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Una riflessione sulla pratica del cd. riconoscimento informale (o ravvisamento) e sulla utilizzabilità processuale delle risultanze probatorie così ottenute.
Il codice di procedura penale ha operato, come noto, una scelta intermedia tra libertà e tassatività dei mezzi di prova, perché, pur riconoscendo con l’articolo 189 c.p.p. la possibilità di introdurre nel processo prove non disciplinate dalla legge, ha fissato condizioni a cui è subordinata la loro ammissibilità.
Il principio espresso dall’articolo 189 c.p.p. è invero spesso utilizzato per introdurre mezzi di prova che, pur tendendo al risultato cui sono preordinati i mezzi di prova tipici, si discostano dal metodo normativamente previsto. Così, ad esempio, sostituendo al modello legale della ricognizione di persone di cui agli artt. 213 ss. c.p.p. quello del ravvisamento o riconoscimento effettuato dalla PG senza rispetto delle regole dettate per la ricognizione di persona.
Detta pratica è ritenuta legittima e praticabile da giurisprudenza di legittimità pressoché unanime, anche facendo ricorso al cd. libero convincimento del giudice: “l'" individuazione " fotografica, costituendo prova atipica in quanto non disciplinata dalla legge nè collocabile nell'ambito della "ricognizione" personale prevista dall'art. 213 c.p.p., legittimamente può essere assunta - se ritenuta dal giudice idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti - ai sensi dell'art. 189 c.p.p. In tal caso, infatti, la certezza della prova dipende non dal riconoscimento in sè, ma dalla ritenuta attendibilità della deposizione di chi, avendo esaminato la fotografia dell'imputato, si dica certo della sua identificazione. “ (ex multis Cassazione penale , sez. II, 28 febbraio 1997, n. 3382, Falco, Cass. pen. 1998, 1737, ma anche sez. IV, 01 febbraio 1996, n. 3494, sez. IV , 04 febbraio 2004 , n. 16902).
Si sovrappongono così due istituti diversi, la ricognizione, che ha lo scopo di pervenire alla individuazione dell'autore del reato, e la testimonianza, che ha invece la funzione di dedurre nel processo un fatto storicamente avvenuto, affermando il principio di fungibilità dei mezzi di prova.
L’orientamento non può peraltro essere condiviso e che anzi va contrastato perché lesivo del principio di tassatività e quella della formazione della prova nel contraddittorio, risolvendosi – ancora una volta in nome della ricerca della ineffabile verità reale - in una elusione delle garanzie poste dal codice di procedura penale a garanzia dell’indagato.
Del resto, “la prova, per risultare idonea all'accertamento dei fatti non può prescindere da forme volte a garantire genuinità e affidabilità sicura”. (Cassazione penale , sez. VI, 01 marzo 1993Minzolini Mass. pen. cass. 1993, fasc. 10, 67).
In effetti, come osserva migliore dottrina (Rafaraci, Ricognizione informale dell’imputato e (pretesa) fungibilità delle forme probatorie, Cass. pen., 1998, p. 1739ss.) la rievocazione mnemonica percettiva in cui si sostanzia la ricognizione, dato che si traduce in un assenso, nel dubbio o in una negazione, è per sua natura refrattaria ad ogni vaglio critico sul piano logico – dialogico (Cordero parla di “corto circuito delle sensazioni”): ciò la espone ad un rischio di suggestione molto altro, facendo del mezzo di prova in questione un mezzo assai poco affidabile in un sistema incentrato al metodo del contraddittorio. E proprio per questo il legislatore – che è consapevole del rischio di suggestioni anche involontarie – pone una serie di garanzie a tutela dell’indagato, precedenti e contemporanee all’atto della ricognizione, volte a contenere il rischio di suggestione, presidiate a pena di nullità: la tutela processuale prestata a tali elementi indica che proprio questi ne costituiscono la fattispecie, condizionandone dunque la validità.
In effetti, la giurisprudenza di legittimità ha cercato di dribblare il problema, in nome di un concreto pragmatismo “svincolato da orpelli burocratici di contorno”, distinguendo tra i riconoscimenti e le ricognizioni, non essendo per i primi necessarie le formalità dettate per i secondi.
Pare però trattarsi di un abile escamotage linguistico che consente una dilatazione contra legem dei poteri giudiziali in tema di prova. In effetti, così ragionando, il giudice sovrappone le proprie valutazioni a quelle del legislatore, che ha ritenuto utile per l’accertamento della verità processuale il modello tipico. Il che equivale ad escludere che lo stesso accertamento possa essere utilmente compiuto attraverso un modello atipico (rectius: adottando un mezzo tipico per un fine atipico).
Del resto, la stessa Cassazione ha autorevolmente affermato a Sezioni Unite che “non può legittimarsi, sulla scia di una cultura inquisitoria che, in quanto estranea al vigente codice, deve essere definitivamente abbandonata, l'apertura di varchi preoccupanti nella tassatività e nella legalità del sistema probatorio, proponendosi «veicoli di convincimento... affidati interamente alle scelte dell'investigatore». Va superata ogni forma di distonia tra prassi delle indagini, condizionata ancora da atteggiamenti inquisitori, e concezione codificata della prova, qual è strutturata nel vigente sistema accusatorio. Va vinta qualunque tentazione di forzare le regole processuali in nome di astratte esigenze di ricerca della verità reale, considerato che le dette regole non incorporano soltanto una neutra disciplina della sequenza procedimentale, ma costituiscono una garanzia” (cd. sentenza Torcasio, 28 maggio 2003, n. 36747).
Invero, va dato atto che esiste un filone giurisprudenziale di legittimità che ha recepito le osservazioni critiche della dottrina proprio in tema di riconoscimento informale.
“L'art. 187 c.p.p. prevede che il giudice può assumere la prova non disciplinata, se essa risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti. Il che non lo esonera, in virtù del principio astratto del libero convincimento, dall'adozione di criteri legali espressi per talun altra prova disciplinata, su cui quella atipica (è il caso del riconoscimento fotografico, rispetto alla ricognizione di persona) o pure tipica ma non compiutamente disciplinata (è il caso della chiamata di correo, rispetto alla testimonianza), si modelli, o diversamente di consolidate massime d'esperienza, o d'inferenza secondo una disciplina scientifica. Nel caso del riconoscimento fotografico, attesa la ridotta efficacia rappresentativa del mezzo, dal punto di vista storico (l'immagine deve essere la più recente possibile) e spaziale (cromatico: in particolare quella in tonalità di grigio è astratta; volumetrico: manca comunque di una dimensione spaziale e non reca di solito termini di raffronto, per esempio dell'altezza), in parallelo a quanto disposto dagli artt. 213 e s. c.p.p. circa la ricognizione di persona, prima di invitare il dichiarante ad individuarla tra le immagini di più persone possibilmente somiglianti, è opportuno riceverne il riferimento di precedenti percezioni visive avutene, ma soprattutto puntuale ed idonea descrizione, per la verifica di corrispondenza con le sembianze reali, avendo di mira che la visione fotografica inficia il risultato di successiva ricognizione di persona da parte di chi ha operato il riconoscimento, vieppiù se identificata per suo mezzo. Pertanto il giudice, se il riconoscimento fotografico è stato compiuto prima del giudizio, deve disporre quantomeno dell'immagine riconosciuta e verificare la correttezza dei criteri adottati da chi ha assunto l'atto.” (Cassazione penale, sez. V, 26 novembre 1998, n. 1858).
La soluzione di ritenere idoneo solo quel riconoscimento informale effettuato con le garanzia della ricognizione formale anche se compita in fase diversa da quella dibattimentale, è stata recepita da parte della giurisprudenza di legittimità, laddove statuiva che “nulla impedisce peraltro che la ricognizione venga effettuata al di fuori e prima del dibattimento, anche se anche in tale occasioni dovranno essere osservate con scrupolosa attenzione le garanzie previste per la fase dibattimentale: se così è, e solo in questo caso, le risultanze potranno essere acquisite ai fini della decisione (Cassazione penale, sez. III; 21.05.2002, De Marco, in Guida al Diritto, 2002, Dossier Mensile 9, p.64).
Peraltro, il filone interpretativo è ora stato rafforzato dalla pronuncia del Tribunale di Brescia, II Sezione riesame, che in data 20 giugno 2007 annullava una ordinanza di custodia cautelare in carcere per un indagato proprio perché la ricognizione – unico elemento indiziante - era stata effettuata in spregio ad ogni garanzia di legge.
Scrive infatti il tribunale bresciano che
“l’individuazione di [omissis] quali tra gli aggressori dei tre offesi (…) è avvenuta in modo informale ad opera della p.g., e cioè de visu presso il Comando di (…).Tuttavia, questo atto di individuazione (pur legittimo ex artt. 55-348 c.p.p.), non è convincente. Il riconoscimento è avvenuto per [omissis] senza che vi fosse una previa descrizione da parte degli offesi, con esposizione di dettagli fisionomici atti a caratterizzare fisicamente i partecipanti all’aggressione (..). I tre indagati sono stati presentati alle parti lese insieme a un gruppo di soggetti di etnia altoatesina, tutti somiglianti per l’aspetto fisico comune (giovani normalmente corpulenti e biondi) e, pertanto, facilmente tra loro confondibili. Il contesto in cui è avvenuta l’individuazione non rassicura siccome non promanante da accadimento spontaneo (incontro casuale in caserma tra vittime ed indiziati). Tanto basta, allo stato, per ritenere l’indicazione del ricorrente non sufficientemente persuasiva (salvo esiti certi che solo atto di formale ricognizione di persona potrà assicurare).”
Peraltro, per dovere di completezza di evidenzia come del tutto condivisibilmente si è ritenuto che il ravvisamento informale possa pregiudicare una volta per tutte anche la possibilità di giungere ad una prova piena tramite il mezzo di prova tipico: infatti, “una volta effettuato il riconoscimento di una persona, i soggetti tendono a mantenerlo fermo anche in seguito, per una sorta di effetto di congelamento: nelle fasi successive del procedimento tenderanno a rifarsi al primo riconoscimento, piuttosto che all’esperienza originaria, con il pericolo di verificarsi di falsi positivi“ (Trib. Milano 15 luglio 1998, in Guida al Diritto, 1998, 48, 78).
Nessuna scorciatoia, dunque: l’unica verità accertabile nel processo è quella che consiste nel prudente apprezzamento delle risultanze processuali, con attenta valutazione della fondatezza delle accuse e delle difese, ed in particolare con la ragionevole considerazione della "qualità" di ogni fronte probatoria e della sua credibilità, pena sconfinamento nell'arbitrio; il convincimento del giudice non può formarsi nella sopraffazione della verità processuale o nella prevaricazione del costrutto probatorio ma deve sempre scaturire dalla regolata raccolta dei mezzi di prova, secondo le regole codificate e nel rispetto dei principi fondamentali.
avv. Nicola Canestrini - luglio 2007
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