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1. Compatibilità tra la misura detentiva e il diritto alla salute nell’ordinamento costituzionale
La compatibilità tra lo status detentionis ed il diritto alla salute, si pone come immediata problematica che tocca da vicino le vicende del nostro paese sotto il profilo della idoneità a fornire le adeguate garanzie da parte della lex fori.
Se ci soffermiamo analiticamente sulla funzione della nostra Carta Costituzionale, in particolar modo sull’art. 32 Cost., non si può fare a meno di ragionare sulla reale portata di tutela e sulla sua compatibilità con le norme sopranazionali, specie, con la Convenzione europea dei Diritti dell’uomo.
Diritto alla salute e tutela alla salute, questi sono i pilastri su cui deve poggiare il dibattito oggetto di disamina, basato essenzialmente sull’analisi della sentenza in epigrafe; diritto di essere curati o di scegliere di non curarsi, ma soprattutto diritto di vedere la propria salute come res indisponibile ed irrinunciabile del cittadino e della collettività: la buona salute del singolo, si ripercuote sulla collettività, sul suo benessere e sul suo ordine facendo si che la sua tutela diventi tutela collettiva. Il passaggio dall’applicazione dell’art. 32 Cost. dalla sfera extramuraria a quella intramuraria è breve: se non si vuole prendere in considerazione l’aspetto qualificante il diritto alla salute come diritto personalissimo, con conseguente affievolimento durante la detenzione, si elude il profilo fondamentale, e cioè, considerarlo come un nesso logico inscindibile: la buona salute dei detenuti e benessere civile.
La giurisprudenza costante, ritiene applicabile l’art. 32 Cost. a qualsiasi cittadino anche se sottoposto a misure restrittive della libertà personale, poiché il “ valore della dignità e della salute di ciascun essere umano è valore supremo che non conosce distinzioni e gradazioni di status personali e dunque annulla ogni separazione tra cittadini e soldati”; col tempo è diventato uno dei baluardi del trattamento rieducativo, in combinato disposto con gli artt. 27 co. 3 e 13 co., 4 della Costituzione; base da cui partire per un corretto e “umano” modus operandi dei ristretti in vinculis. I principi costituzionali, hanno certamente incrementato la loro forza tutelare dopo l’avvento nonchè la ratifica della C.e.d.u. che nel suo art.3 pone l’accento sul concetto di “trattamento inumano e degradante”.
Possiamo quindi affermare (anche alla luce di quanto esposto finora) in modo indiscutibile e senza ragionevoli dubbi, che le norme dell’ordinamento interno di tutela della salute e psiche dei detenuti, di cui la disciplina è estensibile anche ai detenuti con trattamento differenziato e cioè, sia coloro che “pro tempor”e siano in attesa di giudizio sia quelli “affetti ed afflitti” da giudicato irrevocabile, sono da considerare realmente ed efficacemente conformi al senso di umanità voluto dalla C.e.d.u., o forse, anche in una Costituzione garantista come la nostra, si da luogo a trattamenti “inumani e degradanti?
1.1 La tutela alla salute approntata dall’ordinamento nei confronti del detenuto giudicato
La tutela della salute nei confronti del detenuto colpito da sentenza di condanna passata in giudicato, si snoda attraverso varie ma unitarie norme aventi come fulcro il contemperamento delle esigenze retributivo-espiative della pena e la salute fisica dello stesso.
Norme cardini su cui si manifesta una riflessione, sono gli artt. 146 e 147 del codice penale, nella cui orbita ruotano le norme dell’ordinamento penitenziario, in cui, dopo molto silenzio inspiegabile e lesivo, il legislatore ha riservato (spronato forse da quanto stabilito a livello europeo), un spazio “di dignità” alla tutela della salute in carcere.
Nella fattispecie, nell’art. 147 c.p. si pone l’accento sulla condizione di “grave infermità fisica” del condannato quale motivo di rinvio esecutivo della pena; parlarne ha aperto diverse questioni di contrasto giurisprudenziali e dottrinali che solo recentemente sono state risolte.
La Corte di Cassazione, pur nella difficoltà di bilanciare interessi contrapposti ma pur sempre fondamentali, si è espressa in modo da privilegiare e sostenere il diritto alla salute del detenuto, memore, forse, della definizione di “bene fondamentale della vita e della salute” , tutelato dall’art. 32 Cost., e dalla analisi esegetica offerta dalla Corte Costituzionale, rispetto a quel “bene” ritenuto comunque tale, della totale ed effettiva espiazione della pena.
Di certo, il criterio base su cui sì fonda il differimento della pena è espresso da due concetti, anche se oscuri nel loro significato e per tale ragione aperti a plurime interpretazioni: “grave infermità fisica” e “malattia particolarmente grave”.
I molteplici significati che né sono stati dati, non hanno pienamente soddisfatto l’anelante bisogno di chiarezza che è quanto mai necessario su tali argomenti che sono sempre più manifestazioni del senso di civiltà nelle democrazie moderne, tanto più, che neanche la letteratura medico-legale, a cui è stata derogata la questione, ha elaborato dei criteri “sufficienti” in grado di individuare univocamente che cosa si intendesse con tale denominazione
Quello su cui si è manifestato largo consenso, è la centralità della perizia medico-legale come instrumentum iudici nella determinazione della sospensione o meno della pena.
L’analisi peritale, di suo, dovrà dimostrare non tanto la compatibilità tra detenzione e possibilità di cura, se un eventuale trasferimento da una struttura carceraria ad un’ altra maggiormente attrezzata potrebbero risolvere il problema di salute, ma limitatamente deve solo valutare la gravità della malattia, la possibilità di un reale pericolo di vita o di una compromissione tale da provocare ulteriori danni soprattutto psicologici ovvero comportamentali potenzialmente irreversibili, che non consentano il naturale evolversi della persona, e che incidano sensibilmente sul suo recupero. Ed inoltre, l’aspetto più importante inquadrabile nella possibilità effettiva di fruire fuori la struttura penitenziaria di strumenti di cura essenzialmente diversi e più efficaci, di vero recupero.
Occorre ricordare in proposito, quanto disposto dall’art. 11. o.p. nel suo 2° co., il quale, sottolinea come in caso di necessarie e non trascurabili cure ed accertamenti diagnostici, di complessità tale da non potersi svolgere all’interno dell’istituto di detenzione, i detenuti possono essere trasferiti in luoghi di cure ab esterno.
Il trasferimento in ospedali civili e luoghi esterni di cura non è un miraggio o un’ipotesi non perseguibile, anzi è una delle ipotesi che meglio si addicono ad una condizione precaria quale quella attuale, dove la maggior parte delle terapie, anche le più aggressive e per questo che richiedono maggior controllo e “circostanza” si praticano (con tanta indifferenza) all’interno del carcere.
Se la dotazione di personale medico, la creazione di sale diagnostiche attrezzate, nonché di strutture in grado di curare, con la somministrazione di giusti medicinali, tutti i detenuti anche i più pericolosi o affetti da grave eziopatogenesi è un’utopia, non si può fare a meno di procedere al trasferimento in una struttura esterna idonea; la opzione più ragionevole e conforme ai principi nonché ai diritti personalissimi dell’uomo, sarebbe a quanto espresso nella C.e.d.u e confermato dal Consesso europeo, in modo peculiare e non aggirabile nell’ art.3 della convenzione.
Pene e trattamenti inumani, e pene con trattamenti degradanti, non sono come si potrebbe pensare, solo quelli volti a svilire e fiaccare la dignità dell’individuo, ma è ogni tipo di azione che per durata, premeditazione e intensità possa provocare intense sofferenze fisiche e mentali. Non deve pensarsi che la detenzione per lo scopo cui è rivolta si abilitata a far venir meno i diritti e le libertà tutelati dalla convenzione, tutt’altro: semmai è proprio nel momento detentivo che la C.e.d.u spiega la sua maggior forza protettiva.
Difatti, in diverse sentenze la Corte europea dei diritti umani, ha sottolineato come la detenzione in condizioni di grave pericolo per la salute dei detenuti posa costituire pena inumana e degradante; l’impedire, più o meno scientemente, al detenuto malato di curarsi in modo dignitoso è una maggiore afflizione, che supera quella soglia minima di gravità, financo relativa, necessaria per stabilire quando una pena “giusta” si trasforma in una pena “ingiusta”.
Le cure esterna, specie nelle forme tumorali, o le terapie mirate alla cura di forme morbose, quali malattie ghiandolari e cardiache, dovrebbero essere la prassi generale per evitare di sottoporre il detenuto ad ulteriori accanimenti da parte della giustizia.
Come non si può fare a meno di menzionare la netta presa di posizione decisamente favorevole, che si è avuta nei confronti di coloro che sono affetti da AIDS-HIV e da gravi malattie immunologiche, che nonostante la condizione già umiliante portata dalla malattia, fino a tempi recenti si tollerava venissero “trattati” dai sanitari del carcere, mentre oggi vengono inseriti in protocolli di cura esterni. Sarebbe, ed è, inumano e degradante, nonché pericoloso, non permettere a persone, versanti in uno stadio di malattia talmente avanzata da non rispondere a cure di nessun tipo, la possibilità di curarsi extra moenia.
La condizione di salute, e non la malattia, deve essere presa in considerazione ai fini dalla concessione della sospensione della pena, per salvaguardare da eventuali contagi interni la popolazione carceraria e coloro che vi lavorano. Posto che il vaglio del giudice deve essere condicio sine qua non per la concessione di tali benefici, onde evitare pericoli per i cittadini che potrebbero vedere rimessi in libertà soggetti giudicati pericolosi, si dovrebbe smettere di considerare i detenuti malati come una classe “speciale”, e ricordare come si debba educare, sia internamente che esternamente la mentalità e cercare più buon senso, nell’idea di una titolarità effettiva ed esercitabile per tale categoria di esseri sempre umani, di diritti quali quelli irrinunciabili della persona e della sua sfera intima, e puntare ovvero garantire al loro riconoscimento.
Passare dall’idea di non pericolosità come postulato per la concessione della tutela giuridica dei diritti del detenuto, all’idea cardine di una titolarità di diritti personalissimi e inalienabili tutelati dalle norme costituzionali e rafforzati da quelle sopranazionali, dovrebbe essere lo sviluppo logico e naturale per una nuova concezione di tutela.
1.2 La tutela giuridica della salute nei riguardi dell’imputato
In merito alla tutela della salute nell’imputato sottoposto a misure cautelari, una riflessione deve essere fatta prendendo spunto da quanto enunciato dall’art. 275 c.p.p.
Le numerose modifiche effettuate dal legislatore sono state il frutto di un copioso lavoro di cesello, volto a ponderare e uniformare le esigenze espresse dalle articolate “voci” al riguardo.
Quello che si è cercato di tenere presente, è la funzione non vessatoria della custodia cautelare in carcere da utilizzare solo quando ogni altro tipo di misura risulti non applicabile; in merito la lista di soggetti cui risulta incompatibile la sua applicazione che va, dalla madre con prole alla persona che per la sua età non è compatibile con il regime carcerario, senza dimenticare coloro che a causa di una malattia compromettibile nel fisico ovvero affezione da HIV, non possono essere trattenuti (in presenza di tale stato fisiologico alterato), in carcere.
La gestione del detenuto in attesa di giudizio, operata in un bilanciamento tra esigenze di sicurezza esterna e sua compatibilità col carcere, è sempre stata aggravata dalla condizione di assenza del dispositivo di giudizio definitivo; ma in attesa di giudicato, non implica, per converso, la perdita di ogni tipo di diritto. In particolar modo, specie per coloro che versino nelle condizioni di salute sopra descritte, tali da non permettere cure adeguate in carcere, il comportamento da attuarsi deve rispecchiare la parità ovvero sia uguaglianza di trattamento tra imputato e indagato.
Vista la gravità, l’incompatibilità dello stato di salute, e soprattutto, l’inadeguatezza delle cure in carcere soprattutto per alcune patologie, dovrebbe portare di necessità alla sospensione della custodia cautelare personale. Di certo, la compatibilità o meno non deve essere valutata in modo assoluto ma solo tenendo conto del grave pregiudizio che si creerebbe nella praticabilità degli interventi terapeutici valutati in relazione alla possibile ipotesi di poter svolgere interventi diagnostici o terapeutici, presso centri clinici carcerari o a contraris, usufruendo di quanto enunciato direttamente dall’art. 11 o.p., quindi, all’esterno.
Analogo discorso, deve, o almeno dovrebbe essere fatto per coloro che sono affetti da AIDS conclamato dove la tutela della salute per i detenuti si sposa con la salvaguardia di quella di coloro che lavorano o comunque possono avere contatti con i detenuti de quo.
La non compatibilità costituzionale dell’art. 286 bis, c.p.p. in cui si enucleavano i parametri per la permanenza o meno in carcere, è stata superata dalla legge 231/’99 in correlazione con il D.M. del 07/05/2001 stabilente i parametri medici su cui dovrà basarsi la opzione di scarcerazione del detenuto affetto da AIDS conclamato.
La valutazione personale delle condizioni di salute del soggetto deve essere tale da escludere coloro che pur malati non rientrano nei parametri del decreto. La norma è volta a dare una maggiore tutela al diritto alla salute poiché, pur nella necessità di custodia cautelare, le esigenze di preservare il soggetto e gli altri detenuti la fanno venire meno relegandola a margine delle altre scelte.
La reale alternativa, sicuramente preferibile nel caso concreto sono gli arresti domiciliari.
Dalla pur breve disamina effettuata si evince che la tutela della salute del detenuto, sia esso definitivo che in attesa di giudizio, è ormai centrale all’interno della normativa sia penale che penitenziaria.
Il fil rouge che deve continuare a legare insieme, in maniera sempre più stretta, le varie parti del sistema tutelare è il principio esposto dalla nostra Costituzione. Tutelare la salute del detenuto deve diventare fulcro di una nuova coscienza europea di difesa di ogni diritto contro pene che potrebbero, pur non volendo, diventare inumane.
Al riguardo la Cassazione penale (6.7.1992, n. 2819, Piromalli) che ha ribadito quanto già espresso in precedenti sentenze (26.10.1987, n.17126, Nuvoletta) che "neppure la generale inderogabilità dell'esecuzione della condanna può sopravanzare allorquando la pena, per le condizioni di grave infermità del soggetto, finisca per costituire un trattamento contrario al senso di umanità, così perdendo la tendenza alla rieducazione. Nella motivazione ... il giudice deve dare ragione delle sue scelte, bilanciando il principio costituzionale di uguaglianza (art.3 Cost.) con quelli della tutela della salute (art.32 Cost.) e del senso di umanità (art.27 Cost.) che devono caratterizzare l'esecuzione della pena ...". In tal senso anche Cassazione penale, 3.3.1992, n.358, Viola; 6.7.1992, n.2819, Piromalli; 19.5.1993, n.1121, Baroncelli e 17.5.1997, n.3046. In Giurisprudenza di legittimità (24.5.1995, n.4727) si stabilisce anche: per “avallare” le misure "è necessario che ci si trovi in presenza di prognosi infausta quoad vitam oppure che il soggetto abbia bisogno di cure e trattamenti indispensabili tali da non poter essere praticati in regime di detenzione intramuraria neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell'art.11 dell'ordinamento penitenziario" è vero; Ma si va oltre (Cassazione 7.7.1994, n.2080 ) dove si legge che "La guaribilità o reversibilità della malattia non sono requisiti richiesti dalla normativa vigente in tema di differimento dell'esecuzione della pena, per la cui concessione è sufficiente che l'infermità sia di tale rilevanza da far apparire l'espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità.".
Ebbene, l’esecuzione della pena dovrà essere differita quando la struttura penitenziaria, tenuto anche conto della possibilità del ricovero esterno, non si riveli in grado di provvedere alla cura ed all'assistenza sanitaria adeguate all'obbiettiva gravità del caso, sì che appaia fondata la previsione che si fatte carenze abbiano a determinare effetti dannosi sullo stato del condannato. Se così non fosse l'esecuzione della pena verrebbe illegittimamente ad incidere sul diritto alla salute costituzionalmente a tutti riconosciuto (art. 32 Cost.) e si risolverebbe in un trattamento contrario al senso di umanità cui la stessa deve ispirarsi.
Si impone una riflessione: essendo i diritti fondamentali canoni metagiuridici i quali, richiedono un’esegesi ed implementazione che va la di là del rigorismo formale e legalistico-monista, senza rinunciare al portato del costituzionalismo sostanziale, per rendere effettività ai diritti fondamentali ci si dovrebbe predisporre con mezzi adeguati, a superare la pur persistente matrice vetero-liberale dei principi europeo continentali dello Stato di diritto (si tratta del grave limite all’espansione dei diritti fondamentali costituito in ambito penalistico dalle tralatizie concezioni sulle fonti e sul metodo interpretativo in materia, cioè dal formalismo giuridico, il c.d. legalismo. Persiste il connubio tra: da un lato la generale tecnica di lettura secondo gli schemi formalistici tipici del positivismo legalistico, e dall’altro. il peculiare ancoraggio della materia in modo tendenzialmente esclusivo alla lex fori . Risultato ne è che la soluzione normativa dipende immediatamente dall’arbitrio del potere, legislativo in primis giurisdizionale ex post, potere che ha il primato sul Diritto. Il tutto finisce per far prevalere, ad essere ottimisti, una concezione procedurale dello Stato democratico che però, non è in grado di fornire legittimazione sostanziale, giuridica, etica e politica, alla soluzione normativa; una tale legittimazione può aversi solo sul fondamento di una democrazia sostanziale, la quale poggia su una concezione dell’uomo che vede come imprescindibili i diritti fondamentali).
Si tratta dunque, di ricercare nel diritto vivente e in particolare nella giurisprudenza, gli elementi validi per l’affermazione dei valori di garanzia giuridica dei diritti e delle libertà degli uomini secondo le linee di sviluppo che sonno più vicine agli ordinamenti di common law.
1.3 status detentionis: diritto alla salute e garanzie europee
Prologo della cosiddetta fase esecutiva del processo penale, è certamente la sentenza definitiva di condanna, la quale, concretizza la pretesa punitiva dello Stato nei riguardi di un soggetto, la cui responsabilità penale è stata accertata irrevocabilmente attraverso i passaggi scanditi nel processo di cognizione.
In executivis, là dove la pena è volta alla privazione della libertà personale, si rende necessario predisporre un apparato organico di diritti guarentigiati, al fine di non far divenire tale fase procedimentale una pena sine die, e che non rappresenti “l’abbandono del condannato nelle mani di un’ Amministrazione che si vuole per sempre organizzata secondo disposizioni di legge e impegnata ad assicurare un buon andamento ed una gestione imparziale degli istituti penitenziari, ma sia caratterizzata da un controllo giurisdizionale sul momento applicativo della sanzione, quale risultato finale di un’evoluzione secolare della normativa in materia, nel segno di una crescita della civiltà giuridica” (CORSO). Ne discende, come naturale conseguenza data dall’impianto processuale di tipo accusatorio –quale quello a cui si ispira l’ordinamento italiano- permeato dai principi dai principi di un “giusto” ed “equo” processo, ritenere invalicabili i cardini su cui poggia ed è fortemente puntellato l’impianto costituzionale, costituiti dai quei diritti assoluti quali: il principio di legalità (art. 25 Cost.), quello del nulla poena sine previo iudicio e nulla poena sine lege (art.13 co., 2 Cost.), nonché “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27 co., 3 Cost.).
Per non contravvenire il canone della legalità della esecuzione della pena, i diritti umani non possono non essere garantiti e rispettati senza eccezioni di sorta; De quo, i diritti e le libertà fondamentali sono stati oggetto di solenne enunciazione ed attuazione, per il tramite di atti interni, ma soprattutto di accordi sovranazionali; seguendo la linea guida tracciata da un percorso di unificazione, cosparso dall’imperante susseguirsi di rapporti collaborativi fra gli Stati, massimo esempio è dato dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei relativi Protocolli aggiuntivi, e si è creato così –come è stato sostenuto in dottrina (DE SALVIA)- un “diritto europeo dei diritti fondamentali comune agli Stati Contraenti”, idoneo a garantire una serie di regole di armonizzazione e coesione del tutto malleabili all’ampio ventaglio normativo interno che spesso, anche nella littera legis, assume toni contraddittori.
Tutelare l’individuo dall’ abuso dei poteri pubblici, rappresenta lo scopo primario della C.e.d.u., esigendo –la stessa- come impegno da parte degli Stati membri, un generico obbligo di astensione di segno negativo, ma soprattutto l’adozione di strumenti positivi idonei a conformare le singole e variegate legislazioni interne alla giurisprudenza europea, la cui linea di giustizia si dirige verso una protezione effettiva e a tutto campo delle libertà fondamentali sigillate nella Convenzione.
In puncto, per verificare la legalità dell’esecuzione della pena indivisibilmente connessa alla tutela internazionale dei diritti umani e soprattutto un corretto status detentionis volto alla risocializzazione –essendo la fase esecutiva della pena il momento cruciale in cui si misura quam maxime la quota di democraticità di ogni Paese- non si potrà non tener conto della costellazione di principi e moniti sovranazionali.
Ma, al di là delle fondamentali enunciazioni di principio relative alla persona in quanto tale, a livello internazionale, sono state emanate disposizioni riferibili in maniera esclusiva alla persona detenuta, finalizzate non solamente a stabilire dei divieti operanti con riferimento alle concrete modalità detentive, ma anche a puntualizzare positivamente i contenuti di una detenzione civile[1]).
Basti pensare, alla Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite n. 37/194, adottata il 18 dicembre 1982, nella quale sono stati posti principi di etica medica per il personale di sanità, ed in modo particolare per il personale medico, in tema di protezione della persona detenuta dalla tortura o da altre pene o trattamenti crudeli o degradanti. E’ stabilito in modo specifico, l’obbligo per il personale sanitario di assicurare la protezione della salute psicofisica dei detenuti e di fornire loro un “Traitment de la meme qualità et répondant aux memes normes que celui dont bénéficient les personnes qui ne sont pas emprisonnés ou détenues”.
1.4 tutela del benessere in carcere (la salute vale la “pena”)!
Lo stato di detenzione, non può prescindere da sofferenze e disagi psichici e fisici: tali sofferenze nascono dalla involontaria privazione della libertà e dalla limitazione del modo di essere del soggetto in vinculis, e esisterebbero anche in presenza di un sistema penitenziario in grado di tutelare la salute dell’individuo ed ogni suo fondamentale diritto.
Dal momento in cui un soggetto è privato della libertà personale, il suo modello di comportamento muta sensibilmente.
Alle forme di disadattamento più o meno marcato si aggiungono forme di patologia mentale a carattere reattivo psicogeno derivanti dalle condizioni di vita in carcere, nonché oggettivi rischi di devianze di natura sessuale.
Nel contesto carcerario, il giudizio di incapacità a sopportare le condizioni di detenzione costituisce una stigma “infamante” in gergo carcerario, assai riprovevole, più del motivo della stessa detenzione. L’impatto con la struttura carceraria costituisce per tutti i soggetti alla prima detenzione, un momento particolarmente traumatico ed al contempo drammatico.
Anche l’apparato burocratico-organizzativo degli istituti penitenziari, con le proprie esigenze amministrative e di sicurezza, contribuisce a definire quel percorso di “spersonalizzazione”, di demolizione della propria immagine, di annichilimento dell’auto-stima che sembra essere l’inevitabile tributo da pagare alla permanenza in carcere. In linea teorica, il carcere non dovrebbe comportare una negazione dei diritti dell’individuo non compressi dalla sanzione penale, ma nell’ambito della detenzione, la dipendenza assoluta dell’individuo lo rende incapace, di fatto, di fronteggiare personalmente qualsiasi necessità, soprattutto quando anche le condizioni fisiche risentono di acclarate patologie.
A fronte di tale problematica, non ci si può fermare a regole di soft-law, ritenendo che siano sufficienti a garantire un trattamento non inumano e degradante quale quello espressamente manifestato dalla Corte di Strasburgo per i detenuti (art. 3 C.e.d.u); tale principio è intangibile proprio perché consacra valori fondamentali posti alla base delle società democratiche e, a salvaguardia e protezione della dignità e dell’integrità fisica dell’essere umano. La Corte europea, attraverso la tecnica c.d. par ricochet ha reso possibile l’applicazione diretta della C.e.d.u., anche a settori da essa non espressamente contemplati, quale appunto quello del trattamento dei detenuti.
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo, è intervenuta individuando, in particolare, nella soglia minima di gravità il presupposto principale di applicabilità dell’art. 3 C.e.d.u., summenzionato. Tuttavia, al di là dell’esegesi letterale sui concetti di tortura ovvero trattamento inumano e degradante, la Corte ha più volte ricordato che le condotte inopportune, ma tali da non assumere connotati di sofferenza ed umiliazione che integrino i presupposti stabiliti dall’art. 3 cit., -come si evince dalla sentenza in epigrafe- non saranno per questo irrilevanti in assoluto per la Convenzione. Riguardo ad esse, si evidenzia una possibilità di degradare in altre disposizioni, qualora questa soglia minima di gravità non sia raggiunta, per arrivare comunque alla constatazione della violazione dell’art. 3 cit..
Secondo la Corte infatti: “l’apprezzamento di questo standard minimo è relativo e dipende ed è quindi, condizionato dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o mentali oltre che […] dallo stato di salute della vittima”, nell’ambito di un esame unitario e complessivo del caso concreto in tutte le sue componenti che si richiede al fine di poter ritenere violato l’art. 3 C.e.d.u.; visto che la Corte espressamente afferma che affinché si possa qualificare un trattamento come degradante, può essere sufficiente che la vittima “avverta” l’umiliazione e sia umiliata ai propri occhi anche se non a quelli altrui, e che la vittima sia umiliata non a causa della semplice condanna, ma a causa dell’esecuzione della pena.
La valutazione che si impone per escludere la violazione dell’art. 3 cit., dipende inscindibilmente dallo status anche fisico del soggetto, dalla natura e contesto della pena, oltre che, dalle modalità della sua esecuzione; il concetto di trattamento degradante rappresenta il parametro principe ai fini dell’esame delle condizioni di detenzione, alla luce dell’assenza di norme specifiche nell’ambito della Convenzione. Ora, sul punto, è tollerabile un certo “tasso di disuguaglianza”, vista la differenza di status che vede il cittadino in vinculis rispetto al cittadino libero, che elimini le pari chances di libertà nella scelta delle cure soprattutto di malattie che compromettono il sistema immunitario ed il normale esplicarsi della vita, senza recare pregiudizio al principio di uguaglianza sancito in Costituzione e senza comprimere il livello essenziale dei diritti connessi al trattamento medico?
Per i soggetti affetti da neoplasie maligne come nel caso che ci occupa, è sufficiente garantire il trasferimento all’interno di istituti “terzi” per usufruire della garanzia di un trattamento sanitario idoneo ovvero il migliore, quello a cui ha diritto ogni uomo compresa l’assistenza di volontari e di psicologi, affinché il trattamento penitenziario non sia degradante? Senza la previsione di programmi di “riabilitazione” ad un normale stile di vita dopo un percorso terapeutico lungo e di sofferenza come si possono valutare le prestazioni sanitarie in strutture detentive appropriate alle esigenze di cura e non umilianti per l’individuo?
Molta strada ancora v’è da percorrere.
1.5 una cartina di tornasole della linea normativa dei paesi europei sui diritti umani
La nozione di salute è polisemica, e forse per questo, è stata sempre manipolata dai vari ordinamenti nel suo percorso storico, differenziandosi al variare delle finalità politiche, tanto che il concetto di salute si è trasformato da “bene” individuale (necessità del singolo di essere curato) a bene collettivo (interesse della comunità ad avere individui ritenuti sani), ciò comportando un adeguamento in termini relativi da parte dei vari Stati europei verso la questione sanitaria. Di conseguenza anche il ruolo dello Stato istituzione è cambiato, “transitando” dal mero ruolo assistenzialistico a quello di reale gestore esclusivo della sanità, con puntuali doveri di intervento.
La Conferenza Internazionale della Sanità (New York, 1946) e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), definiscono la salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consistente soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilità della sanità dei loro popoli: essi per farvi parte devono prendere le misure sanitarie e sociali appropriate”.
Da tale nozione, compito principe dello Stato diviene la prevenzione ed il restringimento delle condizioni di non-benessere, quelle che sono di ostacolo al soggetto affinché la sua vita si esplichi con dignità. Competenza-dovere di ogni Stato sociale, è garantire l’accesso a tale diritto fondamentale tutelando i soggetti deboli e marginali.
L’ OMS, con l’emanazione delle direttive intitolate: “Principio di equivalenza delle cure”, sancisce l’esigenza primigenia di garantire al detenuto le stesse cure mediche e psico-sociali che sono assicurate a tutti gli altri membri della comunità; la garanzia dell’equità del diritto alla salute senza discriminazione alcuna, valevole per tutti i cittadini, è il fine e l’obiettivo perentorio che devono perseguire i servizi sanitari ad impronta solidaristica.
Si rende necessario distinguere, “l’equità della salute” dalla semplice (ma non per questo svalutata) “equità delle cure”, poiché, la prima non è la mera disponibilità dei servizi sanitari, ma è l’effettiva usufruibilità degli stessi per raggiungere un reale stato di salute da parte di ogni utente in base allo stato individuale di necessità.
L’esercizio concreto di tale diritto, comporta l’elaborazione di paradigmi etici ispirati ad una concezione della giustizia personale ed al contempo sociale, cioè, rispettosa delle esigenze individuali e collettive.
Il principio di giustizia, in base anche ai dictat della Corte europea, si traduce, nell’adozione di due canoni correlati: 1) il canone della imparzialità, fondato sull’uguale dignità degli uomini; implica che tutti hanno diritto ad eguale trattamento per mezzo della garanzia dei “beni” fondamentali. 2) il canone dell’equa distribuzione delle risorse, fondato sul riconoscimento del principio della solidarietà; esige che sia data stessa possibilità di accesso ai beni per convenire ad un’adeguata realizzazione personale, primo fra tutti i beni quello della salute.
Se si conviene come giusto che sia, come un diritto assoluto, intangibile della persona, si nota come a cascata né discendano plurimi principi: 1) quello della autonomia che rispecchia, il rispetto del diritto del soggetto all’autodeterminazione; 2) quello di beneficialità, il quale, impone la ricerca di ogni mezzo atto a tutelare la salute in primis ed il benessere poi, della persona; 3) quello di non-maleficità il quale, esige di non recar danno alla persona; 4) quello di giustizia che si fonda sulla non discriminazione.
Ma, l’applicazione de summenzionati principi, non è mai automatica, giacché si compongono in maniera variegata innestando tra loro situazioni apparentemente configgenti. Sebbene tra i principali diritti della persona malata sono riconosciuti come indisponibili ed irrinunciabili nonché strettamente connessi –con il diritto alla salute- il diritto alla vita, il diritto alla privacy, il diritto a non subire discriminazioni, il diritto ad essere adeguatamente informati, il diritto di esprimere liberamente il personale consenso informato, la tutela della salute, si pone su di un piano prettamente sociale, con radici profonde ricavabili dal principio di solidarietà, implicante la negazione della scissione fra la condizione di libertà personale e status detentionis fra i soggetti, e il riconoscimento della necessaria interrelazione tra i diversi progetti di vita.
Come logico corollario: l’affermazione sia dell’uguaglianza della persona nelle differenti forme della sua esistenza sia dell’ingiustizia nel trattare le persone con modalità diversificate. La giustizia, esige la risoluzione per così dire di qualunque “foggia” discriminatoria ed è necessaria per il ripristino dell’uguaglianza formale e sostanziale –così come imposta dalla Carta costituzionale- nonché di interessi nel momento in cui si è verificata una insostenibile sperequazione. In definitiva la salute, si pone in relazione alla reale e concreta capacità del soggetto di perseguire la “personale concezione di salute”, di stabilizzare e mantenere la propria capacità progettuale in tutte le diverse scelte possibili esistenziali e, la pari capacità e/o possibilità di fruire dei servizi sanitari.
Dostoevsky sosteneva: “la qualità della società si misura dalla qualità delle sue prigioni”, ed ancora nel 1987 le Regole minime europee raccomandano all’art. 1 che “la privazione della libertà deve eseguirsi in condizioni materiali e morali che salvaguardino il rispetto della dignità umana e in conformità con questa regola”; inoltre, all’art. 3 viene chiarito che “la finalità del trattamento dei detenuti deve essere quello di salvaguardare la salute e la dignità”.
La dissomiglianza dell’universo carcerario, e l’esigenza di una giusta pena, non giustificano misure –per la comunità detenuta- idonee a comportare il perire della facoltà di esercitare i propri diritti ovvero il mantenimento della loro titolarità in absentia della tutela delle necessarie –nel perseguimento- capacità individuali.
Come in definitiva espresso dalla Corte europea -anche se non condivisibile la scelta operata- « Si l’on ne peut déduire une obbligation générale de libérer un détenu pour motifs de santé, l’article 3 de la Convention impose en tout cas à l’Etat de protéger l’intégrité phisique des personnes privées de liberté notamment par l’administration des soins médicaux requis »
A detta di chi scrive bisognerebbe osare di più ; concedere interventi della stessa Corte europea sul “merito”delle scelte operate dalla Amministrazione penitenziaria, quando queste incidano irrimediabilmente non solo sul trattamento del detenuto, ma rischino di compromettere la salute, la personalità, la rieducazione, ma più intensamente il diritto alla vita. Se dunque la giurisprudenza europea non impone la liberazione del soggetto che versi in cattive condizioni di salute; altrettanto vero che si richiede oltre che l’adozione di adeguati trattamenti terapeutici –che nel caso di specie hanno trovato vaglio positivo anche se si sarebbe potuto intraprendere un diverso percorso- la valutazione sul rispetto della dignità umana.
dott.ssa Catia Ferrieri, Collaboratrice presso le Case Circondariali di Perugia ed Orvieto (diritto e procedura penale interna) - dott.ssa Chiara Crisci, Collaboratrice presso lo Studio Legale Carnelutti di Roma (diritto e procedura penale europea) - settembre 2007
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([1])Cfr., in particolare il Body of principles for the protection of all persons under any form of detention or imprisonment, adottato dall’ Assemblea Generale ONU, Ris. 43/173 del 9 dicembre 1988; I Basic principles for the treatment of prisoners, Assemblea Generale ONU, Ris. 45/111 del 14 dicembre 1990. Più in particolare, il canone cristallizzato nell’art. 5 , Dich. Univ. Dir. Uomo, ai sensi del quale: No one shall be subjeccted to torture or cruel, innuman or degradino treatment or punishment, che ha informato di sè tutta la normazione internazionale a tutela della persona detenuta.
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