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Penale.it - Tribunale di Perugia, Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare, Sentenza 12 aprile 2007 (est. Micheli)

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Tribunale di Perugia, Ufficio del Giudice per l'Udienza Preliminare, Sentenza 12 aprile 2007 (est. Micheli)
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Ancora sul cd. bonus bebè: un pasticciaccio che esclude il dolo

                             MOTIVAZIONE
Il Pubblico Ministero ha esercitato l’azione penale, con richiesta di rinvio a giudizio, nei confronti del cittadino marocchino T.A., contestandogli i reati di falsità ideologica commessa in atto pubblico e di truffa ex art. 640-bis c.p.
La vicenda è correlata alla erogazione dei c.d. “bonus bebè”, disposti dalla Legge Finanziaria per il 2006 in favore dei bimbi nati l’anno precedente, e l’assunto accusatorio si fonda sul dato - innegabile, in verità - che vide l’imputato sottoscrivere un’autocertificazione attestante il possesso da parte sua dei requisiti previsti per ricevere il contributo in questione, poi effettivamente concessogli: autocertificazione che invece non rispondeva a verità, nella parte in cui evidenziava il possesso della cittadinanza italiana (o di altro paese dell’Unione Europea) in capo al genitore istante.
Il fatto, come già anticipato, è pacifico: sicuramente il prevenuto non si trovava nelle condizioni stabilite dalla legge per l’accesso al bonus di 1.000,00 euro, sicuramente egli sottoscrisse la dichiarazione sostitutiva che dava invece atto del contrario, sicuramente percepì sine titulo il contributo, tramite l’Ufficio Postale che gli era stato indicato nella prima comunicazione.    
Non di meno, già la constatazione di fatto che molte altre persone di origine extracomunitaria (ma comunque perfettamente in regola con la normativa sul soggiorno, altrimenti non avrebbero potuto disporre neppure di documenti di identità) ebbero a trovarsi nell’identica situazione lascia ragionevolmente intendere che le informazioni rivolte ai genitori dei neonati ebbero qualche lacuna: si dovrebbe altrimenti ipotizzare che, a fronte di quella missiva, tutti i maghrebini, slavi, albanesi od orientali titolari di permesso di soggiorno in Italia e freschi papà o madri decisero con moto spontaneo di ignorare il loro passato di uomini e donne rispettosi delle leggi, altrimenti quel soggiorno l’avrebbero perduto da tempo, e si misero dolosamente a gabbare l’Erario.
 
Questo Giudice, in una realtà abbastanza contenuta sul piano demografico come quella del circondario di Perugia, è assegnatario di qualche buona decina di processi analoghi, che dovrebbero dunque moltiplicarsi proporzionalmente al numero dei magistrati assegnati alla Sezione G.U.P.: procedendo in via esponenziale verso la ricostruzione dei dati distrettuali o nazionali, il numero raggiunge facilmente le migliaia di casi.  
E’ seriamente sostenibile che tutti gli extracomunitari coinvolti nei procedimenti in parola abbiano ragionato nel senso che “l’occasione fa l’uomo ladro”, lasciandosi lusingare da una lettera che prometteva 1.000,00 euro e poi glissando con la frode sulle spiegazioni allegate ?
Venendo al concreto, in quello in esame come in tutte le altre identiche situazioni cui si è fatto cenno, il figlio neonato dell’imputato fu destinatario di una missiva a firma dell’allora Capo del Governo, il cui contenuto era semplice e colloquiale: al bimbo veniva rivolta una domanda [“E’ il Presidente del Consiglio a scriverti per porti probabilmente anche la prima domanda della tua vita: lo sai che la nuova legge finanziaria ti assegna un bonus di 1.000,00 (mille/00) euro?”], con l’indicazione ai genitori dell’Ufficio Postale dove poter riscuotere il bonus e il rinvio all’allegato per “tutte le informazioni necessarie”.  
Nella missiva, peraltro assai reclamizzata nei mesi precedenti sui mass-media, non vi era dunque alcun riferimento a possibili eccezioni: ai genitori non veniva detto che, forse, non avrebbero avuto titolo a quella erogazione perché extracomunitari (o magari perché italiani residenti all’estero, o titolari di redditi molto elevati), ma solo che ci si poteva recare in un dato Ufficio Postale e che c’erano delle “informazioni” allegate.
L’impatto della lettera era dunque immediato e assai confortante, specialmente per chi, percependo redditi non certo da nababbo e vivendo la prospettiva di mantenere un figlio, si sentiva prospettare un assegno da 1.000,00 euro in arrivo.     
La pagina esplicativa trasmessa in allegato era invece più asettica, con l’elenco dei “requisiti e modalità per la riscossione del bonus”: le prime tre condizioni evidenziate erano l’esercizio della potestà genitoriale, il possesso della cittadinanza italiana o di altro paese dell’UE, la residenza in Italia.
In linea di principio, si dovrebbe pertanto affermare che l’imputato, dopo un primo, giustificato entusiasmo alla lettura dello scritto del Presidente del Consiglio che gli paventava 1.000,00 euro per mantenere il figlio, avrebbe dovuto comprendere immediatamente che era il caso di ridimensionarsi non essendo cittadino italiano, e cestinare missiva ed allegato tornando a lavorare per procurarsi di che vivere, al più con qualche rimbrotto verso chi gli aveva fatto sperare per un momento, e quasi annusare, un regalo che invece non era per lui.      
Ma, dovendo necessariamente calibrare l’analisi dei comportamenti umani valutando il caso concreto, se ci si mette nei panni del T.I forse nessuno avrebbe fatto così.
Innanzi tutto, con la logica spicciola di chi è appunto abituato a guadagnarsi il pane e fa le cose che reputa necessarie, l’imputato non poté che rimanere perplesso davanti al confronto tra le due missive (ammesso peraltro che lesse davvero l’allegato, e non andò invece a brindare al bar fermandosi alle promesse del Primo Ministro senza preoccuparsi più di tanto delle “informazioni”): che non era cittadino italiano lo sapeva bene, ma altrettanto bene lo sapeva il Governo, che evidentemente aveva consultato i dati dell’anagrafe per individuare i soggetti a cui scrivere.   E, se lo sapeva, che gli aveva scritto a fare ? Solo per il dispetto di fargli sentire il profumo dei 1.000,00 euro per poi toglierglieli da sotto il naso ? Certo, approfondendo i problemi poteva venir fuori che un bambino dal nome palesemente esotico fosse comunque figlio di uno straniero diventato cittadino italiano per matrimonio od altra via, ed allora lo Stato aveva fatto bene a informare tutti: ma perché, si sarebbe chiesto assai più pragmaticamente l’imputato, non fare le verifiche prima ?
Ergo, al posto del prevenuto, tutti avrebbero fatto come fece lui; vale a dire, si sarebbero premurati di recarsi all’Ufficio Postale a chiedere come stavano le cose, e scoprire se quella somma  - che avrebbe fatto comodo alla sua famiglia -  poteva essergli riconosciuta. A quel punto, pare che nessuno si sia preso la briga di spiegargli davvero che bisognava essere cittadini italiani: gli impiegati, come si evince anche dalla comunicazione di notitia criminis che li disegna financo “indotti in errore” dagli scaltri extracomunitari, si trincerarono di fatto dietro a un non liquet. A loro non competeva e non competono verifiche, soprattutto per evitare addebiti di ordine contabile, dunque potevano limitarsi solo a sottoporre la dichiarazione sostitutiva agli interessati e rimettere a loro la responsabilità di firmarla: ma se questo vale oggi per rendere irragionevole l’ipotesi di prendersela con i funzionari delle Poste Italiane per i numerosissimi esborsi indebiti, non poteva valere ieri per scaricare indosso agli extracomunitari tutto il peso della vicenda.
Certo, lo straniero avrebbe potuto rendersi conto che l’addetto allo sportello dell’Ufficio Postale non era un poliziotto o un impiegato dell’anagrafe, con poteri di controllo sulla sua identità e sui suoi dati personali, ma per lui - in concreto - quella persona era lo Stato, che prima gli si era palesato attraverso la lettera del Governo e oggi gli dava informazioni sull’agognato bonus mettendogli sotto il naso (un’altra volta) un documento predisposto e dicendogli che solo attraverso quello poteva ottenere i 1.000,00 euro.    
Infatti, l’autocertificazione non veniva compilata dagli interessati, almeno nella prima parte, ma riempita dai dati ricavati dall’elaboratore sulla base delle indicazioni anagrafiche riferibili al richiedente.  Dunque, lo Stato non gli diceva che i soldi non gli spettavano, né con la prima lettera (e avrebbe potuto farlo, evitando anche di scrivergli), né con le risposte del personale dell’Ufficio Postale: l’estrema assurdità, poi, era vedere un impiegato che gli chiedeva l’esibizione di un documento d’identità, e ne faceva magari debita fotocopia, senza dirgli neppure in quel momento che i soldi non poteva darglieli.
Ad escludere definitivamente il dolo dell’imputato, e di tutti coloro che si trovarono nella sua situazione, si rileva infatti che il T. consegnò presso l’Ufficio Postale un suo documento, ed è fatto notorio che sulla carta d’identità venga riportata a chiare lettere la cittadinanza del soggetto ivi raffigurato; non si sa con certezza quale documento l’imputato abbia esibito nella circostanza, ma deve ritenersi che la carta d’identità sia stato quello più usato, come normalmente accade (e l’ipotesi che qualcuno poté avvalersi di documenti senza l’indicazione della cittadinanza, come la patente di guida che peraltro non è documento di identità, vale altrettanto rispetto a quella che qualcuno poté esibire addirittura il permesso di soggiorno, il che avrebbe reso a dir poco grottesca la situazione).
Un comportamento artificioso e truffaldino degno di tali nomi vuole che l’autore nasconda o dissimuli la realtà: ma quale frode realizzò mai chi si limitò a firmare un documento predisposto da altri, presentatogli come strumento per ottenere una somma di cui aveva sentito parlare in TV, in cui risultava una sua cittadinanza italiana che invece egli stesso sconfessava facendo vedere i suoi documenti ? Dove è mai la pretesa induzione in errore ?
Va poi considerato, in una prospettiva di utile sostenibilità dell’accusa in un eventuale giudizio, che la prova del dolo rimarrebbe sfuggente anche sotto diversi profili.
L’atto contenente le informazioni allegate alla missiva del Presidente del Consiglio era in lingua italiana, senza traduzioni di sorta; ed appare quanto meno difficile la prova di una conoscenza dell’italiano tanto approfondita da parte del T., sì da fargli distinguere compiutamente fra le diverse nozioni formali di cittadinanza, residenza, o titolarità di permesso di soggiorno. Come potrebbe superarsi l’eventuale  - ma probabile -  allegazione difensiva di aver confuso uno di quei concetti per un altro ? E’ vero che i destinatari del bonus avrebbero dovuto dimostrare di essere sia cittadini che residenti, cumulandosi i due requisiti ai punti 2 e 3 delle informazioni, ma di permesso di soggiorno non veniva fatta menzione: perciò, qualora il prevenuto sostenesse di aver inteso che per “cittadino” si voleva descrivere la persona con titolo valido per la permanenza in Italia (e lui ce l’aveva), la prova contraria resterebbe, con ogni verosimiglianza, impossibile da raggiungere.
Né, in tal modo, si darebbe la stura alla rilevanza di un’inescusabile ignorantia legis: si tratterebbe infatti di errore di diritto, ma non sul divieto, bensì sul fatto costituente reato, risolvendosi nell’erronea percezione di un elemento normativo della fattispecie, tratto da fonte extrapenale. Ancora una volta, tale da escludere in radice la sussistenza del dolo.
Nello specifico, l’approssimazione con cui il T. ebbe ad approcciarsi alla pratica per accedere al finanziamento la dice lunga sulla possibilità che egli cadde in errore incolpevole, anche a causa del suo livello culturale: significativamente, egli confuse la data di presentazione della dichiarazione sostitutiva di notorietà con la data di nascita della moglie, della quale aveva appena indicato il codice fiscale nello spazio precedente, e pensò che l’indicazione successiva di un giorno, un mese e un anno dovessero riguardare sempre gli altri componenti il suo nucleo familiare. Ancor più rilevante, a definitiva conferma della sua buona fede, è la constatazione che egli restituì il bonus non appena gli venne fatto notare che non avrebbe potuto riceverlo, e ciò accadde già prima che la Polizia Giudiziaria lo informasse della pendenza del procedimento ai fini della rituale elezione di domicilio (come documentato con le produzioni difensive).
Da ultimo, deve sottolinearsi che la conclusione cui si perviene, espressa nella formula di cui al dispositivo, è non solo conforme a giustizia sul piano tecnico, ma anche rispondente al buon senso.   
Non a caso, la finanziaria per il 2007 ha stabilito l’impossibilità di ripetere le somme erogate in fattispecie come quella in esame, facendosi dunque carico  - oltre che di un problema di costi di esazione che renderebbero forse sconvenienti le procedure esecutive -  anche di un oggettivo problema  “sociale” provocato dai meccanismi di erogazione delle agevolazioni in parola, evidentemente percepite da chi si riteneva in buona fede.    
Il T., in sostanza, ha fatto male a comportarsi per l’ennesima volta con scrupolo e onestà, perché se non avesse restituito tempestivamente i 1.000,00 euro oggi non glieli chiederebbe più nessuno.
A fronte della inesigibilità di quel denaro, il permanere della sanzione penale a carico di chi venga accusato di averlo riscosso (e lo abbia financo ridato indietro, nel caso in esame) costituisce una sorta di controsenso, che le recenti disposizioni in tema di indulto renderebbero ancor più paradossale, laddove un’ipotetica  - ma impossibile, per quanto sopra evidenziato -  sentenza di condanna portasse a una pena da dichiararsi estinta.   L’unico effetto che ne potrebbe derivare sarebbe quello, in vero sommamente ingiusto, di determinare per l’imputato ostacoli al rinnovo del permesso di soggiorno, proprio a lui che  - come tutti coloro nelle sue condizioni -  era censito dall’Anagrafe e godeva di assistenza sanitaria perché regolare in Italia e dedito a un lavoro lecito.
La descrizione del paradosso è presto detta, e somiglia all’andirivieni di un’altalena.    
Il T., in pratica, si sentì dire dallo Stato che poteva avere 1.000,00 euro, e subito dopo gli venne detto (ma non era facile capirlo) che non erano per lui. Andò all’Ufficio Postale e capì che c’era un modo per averli, senza che egli dovesse  nascondere alcunché; quindi gli vennero dati, ma poi subì un procedimento penale, e l’imputato dovette comprendere che quei soldi erano da restituire. A quel punto è arrivata una legge, che ha detto che il denaro non lo doveva ridare più indietro (intanto, ahilui, lo aveva già fatto), ma se il processo andasse avanti potrebbe arrivare una condanna, magari a una pena pecuniaria per effetto di conversione: pena che il T. intuirebbe di dover pagare, anzi no perché c’è l’indulto.
Si è prima ipotizzato che l’imputato non capisca l’italiano, ma fargli vivere un processo a carico con simili presupposti e conseguenze lo porterebbe a non capire gli italiani.
   P. Q. M.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare;
visto l’art. 425 c.p.p.
                          DICHIARA

non luogo a procedere nei confronti di T. A. in ordine all’imputazione a lui ascritta, perché il fatto non costituisce reato.
Perugia, 12.04.2007
      IL GIUDICE
      dott. Paolo Micheli
 
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