho conosciuto negli anni 70), il marito «ancora camminava un pochino, con molta difficoltà: aveva una camminata particolare; anche i movimenti delle braccia, non poteva muovere tante cose. Aveva però ancora la possibilità di dipingere, di fotografare. Questo nel 1978, e poi andando avanti fino a tutti gli anni '70 e '80, ancora riusciva a sfogliare i libri, parlava normalmente, respirava normale, mangiava da solo»; poi «nel '97 gli feci fare delle analisi ed erano tutte okay. Però», subito dopo, «ha cominciato ad avere difficoltà respiratorie, mi accorsi che respirava male quando stava sdraiato. Verso luglio però ebbe un attacco fortissimo di insufficienza respiratoria, chiamai il pronto intervento, il medico della Asl dice che serve il ricovero e mio marito disse di no: “non mi voglio ricoverare”. Lo alzai poi dal letto perché non poteva più starci, lo misi seduto e stette seduto tutto il giorno fino al pomeriggio. Ho visto che incominciavano a calare gli occhi, sembrava che dovesse svenire da un momento all'altro perché respirava con molta fatica. Non arrivava più al cervello abbastanza ossigeno. Io lo sostenni perché appoggiandosi respirava meglio. Quindi gli dissi andiamo all'ospedale: ''no''. Alla fine lo dovevo sorreggere per farlo respirare ancora ed ad un certo punto mi disse: ''aiutami''». La signora Schett allora con il consenso del marito chiama il pronto soccorso e «lo abbiamo portato giù con l'ascensore, perché stiamo al sesto piano, con una carrozzina e dopo che lo avevano messo sulla lettiga io dissi: -mettetelo seduto perché non respira-. Hanno attaccato l'ossigeno, ma l'ossigeno, la bombola non serve a nulla se lui non può tirare su l'aria. Svenne, da casa fino a villa Irma» e, arrivati in ospedale, «un medico poi uscì dopo. Non ricordo quanto tempo dopo e mi disse: ''suo marito è in coma, non so se ce la fa". L'avevano intubato, la sera alle dieci un'autoambulanza lo portò via al Santo Spirito», Riuscì a riprendere conoscenza, i medici fecero vari tentativi per farlo respirare autonomamente, ma inutilmente «così stette per 15 giorni… c’era da fare la scelta e i medici parlarono con lui prima e gli prospettarono ancora un lasso di tempo se lui si fosse tracheotomizzato, un lasso di tempo ancora di poter respirare e di poter avere ancora una vita abbastanza decente, insomma, per le sue condizioni. Poi me lo dissero anche a me e mi dissero che Piergiorgio aveva detto di sì, di farsi tracheotomizzare. Io volevo prima parlare con lui, non volevo firmare senza il suo consenso, hanno detto la stessa cosa davanti a lui … e lui fece sì e io firmai. Fatto l’intervento mio marito lo vedevo che stava molto, molto male, tutto il suo fisico era andato sottosopra. Dopo circa una settimana cominciò a stare un pochino meglio. Ebbe tante difficoltà anche con i medicinali, degli antibiotici che dovettero dare, era allergico. Poi, quando venne a casa, me lo fece pesare, era quasi come se fosse arrabbiato con me, e lo capisco, perché non aveva più assolutamente un movimento: alla lunga degenza gli avevano fatto poca e non adeguata alla sua malattia fisioterapia. La prima cosa che feci gli dissi: senti io chiamo il fisioterapista e lui fece di sì al fisioterapista, però serviva anche un fisiatra e venne anche il dottor Sciarra, venne molto spesso perchè la macchina aveva bisogno di aggiustamenti, lui aveva bisogno di cure perché all'inizio aveva avuto di nuovo la febbre e insomma era un periodo di assestamento piuttosto lungo. Un'infermiera della rianimazione che aveva preso le ferie aveva promesso di aiutarmi e per una settimana a casa mia mi ha insegnato tutto, mi ha insegnato come cambiare i filtri, come attaccarlo, come aspirarlo, fin dove potevo scendere con il sondino con l'aspirazione, poi come girarlo, come muoverlo sul letto, perché all’inizio era proprio un tronco morto, non muoveva nulla. Successivamente si riprese di nuovo e si rimise di nuovo seduto in carrozzina e poteva respirare senza respiratore» per periodi limitati nell’arco della giornata «e questa era stata per lui una scoperta grandissima ed era felice. Vedevo che per lui era quasi l'inizio di una nuova vita e abbiamo cominciato anche di nuovo ad uscire e siamo usciti addirittura senza respiratore. Lui si sentiva autonomo e libero di respirare, l'unica cosa che lamentava sempre era che l’aria gli bruciava dentro la trachea anche se aveva avanti un filtrino. Ha incominciato a scrivere e nel '98 abbiamo comprato un computer. Su quel computer lui ben presto si fece mettere anche Internet per poter navigare, per lui questa è stata una cosa bellissima, poteva fare le sue ricerche, ha messo la parola eutanasia su Google. Fino al 2001 ad ottobre 2001 è uscito per l'ultima volta. Nel 2002, a cavallo del 2001/2002, ha avuto un altro peggioramento, quando gli è andata giù di nuovo la muscolatura, in particolare, del collo, non poteva più inghiottire e io mi accorsi che tante volte il cibo gli andava nel polmone perchécominciava a tossire quando mangiava. Abbiamo chiamato il dottor Sciarra che ci disse che sarebbe stato utile mettere un sondino. Piero disse che non lo voleva, ma poi però dopo un po’ di tempo all'inizio di gennaio ebbe una polmonite. Io feci un corso all’Umberto I dal professore Capello per la nutrizione enterale che poteva essere fatta a casa, il dottor Sciarra mise il sondino e poi sono tornata a casa con la macchinetta dove avevo imparato a inserire la sacca, caricare il Pulmocare che era la nutrizione che riceveva, tramite sondino veniva data. All'inizio non poteva più inghiottire e quindi abbiamo aspettato un po', dopo circa sei mesi, verso agosto di quell'anno, cominciò di nuovo a mangiare qualche cosina normalmente. Lui mi diceva: “voglio mangiare io, dammi qualche yogurt”. Successivamente si riprese di nuovo e si rimise seduto di nuovo in carrozzina, ma dopo quel peggioramento non si poteva più staccare dalla macchina, lui provava ancora a staccarsi dalla macchina, ma non ce la fece a rimanere staccato. Dal 2002 in poi all'inizio riusciva ancora a scrivere con un bastoncino in mano perché aveva ancora un po’ di mobilità con le braccia e scriveva sulla tastiera con un bastoncino che aveva nella destra e la sinistra muoveva. A un certo momento gli venne un'infiammazione, sembrava una tendinite, venne anche il fisiatra, lo esaminò e disse è una tendinite, abbiamo fatto delle applicazioni ma non c’era verso. Non poteva più scrivere con il bastoncino perché gli si stancava il braccio, allora prese a scrivere con un dito, virtuale, sulla tastiera, fino al giugno 2006. Riusciva a parlare perché c'era un pochino di aria che passava vicina alle corde vocali ed aveva ancora un pochettino di sforzo da poter fare, anche se un po' di aria usciva dallo stoma, perché c'è sempre quella piccola fessura; fino al 2005, e li si cominciò a lamentare, dunque riusciva ancora a parlare con grandissimo sforzo anche alla fine ancora, anche l'ultimo giorno noi abbiamo parlato insieme. Nel 2005 incominciò a lamentarsi che sentiva oppressione sul letto in particolare quando stava sdraiato: ''mi fa male il cuore''. Era sempre attaccato alla macchina. All’inizio del 2006 sempre più spesso si lamentava di questa difficoltà respiratoria e una volta poi mi disse: -non riesco più a scrivere tanto. Mi stanco troppo-. A giugno poi ad un certo punto ha avuto una bronchite, anzi già nel 2005 erano incominciate delle infezioni batteriche molto frequenti e io mi accorsi che aveva del muco molto profondo, però non osai andare troppo giù, qualche volta lui mi disse: ''vai più giù, non importa succeda quel che succecia”. La bronchite, ha avuto di nuovo una terapia antibiotica e dopo quella malattia non si riprese più, mi diceva sempre: ''sono troppo stanco, non mi voglio più alzare dal letto, non ci riesco più ad alzarmi”. Però quando arrivava verso le undici del mattino diceva: ''senti Mina mi devo alzare, non posso sempre stare a letto, perché mi sento male alla schiena''. Allora chiamavo la vicina di casa o qualche altra persona che mi aiutasse a sorreggerlo per non farlo cascare all’indietro. Lo misi seduto, prima tirai giù le gambe, lo misi seduto e poi lo scivolai sulla carrozzella ed era un movimento molto semplice, lui pesava 70 chili Poi ci sbrigavamo sempre di portare la macchina dall’altra parte perché vedevo che l'ossigeno gli scendeva parecchio quando lo alzavamo, scendeva di circa 4, 5 punti e lui si lamentava che non riusciva a respirare e quindi ci sbrigavamo e, attaccato di nuovo alla macchina, computer aperto, lui faceva le solite cose con il suo dito, intanto io facevo altre cose, però vedevo che incominciava lentamente a chinarsi da una parte e dovevo metterlo sempre di nuovo diritto, seduto diritto. Non riusciva più a tener la posizione eretta. Questo era luglio, c'è stato peggioramento in continuazione, lui si lamentava sempre di più. Io vidi che perdeva sempre aria dallo stoma. Non riusciva più a dormire di notte, perché si sentiva soffocare: questa fuoriuscita di aria determinava una sensazione sempre maggiore di soffocamento. Non riusciva più a respirare in maniera adeguata, non lo faceva dormire di notte e di giorno non gli consentiva quel minimo di autonomia che aveva avuto fino a quel momento».
Piergiorgio Welby sintetizza nel suo libro quella sua condizione come di colui che ha «buco in pancia (gastrostomia) per poterlo alimentare», «un foro nel collo (tracheostomia) per permettergli di respirare», «un tubicino nell’uretra (caterere vescicolare) per consentirgli di urinare», con «un’infermiera che gli svuota giornalmente l’intestino», con somministrazione «di forti terapie antibiotiche per contenere le infezioni causate dai tubi» ed alla presenza di «decubiti, piaghe dolorose che corrodono la carne fino all’osso».
Infine egli descrive la sua situazione psico-fisica dell’ultimo periodo e segnatamente del settembre 2006 nella lettera che invia al Presidente della Repubblica con la richiesta che venga a lui consentito di porre fine alle sue sofferenze:
«La giornata inizia con l’allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario, A mezzogiorno, con l’aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perché sento una stanchezza mortale. Mi costringo su una sedia per assumere almeno per un'ora una posizione diversa da quella supina a letto. Tornato a letto, alle volte mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma l'ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché pensa sempre come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con Valuto di mia moglie e mio nipote. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e più stanco. Dopo circa un'ora mi accompagnano a letto. Guardo la TV, aspettando che arrivi l'ora della compressa di Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina».
È a quel punto del suo percorso di vita, consapevole di averne ormai imboccato il tratto finale, che l’a
ttenzione, che egli aveva dedicato al tema dell’eutanasia nell’ambito del suo impegno politico presso l’associazione radicale “Luca Coscioni”, si concretizza in una precisa scelta personale al fine di poter mettere termine alle sue sofferenze, prive della speranza in una positiva soluzione, ed al fine di allontanare da sé lo spettro terrorizzante di una morte terribile per soffocamento, di cui ormai avverte lucidamente la prossimità, come è chiaramente evincibile dalle sue riflessioni riportate in precedenza. Ne parla con la moglie, con i suoi amici dell'associazione, scrive, infine, nel settembre la ricordata lettera al Presidente della Repubblica, che ivi esprime la sua «profonda partecipazione emotiva all’appello» rivoltogli, «profondamente toccato come persona e come Presidente», poiché tale appello «può rappresentare un'occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile ed approfondito», auspicando «che un tale confronto ci sia nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o delusione di ogni responsabile chiarimento».
Il caso fa molto discutere, si apre un dibattito acceso nella società civile, ma , non vengono chiariti i termini giuridici della questione sotto il profilo della i liceità di una tale richiesta: né a livello politico, né a livello legislativo, né ad altro livello; ed è allora che Piergiorgio Welby presenta, ai sensi dell’art. 700 c.p.c, un ricorso al Giudice, nel quale chiede di ordinare ai medici che lo hanno in cura di interrompere la terapia di assistenza respiratoria, che viene esercitata con il ventilatore polmonare, ormai contro la sua volontà.
Racconta, infatti, la moglie che già al momento del suo ultimo aggravamento «lui ha già cominciato a giugno a mettere sul forum dell’associazione dei piccoli messaggi e ha messo anche che la persona più cara che ho», la moglie stessa, <
Lui non mi rispose più.
Poi insistendo sempre di più e sempre più spesso io una volta lo presi con energia e una volta gli ho detto anche: -sei egoista-. In quel momento però vidi un viso talmente triste, perché una cosa così non gliela avevo mai detta. Allora io capii che era veramente diventata una cosa insopportabile per lui.
Mi sono arresa, mi sono arresa di fronte a lui. Dentro di me mai, dentro di me mai. Alla volontà di lui».

Quindi la moglie cede alla volontà del marito, ma gli dice che non può chiederle di farlo lei stessa: «l'unica cosa che non mi puoi chiedere è che ti faccio morire».
«Allora lui prima l'aveva detto al medico di famiglia: ''io vogliol’eutanasia, che mi venga staccata la macchina e che venga lasciato morire". E la dottoressa diceva: “Piergiorgio io sono contraria all’eutanasia''. Si rivolse allora al pneumologo, dottor Sciarra, e glielo chiese: ''mi si potrebbe staccare la macchina, però facendomi una sedazione per non soffrire poi il soffocamento, me lo potrebbe fare lei?'' Il dottor Sciarra gli disse: “io ti posso staccare la macchina, ma non posso fare una sedazione, non sono in grado, quindi serve un anestesista”».
Allora Welby, lui direttamente -secondo quanto descritto dalla moglie-, si rivolge all'associazione "Luca Coscioni", di cui fa parte anche con la veste formale di Vicepresidente, perché gli venga fornito il nominativo di un anestesista, cui potersi rivolgere. Gli viene dato il nome del dottor Giuseppe Casale. Con quest'ultimo prende contatti, si incontrano più volte a casa sua, parlano della malattia ed, infine, gli chiede -come racconta la moglie- «espressamente di avere un'anestesia terminale per poter avere staccato il respiratore e poter morire senza soffrire. Il dottor Casale disse direttamente lì che non avrebbe potuto farlo. Non lo avrebbe fatto perché nel momento in cui avrebbe avuto difficoltà respiratorie di nuovo, sarebbe stato necessario che lo avesse attaccato. Allora Piergiorgio si rivolse alla magistratura, si rivolse al Giudice»
Quindi l'anestesista dott. Casale, interpellato dal Welby, si era rifiutato di procedere al distacco dal ventilatore polmonare ed alla contestuale sedazione del paziente, adducendo che sulla base della sua volontà espressa avrebbe potuto staccarlo dalla macchina e sedarlo, ma con l’incoscienza di quest'ultimo ed in presenza del rischio di vita per il paziente sarebbe scattato l'obbligo per lui di riattaccarlo al polmone artificiale.
Era allora, come in precedenza accennato, che Piergiorgio Welby, nell'impossibilità di vedere riconosciuta la sua volontà, presentava al Giudice civile la richiesta di emissione di un provvedimento d'urgenza, che obbligasse i medici ad ottemperare al suo rifiuto di proseguire la terapia di assistenza respiratoria.
Il Pm nell'atto di intervento nel procedimento ex art. 700 c.p.c. si pronunciava in senso favorevole all'accoglimento del predetto ricorso «sotto il profilo dell'esistenza del diritto ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste», mentre qualificava inammissibile il ricorso con riferimento «alla possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, perché trattasi di una scelta discrezionale affidata al medico, anche se di una scelta tecnicamente vincolata» per i giudici chiamati dal loro codice deontologico ad osservare quanto indicato all’art. 37, che prevede che «in caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o prevenuta alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita».
Il Giudice, invece, con ordinanza depositata in data 16.12-06 dichiarava il ricorso integralmente inammissibile,non pronunciandosi, pertanto sulla richiesta di distacco dal ventilatore polmonare formulata da Piergiorgio Welby, in
quanto, pur riconoscendo l'esistenza di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito di poter richiedere l’interruzione della terapia medica, lo riteneva privo di tutela giuridica in assenza di specifica normativa di carattere secondario ed in considerazione del fatto che, anzi, la legislazione positiva si orienta in senso contrario rispondendo essa al principio della indisponibilità della vita umana, alla luce di quanto disposto «dagli artt 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio».
Il Pm presentava presso il Tribunale di Roma reclamo avverso la suindicata ordinanza del Giudice in quanto la riteneva «affetta da una palese contraddizione» in quanto, qualora si ammetta l'esistenza di un diritto a pretendere la cessazione ai un trattamento terapeutico non voluto (come aveva fatto il Giudice nel suo provvedimento) non si può poi concludere nel senso che « esiste un diritto soggettivo perfetto insuscettibile di tutela. In altri termini un diritto soggettivo esiste oìnon esiste; se esiste non potrà non essere tutelato, incorrendo l’organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con l'effetto di lasciare senza risposta una pretesa giuridicamente riconosciuta»
Peraltro i tempi della giustizia non potevano più rispondere alle urgenze della drammatica fase esistenziale che il malato stava affrontando, nella quale le sofferenze fisiche e morali erano divenute per lui non più sopportabili, come di seguito meglio descritto tramite il racconto della moglie; infatti, egli ormai sapeva che in qualsiasi momento poteva sopraggiungere la morte per soffocamento, con il suo carico di terribile sofferenza, come egli aveva già  concretamente sperimentato nel lontano 1997, quando era entrato in coma per insufficienza respiratoria. Pertanto, quando, tramite l’associazione “Luca Coscioni”, gli fu offerta la possibilità di un ulteriore contatto con un altro anestesista, il dottor Mario Riccio, che, sensibile alle problematiche dei malati terminali, si era attivata presso la predetta associazione, egli fece la medesima richiesta a quest'ultimo.
Dalla testimonianza della moglie, in particolare, si possono così ricostruire gli ultimi momenti di vita di Piergiorgio Welby:
«tramite l’associazione Luca Concioni fu individuata questa persona che prese contatti per saperci l'indirizzo e si presentò a casa. Era il 18-12-06, era un lunedì pomeriggio. Io con il dottor Riccio non ebbi nessun contatto: -buonasera, gradisce un caffè-. Basta. Parlò direttamente mio marito, assolutamente solo lui. Io ero presente. Fugacemente ogni tanto andavo di là, perché avevo preparato il caffè. Io sentivo che Piergiorgio rispondeva alle domande del dottor Riccio, gli spiego la sua patologia, da quanto stava male, che non riusciva più a respirare e che ormai era arrivato ad un punto che … e lì spiegava che sentiva oppressione forte al petto, che aveva, questo l'ho sentito espressamente, che voleva che si staccasse il respiratore e che gli facesse la sedazione terminale per poter morire. Inoltre siccome già era stato sollecitato sia da Marco Pannella sia da Marco Cappato e avevano chiesto di far passare le feste, di aspettare ancora, di poter dare ancora dei tempi alla politica. Dei tempi per potere decidere anche a favore di una legge per il testamento biologico, poi d'altra parte ha avuto anche un contatto con il professor Marino».
Queste persone «hanno insistito per procrastinare. E invece Piergiorgio ha detto: “no, basta”. Mi disse tante, tante volte: “basta”. Sì, non ce la faceva più, tante volte mi diceva: “Mina, quanto sto male, quanto sto male''. Lui voleva assolutamente arrivare a concludere.
Era stato lui a scegliere il giorno e l’ora. Disse: mercoledì, dopo i ''pacchi''', quella trasmissione che faceva Rai Uno, la sera. Noi veramente non abbiamo mai visto televisione che io chiamo stupida, di divertimento, non l'abbiamo mai guardata, ma erano sempre cose impegnative, programmi di discussione, altrimenti \non la vedevamo mai la televisione e ascoltavamo la radio. Lui negli ultimi mesi da giugno in poi guardava solo le cose stupide. Non guardava nemmeno più il
telegiornale. Non riusciva più a sostenere nulla.
Dopo quella trasmissione mi disse: “spegni”. Ho spento il televisore. Poi lui aveva chiesto chi doveva essere presente alla sua fine e aveva chiesto Marco Cappato, Marco Pannella, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti, che poi non erano presenti all’azione medica, poi naturalmente sua sorella ed il nipote Simone e naturalmente la
mamma, ma la mamma fino all'ultimo momento non ha saputo nulla, glielo dissi quella sera perché avevo paura di come la prendesse, anzi è andata lei a farci coraggio, disse: ''finalmente lo hanno ascoltato”. Questa è stata la mamma che adesso farà 87 anni e mi domandò quella sera: ''ma che è tutta questa gente questa sera qui a casa?” Io le dissi : -oggi Piergiorgio se ne va-. Per un attimo mi guardò e poi andò da lui e lo salutò»
Infine, la signora Schett nella sua audizione arriva a descrivere gli ultimi momenti della vita del marito:
«Arrivò il dottor Riccio, gli dovette trovare una vena, la femorale perché alle braccia non era più possibile trovare nessuna vena. Eravamo dentro la stanza mia cognata, io. Marco Pannella e Marco Cappato.
Lo abbiamo salutato e poi mi disse : ''Mina per favore questa sera non piangere”. Glielo ho promesso.
Poi il dottor Riccio ha preparato l’anestesia, erano due piccoli flaconcini e … io cercai soltanto di sorridergli come se fosse una cosa per noi. Ero serena perché sapevo che per lui era il momento più grande della sua vita, l'ultimo passo.
Perché lui diceva che la morte è un punto nella vita, quindi io credo che lui abbia creduto che la vita continui, il punto nella vita, non diceva che era la fine, era un punto nella vita. Quindi doveva rimanere sereno e continuare ad essere sereno».

Alla precisa domanda di questo Giudice, se fino all’ultimo il marito abbia continuato a volere la cessazione della terapia che lo teneva in vita, la moglie rispondeva:
«Lui mi fece un sorriso e gli chiesi, -Piero, sei sicuro?-
''Sì'', mi fece.

-Allora dico sì anche io-, gli ho fatto, - e questo è il mio ultimo sì-. Mi fece un sorriso, mi fece l’occhiolino, che era il modo con il quale egli esprimeva il suo gradimento, l’occhiolino e tirare un po' la bocca. Poi mi disse: “'metti Vivaldi”. E non lo trovai, non so come è successo, ma non trovai quel disco e allora mi fece: “metti Bob Dylan”. Misi Bob Dylan non sapendo che quella canzone era "Questa sera stiamo insieme".
Poi il dottor Riccio mise il flaconcino e Piero piano piano si addormentò.
Sono rimasta presente fino all’ultimo e rimasi presente, gli accarezzai la fronte, gli tenni la mano, gliela strinsi per fargli sentire che ero lì vicina, lo accarezzai e poi mi misi vicino a lui guancia a guancia, come tante volte avevamo fatto perché era da anni che non potevamo più dormire nello stesso letto e la sera prima di addormentarci, prima di andare io sul mio lettino vicino a lui mettevo la guancia vicino a lui. Questa era la cosa che per lui era molto importante.

Si addormentò.
Mentre il dottore aveva inserito la sedazione ha staccato, è stata una cosa quasi contemporanea. Io misi la mano davanti alla cannula per sentire quanta aria uscisse, ma non si sentiva quasi nulla.
Nel giro di poco è morto.
In assenza di sofferenza»
La descrizione fatta dalla moglie degli ultimi momenti di Piergiorgio Welby conferma puntualmente la versione dell’imputato Mario Riccio resa il 21-12-06 alla Pg, ripresa nelle spontanee dichiarazioni fatte da quest’ultimo al Gip in sede di udienza ex art. 409 c.p.p., e poi integralmente confermata nell’interrogatorio espletato avanti questo Gup e segnatamente:
«mercoledì sera verso le ore 21:30, mi sono recato presso la sua abitazione. Ricevuta conferma delle sue volontà, ho proceduto ad incanulare la vena femorale destra per poter infondere la sedazione. Mi sono allontanato dalla stanza per permettere ai parenti il saluto in maniera riservata; quando il Welby me lo ha chiesto sono rientrato ed in presenza della moglie, della sorella, dell’on. Marco Pannella e dell’on. Marco Cappato, ho iniziato le manovre di sedazione a mezzo di infusione di farmaci e contestualmente ho interrotto la ventilazione meccanica. Il tutto è avvenuto in condizioni di sedazione continua, fintanto che ho accertato il decesso avvenuto alle ore 23:40. Dall’inizio della sedazione ho staccato la macchina per la ventilazione».
La morte di Piergiorgio Welby veniva constatata essere avvenuta alle 23:40 del 20-12-06 per «arresto cardio-respiratorio, secondario a grave insufficienza respiratoria», come certificato dal dottor Riccio e dal medico di famiglia, dott.ssa Wilma Trotta, nell’immediatezza dei fatti.
Inoltre, veniva redatto dal dott. Riccio un diario clinico che descriveva in maniera minuziosa le fasi dell’intervento prestato nei confronti del malato, in
particolare, ivi si dava atto che: «il sig. Piergiorgio Welby mi ha chiesto di interrompere la terapia ventilatoria sotto sedazione. Egli infatti mi ha confermato sia oggi che nei giorni precedenti la sua volontà in tal senso. Rifiuta infatti la terapia ventilatoria meccanica alla quale è sottoposto da circa 10 anni, essendo portatore ai distrofia muscolare scapolo omerale dal 1962, Nonostante la sua quasi immobilità, può infatti ancora comunicare con alcuni movimenti delle labbra e degli occhi In particolare risponde efficacemente alle domande a risposta chiusa. È' in grado inoltre di pronunciare brevi frasi ben comprensibili se si avvicina il proprio orecchio alla sua bocca. Pertanto ho potuto prendere piena conoscenza delle sue volontà. A quanto di seguito descritto sono presenti Schett Wilhelmine, Carla Welby, Marco Pannella, Marco Cappato. Pertanto come richiesto dal sig, Welby procedo come di seguito riportato». In tale diario si descrive minuziosamente le varie fasi dell'intervento nei termini già precedentemente riferiti in sintesi e costituite essenzialmente nella somministrazione di sedativo «e nel contempo nel distacco del ventilatore meccanico del paziente, procedendo ad un monitoraggio delle principale funzioni vitali a partire dalle ore 22:55 sino al momento del decesso, constatato alla ore 23:40, sempre del 20-12-06». Tale verbale veniva, poi, sottoscritto a conferma del suo contenuto dalle persone che erano state presenti fino all’ultimo, ovvero dalla moglie, dalla sorella e dai due parlamentari sopra citati.
D'altra parte l’on. Marco Cappato, sentito dalla Pg sul punto, confermava anche oralmente quanto affermato dall'imputato (v. verb. 21-12-06, Quest. Roma).
Inoltre, l’accertamento medico-legale e chimico disposto dal Pm sulla salma della vittima si concludeva nel senso di fornire ulteriori riscontri alla ricostruzione dei fatti sopra operata, in quanto:
«l’esame necroscopico ha permesso di constatare che la diffusione della distrofia muscolare sofferta dal sig. Welby e l’entità della sostituzione da parte del tessuto fìbro-adiposo di quello muscolare, estremamente marcata, il che giustifica la evidente ipotrofia delle masse muscolari e permette di affermare che il soggetto era affetto da una gravissima compromissione della sua funzione motoria volontaria carico dei vari distretti corporei»;
● «èpossibile affermare che l'irreversibile insufficienza respiratoria sia da attribuire unicamente all'impossibilità dell'uomo di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui loìstesso era affetto»;

● «il decesso è stato causato da un danno ipossico ischemico sistematico conseguente ad un gravissimi distress respiratorio con danno alveolare diffuso, indice di una gravissima ed irreversibile insufficienza respiratoria»;
● le sostanze sedative somministrate dal dottor. Riccio, ovvero il Propofol ed il Midazolan, non hanno inibito la funzione respiratoria, poiché la quantità somministrata di Propofol «può essere considerata inefficace a produrre depressione respiratoria» e per quanto riguarda «il Midazolan a dosaggio ipnotico è senza effetto sulla respirazione nel soggetto normale. Pertanto le concentrazioni dei farmaci somministrati sono risultate tali da non poter loro attribuire un qualsivoglia ruolo causale o concausale di rilevanza penale nel determinismo del decesso»; in ogni caso la presenza di quest’ultimo farmaco, indicato dal dott. Riccio come uno dei due sedativi somministrati al paziente, non veniva neppure riscontrato nei tessuti di quest’ultimo a causa evidentemente della sua esigua concentrazione;
● «è possibile affermare che l’irreversibile insufficienza respiratoria sia da attribuire unicamente all’impossibilità dell’uomo di ventilare meccanicamente in maniera spontanea a causa della gravissima distrofia muscolare da cui lo stesso era affetto»;
● «l’insufficienza respiratoria»
conseguente al distacco dal polmone meccanico «si à instaurata in un periodo di tempo non molto prolungato, quantificabile in alcune decine di minuti».
Pertanto nella relazione tecnica si dava atto dello stadio gravissimo a cui era giunta la patologia sofferta dal defunto e delle cause del decesso, costituite unicamente dalla grave insufficienza respiratoria, dovuta alla sua impossibilità di respirazione autonoma quando si era proceduto al distacco del ventilatore meccanico. Inoltre si escludeva che vi fossero state delle complicanze conseguenti alla somministrazione da parte dell'anestesista dei suindicati farmaci a scopo sedativo.
Alla luce di tali acquisizioni, in data 5-3-07, il Pm richiedeva l’archiviazione, in linea con l’orientamento assunto dalla Procura della Repubblica di Roma nella procedura d'urgenza attivata presso il Giudice civile, ritenendo non rilevante penalmente la condotta del Riccio, in quanto egli aveva agito solo in ossequio della richiesta di interruzione della terapia formulata dal paziente, che a sua volta aveva esercitato un suo diritto riconosciuto e tutelato pienamente dall’ordinamento giuridico italiano.
Il Gip, cui perveniva la suindicata richiesta, invece andava di contrario avviso e, fissata la relativa camera di consiglio, concludeva, imponendo al Pm di formulare l’imputazione nei confronti del Riccio per omicidio del consenziente.
Va detto innanzitutto che la suindicata ricostruzione dei fatti appare fondata su dati probatori certi, perché suffragati da diverse testimonianze incrociate, peraltro rese da persone legate alla vittima e, pertanto, prive di un interesse personale a sostenere la difesa dell’imputato.- Le testimonianze, in particolare quella assai utile della moglie, appaiono dettagliate, esaustive, coerenti, logiche, prive di condizionamenti fuorvianti e riscontrate non solo tra loro, ma anche dai dati fattuali e dalla relazione medico-legale per la parte afferente l’epilogo della vicenda in esame. L’accertamento tecnico disposto dal Pm, poi, appare confermare punto per punto la relazione scritta dall’imputato Mario Riccio, in cui descrive il suo intervento presso il paziente, nonché le dichiarazioni rese, peraltro sempre con intrinseca coerenza, dal medesimo nelle diverse sedi.
Poi, fatto certamente assai inusuale, entrano prepotentemente come contributo essenziale nella ricostruzione dei fatti le affermazioni della stessa ritenuta vittima ovvero le riflessioni di Piergiorgio Welby, precedentemente riportate, che, in ragione del loro contenuto, chiariscono importanti punti della vicenda. Sulla autenticità e totale riconducibilità di tali dichiarazioni al Welby è la moglie a fornire ogni chiarimento nel corso dell’audizione davanti al Gup. Infatti, in quella sede ella affermava che il marito aveva sempre scritto personalmente tutto, «aveva una tastierina virtuale dove poteva muovere con il dito il cursore», e che in particolare nel libro “Lasciatemi morire” erano stati raccolti dall’editore alcuni degli interventi e delle riflessioni del marito che egli aveva diffuso su siti propri e dell’associazione “Luca Coscioni”, nonché sul forum intitolato “Eutanasia”, nel corso degli anni, dal 2002 fino al giugno 2006, ovvero fino a quando la malattia glielo aveva consentito. Quanto poi alla lettera indirizzata al Presidente della Repubblica nel settembre 2006 la moglie riferiva che egli non le comunicò precedentemente neppure l’intenzione di scrivere a tale autorità «ha fatto sempre tutto da solo» e dopo avere scritto «me lo comunicò: “ho scritto al Presidente”, lessi la lettera e dissi: - Piero, questo adesso rende tutto pubblico, ti rendi conto di cosa ti succede? Che qui non puoi più decidere da solo in qualsiasi maniera-.
Insomma ero molto perplessa», ma lui insistette e disse: ''non mi interessa più per me, mi interessa tutto quello che ho fatto, tutto quello che ho fatto non deve andare perso”. Io capii che lui mi parlava da uomo politico e non era soltanto il mio Piergiorgio e che qui lo dovevo assecondare, dovevo stare a quello che voleva lui, fino infondo e allora rio detto: -Piero, ci facciamo coraggio-».
È pertanto chiaro che il contenuto degli scritti del predetto sia attribuibile solo a quest'ultimo e sia frutto, quindi, di sue personali e sofferte riflessioni, nonché di decisioni prese In totale autonomia; comunque una considerazione va fatta anche sulla "politicità" della condotta di Piergiorgio Welby, che nell'occasione della redazione della lettera al Presidente ed in altri analoghi momenti di esternazione, pm che da un'urgenza di natura squisitamente politica, appare animato dalla necessità di dare un senso alla propria sofferenza, altrimenti sorda e senza speranza, e di dare una più alta finalizzazione ad una esperienza personale, altrimenti inutile, perché naturalmente proiettata solo alla morte fisica dell’individuo. Sembra, infatti, leggersi in una tale condotta una precisa volontà dell’uomo di mettere a] servizio degli altri la personale esperienza affinché la propria sofferenza potesse almeno servire come occasione di riflessione per stimolare gli organi competenti a dare soluzioni più rispettose dei diritti dei malati e potesse quindi servire a recare sollievo a persone che si fossero trovate nelle sue stesse condizioni. Con ciò improntando, pertanto, lai propria condotta, pur nella durezza dei momenti vissuti, ad una visione di generosa apertura agli altri «tutto quello che ho fatto non deve andare perso», come a dire: tutto ciò deve pur servire a qualcun altro, solo così posso dare un senso alla mia sofferenza che altrimenti mi schiaccerebbe con il suo mutile peso.
Per quanto riguarda la pronuncia emessa in sede civile dal Giudice presso il Tribunale di Roma va innanzi tutto precisato che anche quella Ag, pur misurandosi con un oggetto decisionale ovviamente diverso, si è dovuta confrontare con i medesimi principi costituzionali e con i medesimi principi generali dell’ordinamento giuridico che anche in questa sede devono essere considerati.
In particolare, il Giudice civile, con ordinanza depositata in data 16-12-06, dichiarava il ricorso ex art. 700 c.p.c. integralmente inammissibile (non procunciandosi, pertanto, sulla richiesta di distacco dal ventilatore polmonare formulata da Piergiorgio Welby) in quanto:
a) pur riconoscendo la sussistenza nel nostro ordinamento giuridico del principio di rango costituzionale all’«autodeterminazione individuale e consepevole» in materia di trattamento sanitario, tale AG riteneva hce la sua attuazione pratica, in caso di rifiuto o di interruzione di terapie di mantenimento in vita del paziente, non fosse possibile in assenza di una normativa specifica, atteso che la legislazione positiva si orienta, anzi, in senso contrario, rispondendo essa al principio della indisponibilità della vita umana, alla luce di quanto disposto «dagli artt, 5, c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p.,., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio»;
b) anche se si deve dare atto che «il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della persona, esso tuttavia sul piano dell’attuazione pratica lascia il posto all’interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di concetti, sì, di altissimo contenuto morale e di civiltà, ma che sono indeterminati ed appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall'intervento del Giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai principi generali dell'ordinamento»;
c
) conseguentemente “il diritto del ricorrente di richiedere l'interruzione della respirazione assistita deve ritenersi sussistente, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento giuridico, in altri termini in assenza di una previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato “accanimento terapeutico”, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell’azione da far valere nel giudizio di merito con inammissibilità dell’azione cautelare” esercitata dal Welby.
Tali conclusioni inducono a fare alcune considerazioni: la prima è che quando si riconosce resistènza di un diritto di rango costituzionale, quale quello air«autodeterminazione individuale e consapevole» in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario, quali «gli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, e 575, 576, 577, n. 3, 579 e 580, c.p., che puniscono, in particolare, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio», nonché quali gli artt. 35 e 37 del codice di deontologia medica. In realtà, se si accogliesse una tale conclusione, potremmo incorrere in una palese violazione dei principi che presiedono alla disciplina della gerarchia delle fonti, in quanto non è consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla scorta dell'esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore, perché delle due è l’una: o si privilegia r interpretazione che faccia salvo il principio costituzionale con immediata applicazione di quest’ultimo, disattendendo l’interpretazione contraria della norma, (sul punto la Corte costituzionale si è più volte pronunciata negando la fondatezza della questione di costituzionalità eventualmente sollevata nel caso specifico, perché il Giudice tra interpretazioni diverse avrebbe dovuto privilegiare quella conforme alla norma costituzionale immediatamente applicabile, potendo autonomamente disattendere itnerpretazioni di segno diverso a quest’ultima; vedi al riguardo ad esempio: sent. 6.7.01, n. 224; ord. 4.7.02, n. 315) oppure, in caso di insuperabile conflitto, si deve sollevare questione di legittimità costituzionale, ma certamente non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senzatutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende. D'altra parte neppure il Giudice civile nella sua motivazione ha mai ritenuto di poter invocare esplicitamente a sostegno della propria decisione quella teoria, ormai desueta e superata da univoca giurisprudenza costituzionale e di legittimità, per la quale le disposizioni costituzionali si suddividono in norme programmatiche, ovvero non immediatamente applicabili senza normazione attuativa di tipo secondario e sostanzialmente non cogenti, ed in norme procettive, ovvero immediatamente applicabili. D’altra parte è impossibile sostenere una ineffettività del principio costituzionale di cui all’art. 32, co. 2, Cost., alla cui immediata precettività, anzi, lo stesso legislatore ordinario si vincolava, quando per costringere taluno, anche se incapace di intendere e di volere, a sottoporsi ad un trattamento sanitario riteneva di emanare una apposita legge (1. n. 180/78), Se da un punto di vista formale appare del tutto arduo operare una comparazione tra una previsione costituzionale ed una legge ordinaria, ciò appare ancora più difficile se il confronto viene fatto con una norma contenuta in un codice di deontologia professionale, soprattutto quando si arrivi ad affermare, poi, la prevalenza di quest'ultima. Oltre al fatto che ciò non è sostenibile neppure da un punto di vista sostanziale, poiché nelle stesso codice di deontologia medica si dice una cosa ben diversa all'art. 37, che appare direttamente applicabile alla fattispecie in esame: «in caso di malattia a prognosi sicuramente infausta o pervenuta alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all’assistenza morale e alla terapia atta a risparmiane inutili sofferenze», mentre quanto riferito all'art. 35- «anche su richiesta del malato il medico non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte» - appare essere una affermazione di principio del tutto generica, contemperata poi da previsioni riferite a casi particolari, come è appunto il caso previsto dall'art. 37 dello stesso codice deontologico, codice che altrimenti conterebbe al suo intemo elementi di insuperabile contraddittorietà. In ogni caso l’azione di interruzione di una terapia non può essere concettualmente assimilata all’espletamento di «un trattamento diretto a provocare la morte» del paziente, poiché la prima costituisce mera cessazione di una terapia precedentemente somministrata mentre il secondo è l'attivazione ex novo di un intervento terapeutico finalizzato ai decesso del paziente. Quanto poi all'ulteriore previsione contenuta nell'art. 37 e riguardante anche l'obbligo per il medico di «proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile», essa è esplicitamente riferita al «caso di compromissione dello stato di coscienza» del paziente, che è ipotesi del tutto diversa rispetto al caso in esame, nel quale Piergiorgio Welby è stato fino all’ultimo cosciente.
D’altronde, che non si possa arrivare a conclusioni diverse è autorevolmente confermato dall’esito del procedimento instaurato dalla competente Commissione discliplinare dell’Ordine dei Medici di Cremona che, in data 1-2-07 e con riferimento ai fatti in esame, chiudeva l’istruttoria preliminare, escludendo che a carico del dottor Riccio ci fossero i presupposti per aprire un procedimento disciplinare e rilevnadone la piena conformità di condotta con le norme di deontologia preposte all’esercizio della professione medica.
Inoltre, identificare il contenuto del diritto air autodeterminazione informata del malato come diritto a far cessare l'accanimento terapeutico appare un modo di procedere non condivisibile, ciò proprio per le ragioni rappresentate dallo stesso Giudice civile. Infatti, secondo tale AG, allo stato della legislazione, nessuno è in grado di dare una definizione di accanimento terapeutico e descrivere in cosa consista. Pertanto individuare il contenuto di im diritto soggettivo facendo riferimento ad im concetto giuridicamente inesistente, quale è, allo stato, quello dell'accanimento terapeutico, e facendo riferimento a quella che anche nella realtà è un'esperienza variegata e di difficile definizione, appare essere un'operazione opinabile perché costruita su parametri concettuali di riferimento non definiti ne definibili (sarebbe come dire che il contenuto di un diritto consista in qualcosa che non si è in grado di sapere cosa sia); inoltre, essa si rivelerebbe un'operazione inconcludente, perché destinata a finire con un nulla di fatto, disattendendo, conseguentemente, lo stesso precetto costituzionale e lasciando senza tutela giuridica il diritto soggettivo da esso direttamente promanante. Invece la previsione costituzionale appare godere di una sua precisa autonomia concettuale, in quanto in essa non si rinviene alcun riferimento letterale o interpretativo che possa rimandare al cosiddetto “accanimento terapeutico” (esperienza, per giunta, del tutto estranea all’epoca di redazione del testo costituzionale), non avendo il legislatore costituzionale (direttamente o indirettamente) posto limiti all’esercizio del riconosciuto diritto soggettivo che possano passare attraverso un tale concetto. Pertanto, a parere di questo Giudice, l’esercizio del diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, allo stato della legislazione, non ha come presupposto necessario la sussistenza di una situazione riponducibile ad una condizione qualificabile come accanimento terapeutico.
Non va inoltre dimenticato che, se è vero, come lo stesso Giudice civile ha indicato, che l’intervento del medico a favore del paziente debba essere giuridicamente giustificato in ragione dell’esistenza di uno stato di necessità, è altrettanto vero che nel nostro ordinamento giuridico non è rinvenibile alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire prescindendo dalla volontà del paziente. Infatti lo stato di necessità, quale causa oggettiva di esclusione del reato, non impone alcun obbligo di intervento ma si limita ad escludere rilevanza penale della condotta del medico che intervenga a favore della sopravvivenza del malato, anche senza avere acquisito il consenso di quest'ultimo. Se ciò è vero nel caso di assenza di consenso, a maggior ragione non esiste alcun obbligo giuridico per il medico di intervenire se il paziente stesso abbia addirittura espresso il proprio dissenso informato.
La decisione del Giudice penale, invece, seguiva in data 7-6-07 alla richiesta di archiviazione del PM, che con quella richiesta aveva motivatamente ribadito la posizione della Procura sulla vicenda, con i medesimi argomenti sostenuti già in sede civile.
Nell'ordinanza di rigètto della richiesta di archiviazione, con contestuale imposizione dell'imputazione contro Riccio Mario per il reato di omicidio del consenziente, il GIP individua nei seguenti punti il suo percorso decisionale :
a) rincontestabile esistenza di un principio alla libertà di cura sancito dall’art. 32 Cost. comporta conseguentemente, secondo il GIP, che di esso «debba essere data attuazione anche in assenza di una specifica normativa, con il solo limite degli altri diritti costituzionalmente garantiti Tra essi deve essere ovviamente compreso il diritto alla vita». Tra questi diritti non esiste un rapporto di gerarchia o di incompatibilità sostanziale, ma devono essere «armonizzati», senza che, però, «l’assenza di una disciplina normativa» comporti «l'impossibilità di dare attuazione al diritto del paziente di rifiuto di cure, quando da tale rifiuto ne derivi la morte». Secondo tale AG, pertanto, la necessità di bilanciamento dei diversi principi in questo campo «comporta che sia rimessa al Giudice l’interpretazione o meglio l’individuazione della regola di interpretazione da adottare nel caso specifico»;
b) in ottemperanza al criterio procedurale di valutazione caso per caso da parte del Giudice, il Gip procedeva a tale operazione, ritenendo che “il diritto alla vita nella sua sacralità, inviolabilità ed indisponibilità costituisca il limite per tutti gli altri diritti, che, come quello affermato dall’art. 32, Cost., siano posti a tutela della dignità umana”. L’espressione di una prevalenza del diritto alla vita, in ogni caso, si rinviene, secondo il Gip, nell’ordinamento giuridico nella previsione dei reati di cui agli artt. 579 e 580, c.p., nonché nel divieto sancito dall’art. 5, c.c.;
c) nel caso di specie non vi è stato alcun accanimento terapeutico, in quanto non era stata applicata alcuna terapia in senso stretto, non essendo qualificabile come terapia il mero sostegno vitale costituito dall’applicazione del ventilatore meccanico;
d) il GIP afferma, poi,”la necessità di una disciplina normativa che preveda delle regole alle quali attenersi in simili casi, fissando in particolare il momento in cui la condotta del medico rientri nel divieto di accanimento terapeutico; ma, in assenza di disciplina, il principio di cui all'art 32, Cost., non può essere riconosciuta un estensione tale da superare il limite insuperabile del diritto alla vita”, ed inoltre “il timore evocato dal Giudice civile sulla possibilità che l’atutazione di un diritto, in assenza di una disciplina normativa, sia rimessa alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta si è rivelato fondato” ed in particolare le “modalità adottate per dare attuazione al diritto di interrompere la terapia di ventilazione artificiale sono discutibili anche sotto il profilo etico”;
e) sussiste nel caso in esame, secondo il Gip, il reato di cui all’art. 579 c.p., con riferimento sia all’elemento oggettivo della condanna, sia all’elemento soggettivo del dolo, e segnatamente sotto quest’ultimo profilo tale AG rileva che era stato lo stesso Riccio, incurante della decisione del Giudice civile e rispondendo più a motivazioni di carattere politico, a farsi avanti per interrompere la terapia al Welby, senza essere il suo medico curante e sulla base di un rapporto professionale “del tutto superficiale”.
Alla luce di quanto sopra riportato, appare evidente come il Gip, che era andato oltre la posizione sostenuta dal Giudice civile (affermando che, anche in assenza di normativa specifica, al principio costituzionale della libertà di cura doveva essere data immediata attuazione) abbia poi impresso al suo pensiero un’inversione di direzione, concludendo, invece, che per poter dare concreta attuazione all’art. 32, co. 2, Cost., sia, comunque, “necessaria una disciplina normativa che preveda delle regole alle quali attenersi in casi simili”, in tal modo non distinguendo la propria posizione, nell’approdo finale, da quella assunta dal Giudice civile, del quale, anzi, arrivava a condividerne i timori in ordine al fatto che, in assenza di una normativa, l’attuazione del diritto in questione “sia poi rimessa alla totale discrezionalità di un qualsiasi medico”.
Oltre a rilevare una certa discontinuità motivazionale che, date alcune premesse, deve essere superata attraverso i conseguenti passi all’interno di un coerente percorso logico, in realtà non è neppure condivisibile l’opinione secondo la quale il timore del Giudice civile nel caso in esame si sia rivelato fondato. Infatti, al medico spetta solamente dare attuazione alla richiesta del malato, oppure disattenderla ove riscontrasse l’assenza delle condizioni di cui si parlerà in seguito. Relativamente invece alla “discrezionalità, cioè la scelta di rifiutare o di interrompere o meno la terapia, essa spetta e deve essere esercitata (come è avvenuto nel caso in esame secondo l’approfondita ricostruzione dei fatti sopra effettuata) unicamente dal titolare del diritto e segnatamente dal paziente. È nnegabile che in questo caso il medico si è limitato a controllare la sussistenza di una richiesta consapevole ed informata in Piergiorgio Welby e, soltanto dopo, ha proceduto ad interrompere la terapia, così come gli era stato richiesto. In tutto ciò non risulta essere stata esercitata alcuna discrezionalità da parte dell’imputato Riccio, essendosi egli limitato ad eseguire con scrupolo e precisione la volontà del paziente, nonché tutte le sue indicazioni, anche sotto il profilo delle modalità e dei tempi di attuazione. Infatti se il medico avesse effettivamente riservato a sé un autonomo spazio decisionle in assenza o addirittura in contrasto con la volontà del paziente, trattandosi di un caso di interruzione di terapia salvavita, il GIP avrebbe dovuto chiedere coerentemente l'imputazione coatta per omicidio volontario e non per omicidio del consenziente, come in realtà faceva. In tal modo il GIP ha riconosciuto che, in ogni caso, la condotta del medico non era stata mossa da una scelta “discrezionale”, bensì essa si era strettamente attenuta alla volontà del paziente.
Sulla conclusione, poi, che non sia rinvenibile nel caso in esame un’ipotesi di accanimento terapeutico si può essere d’accordo, ma per motivi diversi da quelli indicati dal Gip. Infatti il mantenimento della terapia di ventilazione assistita, nonostante il dissenso del malato, non può essere giuridicamente qualificato come accanimento terapeutico – qualunque contenuto si voglia attribuire a questo concetto-, bensì come violazione di un diritto del paziente, costituzionalmente garantito, che aveva espresso la sua volontà consapevole ed informata di interruzione della terapia in atto" ( conformemente cass. 29.5.02, Volterrani, n. 26446, come meglio di seguito indicato ). In verità l'assenza, nel caso in esame, di un'ipotesi riconducibile alla nozione di accanimento terapeutico non sposta minimamente i termini della questione, poiché non è l'esistenza dell'accanimento terapeutico a connotare di legittimità la condotta del medico che lo faccia cessare; bensì è la volontà espressa dal paziente di voler interrompere la terapia ad escludere la rilevanza penale della condotta del medico che interrompa il trattamento.
Non può escludersi, inoltre, come ha fatto invece il GIP, nei confronti della ventilazione assistita la natura di terapia sol perché attinente «al sostegno di funzioni vitali», poiché altrimenti anche un'operazione al cuore, pur complessissima, non potrebbe essere qualificata come intervento terapeutico, in quanto anch'essa effettuata a sostegno di una funzione vitale quale è indubbiamente quella svolta dal muscolo cardiaco. Va, invece, certamente qualificata come terapia, o comunque come trattamento sanitario, Fattività di ventilazione meccanica cui era stato sottoposto Piergiorgio Welby dopo un intervento assai invasivo quale è un'operazione di tracheotomia. Trattasi infatti di induzione artificiale della respirazione tramite l'azione di una macchina, alla quale Piergiorgio Welby doveva rimanere costantemente attaccato, ed in ragione della quale egli doveva essere quotidianamente sottoposto a terapie antibiotiche che scongiurassero l'insorgere di infezioni dello stoma e del canale di inserimento, con contestuale asportazione del muco generatosi per T induzione meccanica della respirazione. Pertanto il predetto, chiedendo il distacco dal polmone artificiale, ha effettivamente esercitato il suo diritto di interrompere un trattamento sanitario, come individuato dalla norma costituzionale, non essendo diversamente qualificabile l’induzione artificiale della respirazione per i motivi sopra rappresentati.
Non è neppure rilevante, sotto il profilo della configurabilità del reato! contestato all'imputato, che il dottor Riccio fosse o non fosse l'abituale medico curante di Piergiorgio Welby. Va infatti rilevato che, in ogni caso, si era instaurato un preciso rapporto tra i due, finalizzato ad un intervento a contenuto sanitario ben individuato | dal medico e dal paziente, ovvero il distacco dal respiratore artificiale con la contestuale somministrazione di sostanze sedative. Tali sostanze potevano essere somministrate (nella qualità, nella misura, nella loro reciproca combinazione e nella loro interazione con la malattia sofferta dal paziente) solo da uno specialista anestesista, come ebbe ad indicare lo stesso medico curante del Welby, dottor Sciarra, quando, alla richiesta del suo paziente di interrompere la ventilazione assistita, gli rispose che avrebbe potuto certamente staccarlo dalla macchina, ma che, quanto alla sedazione, lui non era in grado, essendo necessario al riguardo uno specialista anestesista. D'altra parte non è necessario per T instaurazione di un rapporto di questo tipo che il medico sia quello che ha il paziente in cura da tempo, poiché si può creare la necessità, ad esempio, di un consulto di uno specialista su un singolo problema emergente. Ad esempio, può avvenire che un paziente si rivolga ad un medico ortopedico, quando per disavventura si fratturi inaspettatamente una gamba, oppure che, dopo essersi rotto una gamba, il paziente vada da un diverso ortopedico rispetto a quello cui si era rivolto precedentemente solo per avere, ad esempio, conferma della giustezza delle indicazioni di quest'ultimo. Si può forse escludere in tali casi resistenza di un preciso accordo terapeutico tra paziente e medico?
Pertanto l’esistenza del rapporto tra medico e paziente prescinde dalla durata del rapporto stesso e dall’esistenza di una cura in corso, sempre sia chiaro l’oggetto della richiesta del paziente ed esso considsta in una prestazione di carattere medico, come è avvenuto nel caso in esame. Né rilevante appare essere il rapporto instaurato tra Piergiorgio Welby ed il dottor Riccio sia stato “un rapporto professionale del tutto superficiale”, in quanto superficiale o meno esso è comunque un rapporto professionale tra medico e paziente. La superficialità del dottor Riccio, poi, è tutta da dimostrare, atteso lo scrupolo con il quale l’anestesista ha proceduto, come dimostrano il verbale del suo intervento e le conclusioni della consulenza tecnica disposta dal Pm. In tali conclusioni i consulenti danno atto che la somministrazione dei sedativi è stata effettuata dal medico nella qualità e nella misura tali da non interferire con la patologia sofferta dal paziente, non inducendo la morte di quest'ultimo, ma solo consentendo l'efficace sedazione del malato, al fine di scongiurare in quest'ultimo ogni sofferenza che il distacco dalla macchina avrebbe causato con l'inevitabile instaurarsi della sindrome da soffocamento.
Infine, non sembra individuabile alcuna specifica indicazione normativa che possa direttamente o indirettamente far ritenere che l’esercizio del diritto soggettivo di rifiuto delle terapie mediche debba essere subordinato ad una valutazione preventiva e caso per caso di un Giudice. Infatti, laddove il legislatore ha voluto garantire l’esercizio corretto e consapevole di alcuni diritti di problematica valutazione etico-sociale o nei casi di contrasto di opposti interessi oppure quando ha inteso tutelare le e. d. figure "deboli", egli ha sempre dovuto prevedere esplicitamente specifiche scriminanti procedurali, rispetto alle quali è stato inserito il Giudice in qualità di figura di garanzia, come ad esempio è avvenuto nei caso del diritto di abortire riconosciuto alla minore.
Quale Giudice, quando e come possa esercitare un tale compito in questa materia rimangono, infatti, tutte domande senza risposta, che non consentono pertanto di seguire la strada indicata dal GIP.
Appare necessario, prima di andare oltre nell'affrontare ogni altra questione, chiarire che la dimensione etica in senso stretto, ovvero se non richiamata direttamente o indirettamente in concetti giuridici, non può far parte di questa disamina; pertanto concetti come "sacralità" del diritto alla vita oppure valutazioni sotto il profilo meramente etico della condotta dell'imputato non possono avere cittadinanza nelle argomentazioni di questo Giudice, che deve \ rigorosamente mantenere separate le proprie personalissime scelte etiche rispetto /^all'esercizio della funzione giurisdizionale.
Esula dal mondo giuridico ed esula pertanto anche dalle argomentazioni di questo Giudice, ad esemtóo, il concetto di "sacralità'' del diritto alla vita. Quest'ultimo, infatti, pojrà essere "inviolabile", "indisponibile", ma non "sacro", qualità, questa, che rimanda al fatto che esso debba essere letteralmente oggetto di 'Venerazione", di "adorazione" in quanto partecipe della natura divina, e che attiene conseguentemente al mondo della religione.
I percorsi logici seguiti dai predetti Giudici, pur con le loro diversità, hanno evidenziato, a parere di questo Gup, delle discontinuità motivazionali, che impongono conseguentemente, proprio lì dove si sono evidenziate, di intraprendere un percorso diverso, partendo, comunque, da un dato di fondamentale importanza e comune alla riflessione di entrambi i Giudici e dei PM che sono intervenuti nella vicenda in esame, costituito dal riconoscimento dell'esistenza di un diritto della persona a rifiutare o interrompere le terapie mediche, discendente dal principio enunciato dal secondo comma dell'art. 32, Cos., secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
L’affermazione della Carta costituzionale del principio sancisce l’esclusione della coazione in tema di trattamenti sanitari (e quindi della necessità del consenso del malato) ha come necessaria consecuzione il riconoscimento anche della facoltà di rifiutare le cure o di interromperle, che, a sua volta, non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di un obbligo a curarsi a carico del soggetto. Infatti la salute dei cittadini non può essere oggetto di imposizione da parte dello Stato, tranne nei casi in cui l’imposizione del trattamento sanitario è determinato per legge, come sostiene anche la dottrina, in conseguenza della coincidenza tra la salvaguardia della salute collettiva e della salute individuale, come avviene, ad esempio, nel caso delle vaccinazioni obbligatorie.
Il diritto al rifiuto dei] trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all'art. 2 Cost,, e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost.
Esso risulta inoltre confermato, nella sua portata di diritto della persona, anche a livello intemazionale nella convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, ratificata con legge 28-3-01, n. 145, che all'art. 5 prevede che «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato. La persona interessata può, m qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso». Di tale convenzione, seppure non sia ancora in vigore nel nostro ordinamento per non essere stata perfezionata la relativa procedura internazionale di notificazione della ratifica, non può non tenersi conto, anche oggi, almeno come criterio di interpretazione per il Giudice. Ciò per due ordini di motivi: il primo, perché è stata sottoscritta dall'Italia ed anche ratificata con legge dello Stato; il secondo, perché essa enuncia principi conformi alla nostra Costituzione, rappresentando una chiara esemplificazione di quest'ultima.
La Corte Costituzionale nei suoi interventi ha chiarito al riguardo la natura, i contenuti e l'efficacia del diritto in argomento. In particolare:
- con sentenza n, 45/65 ha affermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che «i principi fondamentali di libertà», tra cui rientra a pieno titolo quello sancito dall'art. 32, comma 2, Cost., debbono «essere immediatamente immessi nell’ordinamento giuridico con efficacia erga omnes»;
- con sent. n. 161/85 ha ritenuto che l’intervento chirurgico di disposizione del proprio corpo, se effettuato in conformità al diritto alla salute, enunciato dall'art. 32, Cost., intesa quest'ultima come equilibrio tra gli aspetti fisici e psichici della persona, è consentito, prevalendo il suindicato articolo della Costituzione sul divieto di cui all'art. 5 c.c.;
- con sent. n. 471/90 riconosce esplicitamente che la possibilità di disporre del proprio corpo costituisce un necessario postulato “della libertà personale inviolabile”, di cui parla la Costituzione all’art. 13;
- con sent. n. 238/96, infine, ha escluso categoricamente che una persona possa essere costretta a subire un intervento sanitario non voluto, in assenza di una norma che esplicitamente lo imponga, affermando che esso costituisce “diritto inviolabile rientrante tra i valori supremi, quale indefettibile nucleo \ essenziale dell'individuo, non diversamente dal contiguo e connesso diritto alla vita ed alla integrità fisica, con il quale concorre a creare la matrice prima di ogni altro diritto costituzionalmente protetto della persona”.
La Corte Costituzionale risponde, quindi, a tutti i questiti che l’interprete potrebbe porti nel caso in esame, in quanto chiarisce che il diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici è un diritto inviolabile della persona, immediatamente precettivo ed efficace nell’ambito del nostro ordinamento, non limitato dalla previsione dell’art. 5 c.c., e soprattutto rientrante “ tra i valori supremi” che l’ordinamento giuridico tutela a favore dell’individuo, non diversamente dal diritto alla vita con il quale concorre “a costituire la
matrice prima di ogni altro diritto» della persona. Di conseguenza la Corte ha anche chiarito la scala di priorità per T armonizzazione di un tale diritto con altri diritti, tra cui anche quello alla vita, nei confronti del quale non ha e non deve avere, nell'interpretazione del Giudice, una posizione subordinata.
In conclusione il quadro normativo delineato dalla Corte Costituzionale nel corso degli anni non lascia dubbi all'interprete, in quanto da esso discende con chiarezza che l'individuo può rifiutare trattamenti medici e la sua volontà consapevole deve essere] rispettata anche quando il rifiuto riguardi terapie salvavita e tutto ciò vale don solo nel rapporto tra Stato e cittadini, ma anche tra privati ovvero tra il paziente ed il uso medico, che dovrà attenersi alla volontà del malato come regola generale.
Sulla stessa linea interpretativa si impone anche la Corte di Cassazione, che ha elaborato nel corso degli anni una giurisprudenza di apertura alle predette problematiche, riconoscendo, ad esempio, nella sentenza 29.5.02, Volterrani, n. 26446 «che in una società ispirata al rispetto ed alla tutela della persona umana, portatrice di un patrimonio culturale e spirituale prezioso per l'intera collettività, non possa non darsi assoluta prevalenza al valore sociale dell'individuo» e ritenendo che devono essere posti al centro della tutela giuridica i suoi diritti fondamentali, tra cui anche quello promanante dal secondo comma dell'art. 32, Cost. in ragione del quale la Corte afferma l'assoluta «rilevanza della volontà del paziente quando si manifesti in forma inequivocabilmente negativa e si concreti in un rifiuto del trattamento terapeutico prospettatogli» ed in questo caso, pertanto, il medico <\Cass. 223.01, n. 731 ). Nella medesima sentenza la Corte escludeva, invece, per ogni intervento terapeutico la necessità dell'acquisizione del coosenso del paziente, in quanto in caso di presenza della volontà positiva dell'infermo il medico è tenuto ad ottemperare all'indicazione del paziente, mentre nel caso in cui non sia stato espresso alcun consenso il medico sarà legittimato a sottoporre il paziente al trattamento terapeutico che egli giudicherà necessario per la salvaguardia della salute dello stesso.
In altra più recente sentenza la Corte di legittimità, ( Cass. 19.5,04, Verzè, n. 14638/04 ) invece estende la prevalenza assoluta della volontà del titolare del diritto anche al caso di volontà positiva, che deve sempre essere acquisita preventivamente dal medico, informando il paziente e stimolandone le relative decisioni. In tale sentenza si afferma il primato assoluto della volontà del paziente non solo in caso di rifiuto o di interruzione della terapia, come avvenuto nella fattispecie in esame, ma anche per qualsiasi intervento sanitario del medico, argomentando che, indipendentemente dalla mancata esecuzione delle disposizioni della Convenzione di Oviedo nel nostro ordinamento per incompletezza della relativa procedura di ratificazione, tale principio discende inequivocabilmente dall'art. 32, comma 2, della Costituzione ( conformi: Cass. 25.11.94, n. 10014; Cass. ^4.9.97, n, 9374; Cass. 15,1.97, n. 364; Cass. 16.5.00, n. 6318).
Appare, quindi, evidente come, alla luce del dettato chiarissimo dell’art. 32,. comma 2, della Costituzione, nonché alla luce dell’interpretazione che di esso è stata data dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non possano, in nessuna sede, essere I disattesi il riconoscimento e la tutela del diritto air autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, diritto che contempla ovviamente anche il caso di rifiuto di nuova terapia e lo speculare caso di interruzione della terapia già iniziata. Infatti il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione. Per escludete invece un trattamento sanitario che si sostanzi in un cotenimento fisico dell’individuo soccorrerà, con conseguente duplice garanzia costituzionale, anche la disciplina assicurata dall’art. 13 Cost., che tutela la libertà personale dell’individuo contro ogni forma di coazione fisica.
Tutto ciò certamente non potrà essere vanificato dalla sistematica applicazione della scriminante di cui all'art, 54, c.p.., che potrà essere operativa, ma solo laddove non sia stata espressa alcuna volontà da parte del paziente oppure nel caso in cui il consenso, il rifiuto o la richiesta di interruzione di una terapia non siano stati esercitati liberamente ed alla presenza di una adeguata informazione, o che non abbiano le qualità della personalità, attualità, autenticità e della attinenza alla realtà.
In realtà in un tale scenario giuridico, proprio perché c'è assenza di una legge specifica che regolamenti la materia, eventualmente imponendo in alcuni casi il trattamento obbligatorio all’individuo che lo rifiuti, il diniego di sottoporsi a cure o la loro interruzione rappresenta una facoltà riconosciuta all'individuo che non può essere negata o ostacolata, sempre che sia stato preventivamente accertato che la volontà del soggetto sia stata espressa liberamente e con piena informazione. Alla luce di ciò appare, quindi, essere un falso problema quello attinente al bilanciamento del principio della libera autodeterminazione in materia di trattamento terapeutico con gli altri principi di rango costituzionale, come, ad esempio, quello alla vita od all’integrità fisica.
Pertanto, in caso di conflitto, il sistematico depotenziamento del primo in ragione della prevalenza del diritto alla vita non sarebbe giustificato da alcuna norma o principio neanche di rango costituzionale. Ma, se tali diritti, quello alla vita e quello alla autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, contribuiscono, entrambi e ognuno per la sua parte, a costituire il nucleo fondamentale dei diritti della persona che il nostro ordinamento riconosce e tutela, nel caso in cui tra loro entrino in collisione (apparente, secondo questo Giudice), quale dei due deve risultare prevalente, insomma verso quale soluzione porterebbe il relativo bilanciamento?
Partendo dal diritto alla vita, per essere già stato lungamente sviscerato quello all’autodeterminazione terapeutica, va detto che, pur non essendo esplicitamente enunciato nella Costituzione, nessuno è mai stato in grado di non ritenerlo alla base di qualsiasi disposizione costituzionale in materia di diritti della persona. Ciò non solo per una sua presunta derivazione giusnaturalistica, ma perché esso costituisce, insieme al diritto di cui all’art. 32, comma 2, Cost,, effettivamente il nucleo fondamentale cui si richiama ogni altro diritto riconosciuto alla persona. Vengono comunemente attribuiti al diritto alla vita i caratteri dell’inviolabilità e dell'indisponibilità, ma il primo lo connota nel senso di limite verso Testerò, il secondo come limite verso l’interno. Ovvero l’inviolabilità costituisce quella tenace difesa che l’ordinamento pone all'aggressione del diritto che possa provenire da persone diverse dallo stesse titolare -vengono, pertanto, sanzionate tutte le forme di soppressione della persona da parte di terzi nell'intera gamma contemplata negli articoli dal 575 al 580 del codice penale-; l'indisponibilità, invece, rappresenta quella difesa avanzata che l’ordinamento appronta anche contro lo stesso titolare del bene protetto.
Entrambi i caratteri hanno comunque come limite invalicabile l’autonomo ed equipollente diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario. In altre parole, se la disposizione del proprio corpo, finanche a determinare la propria morte, viene effettuata nell’ambito dell’esercizio del diritto di cui all’art. 32, comma 2, Cost., allora questa è consentita, proprio in ossequio a quest’ultima previsione costituzionale che attribuisce tale facoltà alla persona, salvo che non sia diversamente stabilito con legge ordinaria. In sostanza l'esercizio di un tale diritto da parte del titolare ha, per espressa e insuperabile previsione costituzionale, come suo unico limite quello specificamente contemplato da una norma di legge. Pertanto, la norma costituzionale, ponendo una stretta riserva di leege all'individuazione dei limiti da apporre al libero dispiegarsi del diritto di autodeterminazione in materia sanitaria, ha tracciato espressamente un'unica strada entro la quale solo il legislatore ordinario potrà bilanciare i diritti ed i diversi interessi in gioco, dettando le regole necessarie ed i confini al libero esercizio delle facoltà riconosciute alla persona, come peraltro ha già coerentemente fatio nel caso della previsione del ricovero obbligatorio nell'ipotesi di incapacità di intendere e di volere, con una specifica previsione di legge.
Non rientra nella riserva di legge di cui sopra, invece, la disposizione contenuta nell'art. 5 c.c., m quanto essa non disciplina i casi specifici di deroga al libero dispiegarsi della volontà dell’individuo in tema di terapie, ma si limita a prevedere un divieto di disposizione del proprio corpo di carattere generale che, proprio in quanto tale, non può non essere disatteso. Ciò in considerazione della sua estraneità ad una regolamentazione specifica della materia relativa al trattamento sanitario, trattandosi di norma che, se letteralmente intesa, porrebbe nel nulla la norma costituzionale, non solo nella sua accezione positiva di necessità del consenso ad interventi terapeutici invasivi. D’altra parte ciò appare essere in linea con quanto indicato nella pronuncia della Corte costituzionale sopra riportata, dove si afferma la prevalenza del principio previsto dall’art. 32 Cost. sulla disposizione contenuta dall’art. 5 c.c., (Sent. n. 161/85, Corte Cost.).
Da ciò consegue che anche la difesa approntata dall’ordinamento all’inviolabilità della vita deve cedere di fronte alla condotta del medico che possa metterla a rischio o addirittura pregiudicarla, se tale condotta sia stata posta in essere in ossequio alla volontà liberamente e consapevolmente espressa, sulle terapie cui sottoporsi o non sottoporsi, dallo stesso titolare del bene protetto.
E' importante, a questo punto, definire con rigore l'ambito entro il quale può essere esercitato il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, perché direttamente incidente sui principi della inviolabilità e dell'indisponibilità della vita e perchè qualsiasi scantonamento si tradurrebbe in una gravissima violazione in ragione dell'essenzialità del diritto su cui andrebbe
ad incidere. Infatti l'individuo nell'esercizio del diritto di autodeterminazione terapeutica potrebbe autorizzare anche condotte direttamente causative della sua morte.
L'ambito entro il quale l'individuo può autorizzare anche condotte direttamente causative della sua morte viene stabilito chiaramente dallo stesso legislatore costituzionale, quando afferma che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». Pertanto, tutto ciò che discende da tale principio in termini di necessario consenso o di possibile dissenso deve essere esercitato con riferimento ad un «trattamento sanitario», ovvero l'adesione o il rifiuto può riguardare solo una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e che può essere posta in essere unicamente da un soggetto professionalmente qualificato, come è, appunto, il medico, e sempre all’interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario instaurato tra quest’ultimo ed il paziente.
Pertanto rientrerà, ad esempio, nella previsione dell’art. 32, comma 2, Cost. l’ipotesi, volendo rimanere in tema, del distacco dal respiratore artificiale effettuato da un medico e non da un familiare o da un altro soggetto, poiché l’interruzione di una terapia, consentita dalla norma costituzionale, è quella che si pone all’interno di un rapporto terapeutico o comunque in stretta relazione con un trattamento sanitario. In ragione di ciò, gli attori del rapporto terapeutico instaurato sono, quindi, unicamente il medico ed il paziente. D’altra parte la lettera della norma è chiara “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario”, alla luce della quale l’esclusione dell’imposizione terapeutica ha come unici luoghi di estrinsecazione:
1) il rapporto tra lo Stato e la persona – basti pensare, ad esempio, a sperimantazioni, castrazioni e vaccinazioni obbligatorie, che il legislatore costituzionale vuole così scongiurare del tutto o ammettere solo per esplicita previsione di legge;
2) il solo rapporto terapeutico instaurabile tra privati, ovvero quello tra l'operatore sanitario ed il suo paziente, del quale essi rimangono gli unici attori a partire dal momento iniziale, quando per l’attivazione della terapia il medico ha bisogno del consenso del paziente e, fino alla conclusione, quando per l’interruzione del trattamento il paziente ha come suo unico interlocutore il medico, che ha il dovere di far cessare il trattamento sanitario non voluto.
In conclusione, tra privati, l’unico possibile scenario all’interno del quale può esercitarsi il dirimo di autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, in tutte le sue diverse manifestazioni, è il rapporto instaurato tra il paziente ed il suo medico e che ha come contenuto delle prestazioni sanitarie. (Ciò trova speculare corrispondenza con i doveri che incombono sul medico in ragione della sua professione, come meglio specificato nello stesso codice deontologico, in quanto egli nell’esercizio di quest'ultima deve improntare la sua azione al rispetto del principio della salvaguardia della vita del paziente, del quale dovrà sempre acquisire il consenso, sopperendo solo in sua mancanza con interventi di necessità ex art. 54, c.p., ( v, Cass. sopra citata), e del quale dovrà rispettare, ovviamente, anche la volontà di dissenso, che potrà consistere in up rifiuto di trattamenti o in una richiesta di interruzione della terapia precedentemente avviata.
E' evidente, pertanto, che solo su tale soggetto, qualificato in ragione della sua professione, e non su altri incomberà un dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, in ragione del rapporto instauratosi, che pone in relazione i due per l’espletamento di una condotta di natura sanitaria a contenuto concordato, con la conseguenza che, se egli dovesse porre in essere una condotta direttamente causativa della morte del paziente per espressa volontà di quest'ultimo, risponderà ad un preciso dovere che discende dalla previsione dell’art. 32, comma 2, Cost., mentre la stessa condotta posta in essere da ogni altro soggetto non risponderà ad alcun dovere giuridicamente riconosciuto dall'ordinamento, non essendo stata esercitata all'interno di un rapporto terapeutico, nei quale solo quale nascono e si esercitano diritti e doveri specifici, tra cui quelli di cui si discute.
D'altra parte non sfugge l'importante ruolo che al riguardo è in grado di svolgere il medico il quale, solidamente sorretto da valutazioni di carattere sanitario, nonché orientato dal proprio codice di deontologia professionale e vincolato allo stesso, è l’unico a poter garantire, da un punto di vista tecnico e da un punto di vista dell’osservanza dei principi e dei diritti, il rispetto nel caso concreto dei confini tra l’esercizio di una libera ed informata autodeterminazione del paziente ed arbitrii forieri di violazioni di diritti essenziali, quali quelli in gioco. Inoltre la sua figura è fondamentale nella costituzione del presupposto per l'esercizio del diritto, incidendo egli direttamente sul processo di formazione della volontà del paziente attraverso l’informazione di quest'ultimo. Di conseguenza non è possibile prescindere dalla sua figura nel concreto dispiegarsi del consenso o del dissenso informato del paziente.
È evidente che il rifiuto delle terapie rappresenta nell’esperienza comune, soprattutto se causativo della morte, un fatto eccezionale, in quanto è ben radicato nell’uomo l’istinto di conservazione e che in ogni caso la relativa manifestazione di volontà per essere valida deve possedere una serie di requisiti non sempre presenti, soprattutto nelle persone che si trovino a fruire di terapie salvavita e quindi in condizioni estreme. Tali requisiti si evincono, secondo la giurisprudenza e la dottrina, dalla Costituzione e dai principi dell'ordinamento giuridico e sono identificabili nel fatto che il rifiuto di una terapia o il rifiuto di continuarla deve innanzitutto essere personale, ovvero deve promanare dal titolare stesso del diritto alla vita che potrebbe essere pregiudicata o che sarà pregiudicata, in quanto a nessuno è consentito decidere della vita altrui senza incorrere nei divieti della legge anche penale. Pertanto, non potranno esercitare tale diritto per conto del malato il rappresentante legale del minore o dell'infermo di mente, in quanto egli ha titolo solo per effettuare interventi a favore e non in pregiudizio della vita del rappresentato, né hanno giuridicamente potere di rappresentanza in materia i familiari dell'interessato. Altro requisito del consenso o del dispenso è che per essere valido deve essere consapevole ovvero informato, incidendo esso su diritti essenziali dell'individuo. Infatti, quest'ultimo ne può disporre solo se pienamente consapevole ovvero informato, incidendo esso su diritti essenziali dell’individuo. Infatti, quest’ultimo ne può disporre solo se pienamente consapevole della sua condizione psico-fisica, delle prospettive evolutive della sua condizione e delle conseguenze che possono scaturire dalle sue scelte, purché altrimenti la sua volontà sarebbe viziata da elementi di conoscenza distorti o mancanti e quindi non libera. Inoltre, il rifiuto deve essere autentico ovvero non apparente, non condizionato da motivi irrazionali, ad esempio la paura, deve essere effettivamente attribuibile alla volontà del soggetto e quindi non frutto di costruzione o di suggestione di alcun tipo esercitata da terzi, nonché deve essere strettamente collegato a concrete situazioni personali del malato, ad esempio la sofferenza causata dal male o l’incurabilità della malattia, ecc, e non legato a superstizioni, pregiudizi o altro. È necessario, altresì, che il rifiuto sia reale e, segnatamente, sia compiutamente e chiaramente espresso e non sia semplicemente desumibile dalla condizioni di sofferenza o dalla gravità del male. Altro importante requisito allo stato della legislazione, è costituito dall’attualità del rifiuto, non essendo sufficiente che la persona abbia espresso precedentemente la sua volontà in tal senso, in quanto, attesi l’essenzialità dei diritti sui quali è destinato ad incidere ed il collegamento di tali decisioni a condizioni, anche interiori, mutevoli, il rifiuto di una terapia salvavita può essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato (giurisprudenza: Cass., 29.5.01, Volterrani, n. 26446; dottrina; Mantovani, Criminalia, 2006; Santuosso-Fiecconi, La nuova giurisprudenza civile commentata, 2005).
A questo punto, chiarito lo scenario giuridico entro il quale si colloca il caso in esame, si deve necessariamente procedere all’esame dei fatti oggetto del presente giudizio, valutando se la condotta dell’imputato, eziologicamente determinante, come concausa, nel decesso del paziente, che, senza l’ausilio del macchinario e a causa della sua malattia, cessava di respirare, sia penalmente rilevante o meno.
Certamente la condotta posta in essere dall’imputato integra l’elemento materiale del reato di omicidio del consenziente, in quanto, oltre all’effettiva sussistenza del dato estrinseco del consenso della vittima, il distacco di quest’ultima dal respiratore artificiale effettuato dal predetto determinava il suo decesso dopo poco.
Né vale a tal riguardo sostenere che, invece, il medico si limitava a non proseguire la terapia in ottemperanza della volontà espressa dal paziente, ponendo in essere una condotta semplicemente omissiva, poiché tale interpretazione, che giudice alle stesse conclusioni circa la liceità della condotta seppure per una strada diversa e con qualificazione diversa del relativo proscioglimento, appare essere il risultato di una costruzione giuridica che finisce per forzare la realtà dei fatti. E', invece, ravvisabile nell'atto del distacco del respiratore una innegabile condotta interventista, che non può essere assimilata, e non solo dal punto di vista naturalistico, alla condotta, essa si, omissiva del medico che si limiti a non iniziare una terapia non voluta dal paziente. Ciò è tanto vero che se si volesse criminalizzare quest’ultimo comportamento, nonostante la sussistenza della dichiarazione conforme del malato, si dovrebbe individuare una fattispecie penale diversa dall'omicidio del consenziente, come, ad esempio, quella dell’omissione atti d'ufficio per ragioni di sanità e, nel caso di morte del paziente, quella di cui all’art, 586, c.p., con disparità di trattamento concettualmente non giustificabile. Seguendo una tale interpretazione sii avrebbe inoltre, specularmente, un'ingiustificabile diversità di trattamento anche con riferimento alla condotta antagonista a quest'ultima ipotesi, consistente nell'imposizione di una terapia non voluta, che sarebbe, secondo la Code di Cassazione, perseguibile penalmente per il reato di violenza privata ( v. Cass. 29.5.02, Volterrani, n, 26446), diversamente dalla condotta antagonista al caso in esame e consistente nel rifiuto di staccare il respiratore artificiale. Parimenti non vale a tal riguardo affermare, altresì, che l’imputato, dopo avere omesso di proseguire una terapia non voluta, semplicemente non impediva che il paziente morisse a causa della sua malattia, come se il decesso del malato non fosse poi la conseguenza immediata della condotta commissiva del medico. Infatti tale interpretazione appare corrispondere più ad un artificio logico che alla realtà dei fatti, con riferimento ai quali nessuno è in grado di smentire il dato obiettivo che, se l'imputato non fosse intervenuto attivamente, staccando il malato dalla macchina che gli assicurava la respirazione assistita, quest'ultimo non sarebbe deceduto quel giorno e a quell'ora. Pertanto, non vi è dubbio che all'azione dell'imputato, unitariamente consistita nell’atto di distacco del respiratore, corrispondeva come evento naturalisticamente e giuridicamente conseguente la morte del paziente, dato, questo, dal quale non è possibile prescindere nella presente valutazione, separando artificiosamente in due distinte fasi -omissione del trattamento e non intervento in soccorso del malato- la condotta del medico che è unica, sia da un punto di vista della materialità che da un punto di vista della volizione. D’altra parte l’individuazione di una causa di giustificazione del reato non appare foriera, più in generale, di conseguenze negative quali, ad esempio, la possibilità di un pericoloso ampliamento della liceità della condotta sotto il profilo dell’erronea supposizione della scriminante, poiché sempre dell’oggetto del dolo si discuterebbe e, come tale, sovrapponibile all’analogo caso di erronea supposizione degli elementi del fatto di cui all’art. 47, c.p.. Anzi nel caso dell'erronea supposizionje di un causa di giustificazione la giurisprudenza ha avuto sempre una posi:|:ione più rigorosa, richiedendo qualcosa di più del semplice difetto dell’elemento psicologico e segnatamente ha ritenuto necessario accertare anche la ragionevolezza di questo erroneo convincimento ( Cass. 24,5.90, Colantonio; cass. 7.7.98, Calamita; ecc.).
Del reato contestato sussiste anche l'elemento psicologico, poiché il dottor Riccio ben sapeva che pnterruzione della terapia di ventilazione assistita avrebbe comportato il decesso del paziente ed il fatto che egli abbia adempiuto alla volontà del paziente non esclude di per sé la volontarietà della sua azione direttamente causativa del decesso di quest'ultimo, in quanto è proprio la volontà conforme della vittima a costituire l’elemento caratterizzante la fattispecie dell'ornici dio^ìpr^onsenziente rispetto all'omicidio volontario."Non si può neppure affermare che il dottor Riccio non fosse in grado di ipotizzare l’antigiuridicità della sua condotta, se è vero, come è vero, che era a conoscenza della pronuncia del Giudice civile di qualche giorno prima.
Pertanto, l'unica soluzione perché la condotta del medico, attuativa della volontà del paziente e causativa della morte di quest'ultimo, possa essere ritenuta di per sé lecita, sarebbe quella di ridisegnare, mediante l'intervento del legislatore, i limiti della fattispecie di cui all'art. 579, c.p., escludendo esplicitamente l'ipotesi del medico che, ottemperando la volontà del paziente, cagioni la morte di quest'ultimo, mentre una previsione incriminatrice così ampia ingloba necessariamente anche questo caso.
Peraltro, se è vero che esistono del reato contestato tutti gli elementi costituivi, nel caso concreto appare sussistere anche la scriminante di cui all’art. 51 c.p. Invero dalla ricostruzione dei fatti precedentemente operata discende con certezza che Piergiorgio Welby da tempo, almeno da sei mesi, aveva deciso di porre fine alla terapia di ventilazione assistita cui era sottoposto dal 1997 e a tale scopo aveva perseguito tutte le strade possibili, anche rivolgendosi al Giudice civile, per poter vedere riconosciuto il proprio diritto all’interruzione del trattamento sanitario. Vari medici per motivi diversi si erano rifiutati di assecondare la sua volontà, fino a che era entrato in contatto con il dottor Riccio, medico specializzato in anestesia e rianimazione. Il rapporto che si costituiva tra i due è qualificabile come quello tipico che si instaura tra un medico ed il suo paziente, preceduto da una precisa acquisizione di informazioni da parte del medico sulle condizioni del paziente ed esso aveva ad oggetto competenze di carattere squisitamente sanitario, quali quella di porre fine al trattamento di respirazione assistita con il distacco del predetto dalla macchina e quella di somministrare contestualmente una terapia sedativa al paziente. Il contesto entro il quale, pertanto, si consumava la condotta dell'imputato era quello presupposto dal legislatore costituzionale per il legittimo esercizio del diritto all’autodeterminazione della persona attraverso la richiesta di interruzione del trattamento sanitario. A sostegno di tale affermazione si rimanda anche alle valutazioni critiche espresse precedentemente da questo Giudice sulle argomentazioni contenute nell'ordinanza del GIP. Si ritiene di dover solo aggiungere che il medico] nel caso in esame, interveniva su un trattamento sanitario a quell'epoca in atto, quale quello della respirazione assistita, operando per la sua cessazione e somministrando contestualmente una terapia sedativa, come richiesto dal paziente, per salvaguardare Tequilibrio psico-fisico di quest'ultimo nel momento assai critico del suo percorso finale ovvero ponendo in essere una condotta a contenuto specificamente medico ed attuabile, nel suo complesso, solo da uno specialista in anestesia, come ebbe ad affermare essere necessario anche il medico curante della vittima, dottor Sciarra.
Inoltre va detto che la richiesta di interruzione della terapia formulata da Piergiorgio Welby aveva tutti i requisiti di validità in precedenza evidenziati ovvero era personale, autentica, informata, reale ed attuale, infatti sono riscontrabili nella decisione del malato la piena consapevolezza e la determinazione tenuta fino all’ultimo. A tal riguardo valgono le riflessioni dello stesso Welby precedentemente riportate e contenute nei suoi scritti, che in ragione del loro stesso contenuto rivelano l’esistenza e l’autenticità di tali condizioni. A conferma di ciò appaiono importanti le dichiarazioni della moglie nel corso dell’audizione davanti a questo Giudice. Ella infatti, in quella sede chiariva che il marito aveva sempre scritto personalmente tutto, “aveva una tastierina virtuale dove poteva muovere con il dito il cursore” ed è pertanto chiaro che il contenuto degli scritti del predetto sia attribuibile solo a quest’ultimo e sia frutto, quindi, di sue personali e sofferte riflessioni, nonché di decisioni prese in totale autonomia. La moglie riferiva, inoltre, che fin dall'inizio del loro rapporto egli la volle informare della sua malattia, dei sintomi e dell'esito infausto che la stessa avrebbe potuto avere anche a breve termine; le aveva, infatti, detto : <
Egli, inoltre, su tutto ciò cne riguardava la sua malattia decideva e si informava sempre in piena autonomia, mai delegando alcuno, neppure la moglie, che alle specifiche domande del Giudice descriveva l’atteggiamento del marito rispetto alla malattia, chiarendo che «non ha mai delegato nessuno, nemmeno me, anzi se io qualche volta lo prevenivo chiedendo al medico di venire a casa, dovevamo litigare e io non lo feci mai più, insomma ho fatto sempre chiedere a lui oppure lo consigliavo, -senti sarebbe il caso...,-. Se lui diceva di no, non chiamavo il medico. Era una persona troppo intelligente, libera e autonoma».
Piergiorgio Welby inoltre si è sempre tenuto aggiornato sull’evoluzione della malattia, si informava anche costantemente sulle evoluzioni della scienza in materia (v. pg 17 e seg., libro “Lasciatemi morire”) e ha sempre deciso personalmente come gestire la malattia. Anche il semplice chiamare o non chiamare il medico era, infatti, oggetto di una sua decisione personalissima. Anche quando si arriv|) nel 1997 alla decisione sulla tracheotomizzazione, fu lui a decidere, seppure egli si risentì a lungo per l'atteggiamento della moglie, che, in un momento cosi difficile per lui, non lo aveva sostenuto nella decisione di lasciare andare avanti la malattia senza interventi cosi invasivi, attribuendo sul punto alla congiunta un ruolo decisionale, che poi lei in realtà non ebbe, come evincibile dalla testimonianza di quest'ultima In conclusione, appare evidente come Piergiorgio Welby^ia^tato sempre informato su tutto ciò che riguardava la sua malattia, decidendo in relazione ad essa in maniera totalmente autonoma ed ancorata alla realtà delle sue condizioni. Questa consapevolezza e questa volontà di autonoma determinazione sono rimaste presenti nel predetto fino all'ultimo, come evincibile da quanto sopra descritto, poiché egli fino alll’ultimo istante, non solo ha mantenuto intatte le sue facoltà mentali, cosa del tutto compatibile con la patologia sofferta che non pregiudica le capacità intellettive del malato, ma è stato in grado nonostante lo stadio gravissimo di atonia in cui versava e la sofferenza fisica e psichica da lui sopportata nell'ultimo periodo, di autodeterminarsi con lucida coerenza e ammirevole fermezza. Ciò è dimostrato dal fatto che non si è lasciato scoraggiare dagli ostacoli di ogni tipo, frapposti tra la sua decisione e l’attuazione delle sue volontà, ciò anche nell'ultimissimo periodo. Infatti, quando i suoi amici dell'associazione "Luca Coscioni", in particolare i parlamentari don i quali da tempo aveva condiviso alcune battaglie su tali temi, chiesero al medesimo di rinviare la sua decisione di interrompere la terapia di ventilazione polmonare a dopo le festività natalizie per dare ulteriore tempo al dibattito politico sul testo legislativo relativo al cosiddetto "testamento/ biologico", egli, arrivato allo stremo, si rifiutò di assecondare i tempi e le ragioni della politica, separando a quel punto la sua vicenda personale da ogni valenza esteriore e mediatica e riappropriandosi della dimensione personalissima del dolore e della sua dignità di uomo. Decise, infatti, di interrompere la terapia, stabilendo lui i tempi e le modalità della sua morte ovvero il giorno in cui morire, cosa fare fino al momento prima, chi volere accanto a sé, con quale musica accompagnare il suo distacco dal mondo. Fino all’ultimo, non solo l’imputato, ma anche la moglie gli chiese se effettivamente fosse determinato ad andare avanti nella sua decisione e lui, in piena consapevolezza, rispose affermativamente non solo con cenni, ma con frasi di senso compiuto ed univoco, e pregò la moglie di non piangere per accompagnarlo serenamente in quell'ultimo percorso. Al riguardo ci sono le testimonianze della moglie e dell’on. Cappato, i quali, tra l’altro, firmarono in segno di conferma, unitamente alla sorella ed all'on. Marco Pannella, il verbale redatto dal dott. Riccio, nel quale si dava atto, tra l'altro, del consenso al distacco dal ventilatore mantenuto fino all'ultimo da Piergiorgio Welby. Erano inoltre presenti al commiato altre persone, tra cui la stessa madre, che in quell'occasione, pur nell'ovvio dolore per l'imminente dipartita del figlio, si mostrò serenamente sollevata per il fatto che finalmente si desse attuazione alla sofferta volontà del congiunto.
Certo, ciò che sorprende è come l'eccezionalità dell'esperienza della morte sia stata poi vissuta da Piergiorgio Welby in concreto con modalità di assoluta quotidianità e semplicità, come di un momento apparentemente uguale a tanti altri: egli ha infatti voluto seguire fino a pochi attimi prima un programma televisivo di giochi a premi, quasi a voler sdrammatizzare ciò che nell’immaginario individuale e collettivo concentra su di sé, più di ogni altra esperienza umana, sentimenti di paura, quasi a voler ricondurre tale esperienza nell'alveo di quello che poi essa è, ovvero un evento naturale dell'esistenza umana- Ciò induce a pensare ad una sua condizione di grande serenità, come di chi, fino a quel momento mai domato da ogni giro di vite che la malattia gli aveva imposto, sia ormai profondamente consapevole di avere esaurito ogni aspettativa di vita, di una vita che possa essere ancora chiamata tale e che abbia conservato la dignità coessenziale alla qualità di uomo. Inoltre è da ritenere che era presente in lui anche una grande e serena determinazione, ancora più forte se raffrontata ad una prova così difficile; determinazione, che è figlia necessariamente di un vissuto pieno, come d'altra parte dimostrano i suoi scritti, che è figlia di una lucida consapevolezza del presente e del passo che sta per affrontare, come in precedenza chiarito, e che è figlia della sua tenace volontà di non voler abbandonare SI ruolo di protagonista della propria vita, in quest'ultima preservando dignità e qualità.
Sulla permanenza della volontà del paziente fino all’ultimo, in particolare, va chiarito che il distacco dal respiratore artificiale avveniva contestualmente alla somministrazione della terapia sedativa, pertanto l’affievolimento della funzione respiratoria avveniva di pari passo alla graduale perdita della coscienza da parte del Welby. In ogni caso appare del tutto irrilevante, oltre che arduo dal punto di vista probatorio, andare ad accertare se lo stato di coscienza del paziente sia cessato nel momento esatto in cui subentrava la morte naturale per il distacco dalla macchina. In altre parole appare del tutto irrilevante andare ad accertare concretamente se egli sia stato messo nelle condizioni di poter, fino all’ultimo istante, revocare la sua precedente decisione, poiché ciò sarebbe stato in totale contrasto con l'intento coerentemente perseguito fino a quel momento e con la sua storia personale ed in quanto tale accertamento "impossibile" appare, in ogni caso, rappresentare esso stesso un'inutile forzatura. Infatti, non può che costituire un inutile artificio voler far coincidere il requisito dell'attualità della volontà con la necessaria e stretta contestualità tra la morte e la perdita di coscienza della persona, soprattutto quando si rende opportuno o necessario procedere alla sedazione del paziente. In realtà quello che effettivamente rileva sotto tale profilo non è la stretta contestualità tra la perdita di coscienza e la morte ma la prevedibilità dellì’intervento, ovvero se il paziente permanga nella sua decisione, pur sapendo quello a cui sta andando incontro e sempre che quello che effettivamente poi avviene è ciò che era stato previsto e che era comunque da lui ragionevolmente prevedibile. Anche sotto tale profilo si può affermare con ragionevole certezza che Piergiorgio Welby ha mantenuto ferma la sua decisione funo alla perdita di coscienza avvenuta contestualmente o poco prima al suo decesso, evento, quest’ultimo, che egli sapeva bene che sarebbe subentrato al distacco dalla macchina. Assai significativo sotto il profilo della prevedibilità appare, infatti, essere l'episodio raccontato dalla moglie, che riferiva al Giudice che m domenica prima del decesso il marito aveva voluto verificare entro quanto tempo approssimativamente sarebbe potuta subentrare la morte ed aveva chiesto alla moglie di staccarlo dal respiratore artificiale, constatando in quell’occasione la rapida discesa dei valori.
Si rinvengono pertanto nel caso in esame tutti gli elementi in precedenza enucleati per la sussistenza della scriminante di cui all'art. 51, c.p., con conseguente liceità della condotta posta in essere dall’imputato.
In conclusione, parlare nel caso di specie genericamente di eutanasia appare, quindi, del tutto fuorviante da un punto di vista del rigore concettuale e della comprensione dei fatti. Basti, infatti, riflettere sul fatto che per la qualificazione dei casi rientranti nel concetto di eutanasia la dottrina e la giurisprudenza hanno dovuto coniare una serie infinita di distinzioni che comunque non sono in grado di esaurire il variegato scenario che offre la realtà e che comunque non consentono una reale individuazione della specificità dei singoli casi. Si distingue al riguardo, tanto per citare solo alcune delle catalogazioni più ricorrenti ed accreditate, in eutanasia attiva non consensuale, eutanasia attiva consensuale, eutanasia passiva, eutanasia pura, eutanasia pietosa, ecc». Ed è ancor più fuorviante nella fattispecie in esame utilizzare una simile definizione, perché si rischia di sovrapporre casi del tutto eterogenei con riferimento ad un tema che, riguardando assai da vicino l'intangibilità della vita umana, per la sua essenzialità e delicatezza impone un rigore assoluto ed una delimitazione delle fattispecie quasi "chirurgica”, perché altrimenti si potrebbe correre il rischio di non comprendere adeguatamente la specificità del caso in esame e si potrebbe correre il rischio di estendere, in via di principio, a casi ontologicamente diversi il riconoscimento costituzionale dell'esercito di un diritto ed il riconoscimento speculare della sussistenza di un'esimente penale. Basti pensare, ad esempio, alle peculiarità del caso apparentemente similare, ma profondamente diverso, di colui che nelle medesime condizioni di Piergiogio Welby si faccia staccare il respiratore da un congiunto.
Una tale interpretazione del principio di autodeterminazione consapevole in tema di trattamento sanitario non è senza effetti sulla categoria concettuale facente capo al cosiddetto "accanimento terapeutico", in quanto in una visione sistematica quest'ultima appare acquisire una connotazione di tipo residuale. In altre parole, se viene riconosciuta efficacia giuridica alla volontà dell'individuo sulle cure mediche cui sottoporsi, l'insistenza terapeutica in questo caso deve essere qualificata dal punto di vista giuridico come mera violazione della volontà consapevolmente espressa dal paziente, indipendentemente dal fatto che il trattamento sanitario si sostanzi o meno in una situazione definibile come "accanimento terapeutico”. D'altra parte la terapia cui la persona intende sottrarsi non necessariamente si deve sostanziare in una situazione estrema di "accanimento terapeutico" perché egli possa esercitare il diritto di farla cessare.
Pertanto l’accanimento terapeutico, come categoria giuridica, assumerebbe una connotazione autonoma rispetto al diritto di autodeterminazione terapeutica ed un contenuto residuale, nel senso che in esso potrebbe rientrare tutto ciò che è insistenza terapeutica al di fuori del caso di consapevole rifiuto espresso direttamente e nell’immediatezza dal destinatario delle cure, come avveniva nel caso in esame. La categoria concettuale, rilevante sotto il profilo giuridico e qualificabile come accanimento terapeutico, potrebbe, infatti, riguardare i casi di terapia esercitata nei bonfronti di soggetti non più in grado di decidere per sé, relativamente ai quali la malattia a prognosi infausta è pervenuta alla fase terminale o nei quali li sia irreversibilità della condizione di coma Infatti solo in questi casi il titolarci del bene protetto si troverà nella condizione di non poter esprimere la propria yolontà, che, se positiva, avrebbe potuto riconvertire il presunto accanimento En terapia voluta e che, se negativa, ne avrebbe potuto lamentare la violazione. Pertanto solo all'interno di tale categoria residuale poi si dovrebbe porre la questione relativa all’ultrattività della volontà del soggetto, non più in grado di esprimerla.
È evidente come, in ogni caso, al di là di qualsiasi opportuna classificazione sistematica dell’accanimento terapeutico, i fatti oggetto del presente procedimento sono del tutto diversi da simili fattispecie.
Neppure sembra potersi fare rientrare il caso in esame nella più ampia categoria concettuale denominata “suicidio assistito”. Può infatti essere definita condotta suicidaria quella di colui che, ormai consapevole della immediata prossimità della propria morte e della sua inevitabilità alla stregua delle conoscenze scientifiche, decida i tempi e le modalità del suo trapasso in modo da consentire che esso sia privo di indicibili, quanto inutili, sofferenze? Noi possiamo, infatti, solo immaginare cosa voglia dire morire per soffocamento, quando al movimento meccanico involontario preposto all'inspirazione non risponda l'acquisizione dell'aria necessaria. Piergiorgio Welby, invece, l'aveva già sperimentato concretamente nel 1997 e lo stava rivivendo negli ultimi tempi, quotidianamente, in quel progressivo esaurirsi della sua capacità respiratoria nonostante l'assistenza meccanica del ventilatore polmonare: «Mina quanto sto male, quanto sto male»
Può, infatti, essere definita suicidio la condotta di colui che, ormai consapevole della immediata prossimità e della inevitabilità della propria morte decida i tempi e le modalità del suo trapasso in modo da consentire che il distacco dai suoi cari avvenga nel modo più sereno, più partecipato, più vicendevolmente compassionevole possibile? Peraltro tali riflessioni appartengono più al mondo della morale che al mondo giuridico, mentre nell'ambito di quest'ultimo i concetti che ci interessano assurgono, come dimostrato in precedenza, ad una chiarezza insuperabile; la condotta di colui che rifiuta una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciutogli in ottemperanza al divieto di trattamenti sanitari coatti sancito dalla Costituzione.
In conclusione, si può, quindi, affermare che l'imputato Mario Riccio ha agito alla presenza di un dovere giuridico che ne scimina l’illiceità della condotto causativa della morte altrui e si può affermare che egli ha posto in essere tale condotta dopo aver verificato la presenza di tutte quelle condizioni che hanno legittimato l'esercizio del diritto da parte della vittima di sottrarsi ad un trattamento sanitario non voluto.
Va pertanto dichiarato il proscioglimento di Riccio Mario perché non punibile in ragione della sussistenza della esimente di cui all’art. 51, c.p.

PQM

Visto l’art. 425 c.p.p. dichiara non luogo a procedere nei confronti di Riccio Mario perché non punibile per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere

 
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