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Penale.it - Tribunale di Varese, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, Sentenza 12 gennaio 2007 (dep. 23 gennaio 2007) n. 06/07

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Tribunale di Varese, Ufficio del Giudice per le indagini preliminari, Sentenza 12 gennaio 2007 (dep. 23 gennaio 2007) n. 06/07
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Falso ideologico e truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche: la nota sentenza sul cd. bonus bebè.

TRIBUNALE DI VARESE
UFFICIO DEL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
Il Giudice per le Indagini Preliminari Giuseppe Battarino
all’udienza del 12 gennaio 2007 ha pronunciato la seguente sentenza ai sensi dell’art. 438ss, 530 c.p.p. nel procedimento penale
 
c o n t r o
 
SB nato a  il 
residente a 
libero, non comparso
contumace
 
Difeso d'ufficio dall’ Avv. Alessandro Favata, del Foro di Varese
 
 
LJ nato a  il 
residente a 
libero, presente
 
Difeso di fiducia dall’ Avv. Stefano Amirante, del Foro di Varese
 
i m p u t a t i 
A) del delitto p. e p. dall'art. 483 c.p. perchè, con "dichiarazione sostitutiva di certificazione (autocertificazione) relativa al possesso dei requisiti per la riscossione dell'assegno di cui all'art. 1 comma 331 legge finanziaria 2006" attestavano falsamente di essere cittadini italiani o di altro paese dell'Unione Europea;
 
B) del delitto p. e p. dall'art. 640 bis c.p. perchè, con artifizi e raggiri consistiti nel rendere false dichiarazioni di cui al capo A), inducendo in errore il Ministero dell'Economia e delle Finanze, si procuravano un ingiusto profitto consistito nella erogazione dell'assegno di €. 1.000,00 previsto dall'art. 1 commi 331, 332, 333 della legge 23 dicembre 2005 n. 266 (legge finanziaria 2006) con pari danno per la persona offesa.
Accertati in Varese in data 03.05.2006
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
 
La Procura della Repubblica di Varese ha esercitato l’azione penale nei confronti di SB e LJ ipotizzando a loro carico la commissione dei delitti di truffa aggravata e di falso ideologico in atto pubblico.
All’odierna udienza sono stati discussi il giudizio abbreviato richiesto dall’imputato LJ a mezzo del suo difensore, e la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’imputato SB, rimasto contumace.
La trattazione congiunta delle due posizioni, derivante dalla connessione probatoria riconosciuta dal Pubblico Ministero, non ha motivo di venir meno in questa fase, potendosi pronunciare un provvedimento unico, in forma di sentenza, proprio in forza dell’omogeneità delle posizioni e delle prove: di assoluzione per LJ, di non luogo a procedere per SB.
La vicenda da cui trae origine l’accusa elevata nei confronti dei due imputati è quella della concessione di un assegno di mille euro per figlio nato o adottato, prevista dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato; legge finanziaria 2006).
Nell’articolato unico, che, come d’uso nelle annuali leggi finanziarie, contiene una molteplicità di previsioni normative, si deve fare riferimento ai commi 330 -333 dell’art. 1, che così dispongono:
330. Al fine di assicurare la realizzazione di interventi volti al sostegno delle famiglie e della solidarietà per lo sviluppo socio-economico, è istituito presso lo stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze un fondo, con una dotazione finanziaria di 1.140 milioni di euro per l’anno 2006, destinata alle finalità previste ai sensi della presente legge.
331. Per ogni figlio nato ovvero adottato nell’anno 2005 è concesso un assegno pari ad euro 1.000.
332. Il medesimo assegno di cui al comma 331 è concesso per ogni figlio nato nell’anno 2006, secondo o ulteriore per ordine di nascita, ovvero adottato.
333. Il Ministero dell’economia e delle finanze comunica per iscritto, entro il 15 gennaio 2006, la sede dell’ufficio postale di zona presso il quale gli assegni possono essere riscossi con riferimento all’assegno di cui al comma 331 e, previa verifica dell’ordine di nascita, entro la fine del mese successivo a quello di nascita o di adozione con riferimento all’assegno di cui al comma 332. Gli assegni possono essere riscossi, in deroga ad ogni disposizione vigente in materia di minori, dall’esercente la potestà sui figli di cui ai commi 331 e 332, semprechè residente, cittadino italiano ovvero comunitario ed appartenente a un nucleo familiare con un reddito complessivo, riferito all’anno 2004 ai fini dell’assegno di cui al comma 331 e all’anno 2005 ai fini dell’assegno di cui al comma 332, non superiore ad euro 50.000. Per nucleo familiare s’intende quello di cui all’articolo 1 del decreto del Ministro della sanità 22 gennaio 1993, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 21 del 27 gennaio 1993. La condizione reddituale di cui al presente comma è autocertificata dall’esercente la potestà, all’atto della riscossione dell’assegno, mediante riempimento e sottoscrizione di apposita formula prestampata in calce alla comunicazione del Ministero dell’economia e delle finanze, da verificare da parte dell’Agenzia delle entrate secondo procedure definite convenzionalmente. Per l’attuazione del presente comma il Ministero dell’economia e delle finanze – Dipartimento dell’amministrazione generale, del personale e dei servizi del tesoro si avvale di SOGEI Spa
 
Si è voluto riportare il testo della normativa di riferimento, per segnalarne la non perfetta perspicuità, al di là della ampiamente enfatizzata - sugli organi di stampa e per dichiarazioni di esponenti politici - elargizione a favore delle famiglie.
Che non si trattasse di norme di lineare applicazione è stato successivamente attestato dalla discussione sorta in sede di approvazione della legge finanziaria 2007 nella quale si è infine previsto che le somme di cui all’art. 1 comma 333 della legge 23 dicembre 2005 n. 266, erogate in favore di soggetti sprovvisti del requisito di cittadinanza italiana o comunitaria, non siano ripetibili; con il corollario dell’inefficacia delle ordinanze e ingiunzioni sanzionatorie emesse ai sensi dell’art. 18 della legge 24 novembre 1981 n. 689.
Questa scelta del legislatore nasce da due convergenti profili: la riconosciuta incongruità dell’esclusione dei cittadini stranieri regolarmente dimoranti in Italia da benefici dichiaratamente rivolti “al sostegno delle famiglie e della solidarietà per lo sviluppo socio-economico”; le difficoltà applicative che avevano portato ad errori sia da parte dei cittadini che da parte degli uffici incaricati dell’erogazione e del controllo.
Le modalità applicative delle norme relative alla concessione del beneficio hanno ulteriormente contribuito a discostare le prassi degli uffici e le percezioni dei singoli dal dettato normativo della L. 266/2005.
Infatti non è stata indirizzata agli aventi diritto, come previsto dalla legge, una comunicazione formale del Ministero dell’economia e delle finanze, bensì, insieme ad un modulo prestampato riportante i dati anagrafici completi del nuovo nato, una lettera personale del Presidente del Consiglio dei Ministri del seguente tenore
 
“Caro
felicitazioni per il tuo arrivo!
Questa è certamente la prima lettera che ti viene indirizzata. E’ il Presidente del Consiglio a scriverti per porti probabilmente anche la prima domanda della tua vita:
lo sai che la legge finanziaria ti assegna un bonus di 1000,00 (mille/00) euro?
I tuoi genitori potranno riscuoterlo presso questo Ufficio Postale [segue l’indirizzo dell’ufficio presso il quale riscuotere la somma] e troveranno tutte le informazioni necessarie nell’allegato a questa lettera.
Ti invio i più affettuosi auguri per una vita lunga, serena, piena di soddisfazioni e di successi e porgo ai tuoi genitori le più cordiali felicitazioni.
Un grosso bacio
Silvio Berlusconi”
 
Gli imputati, dopo avere ricevuto la lettera, si sono presentati all’ufficio postale loro rispettivamente indicato; hanno compilato il modulo prestampato allegato alla lettera nell’unica parte libera, cioè quella in cui andavano riportati i dati personali di chi ritirava la somma (e lo hanno fatto con dichiarazioni veritiere e complete sui loro dati anagrafici), sottoscrivendolo; hanno contestualmente esibito i documenti di identità  personale (genuini, da cui risultava la rispettiva cittadinanza straniera); hanno ricevuto dagli impiegati di Poste Italiane S.p.A. la somma di mille euro.
In questo comportamento, basato su quei presupposti, la Procura della Repubblica di Varese ravvisa i cennati delitti di truffa aggravata e falso ideologico.
Ciò in quanto nel modulo sottoscritto, la parte prestampata riportava la dichiarazione di
1.  essere residente in Italia
2.  essere cittadino italiano o di un altro Paese dell’Unione Europea
3.  esercitare la potestà sul figlio
 
La pluralità di motivi che devono condurre a sentenza di assoluzione per LJ e – sulla base del criterio di giudizio di cui all’art. 425 c.p.p. – di non luogo a procedere nei confronti di SB, può essere sinteticamente esaminata nel suo complesso, per poi evidenziare il motivo principale e assorbente che emerge dagli atti.
E’ ipotizzabile una diversa qualificazione giuridica del fatto tale da produrne l’ irrilevanza penale.
 
Il fatto stesso che il legislatore, come detto, si sia preoccupato di intervenire per regolare le sole conseguenze diverse da quelle penali, è sintomatico di una riconducibilità al solo ambito amministrativo o sanzionatorio amministrativo di questa vicenda.
Sul tema della qualificazione giuridica dei comportamenti produttivi di indebita percezione di erogazioni pubbliche si è espressa la giurisprudenza di legittimità.
Per quanto risulta dagli atti, siamo, nel caso di specie, di fronte ad una mera dichiarazione di un fatto rivelatosi non conforme al vero, esclusa qualsiasi ulteriore condotta decettiva da parte degli imputati, ovvero collocazione delle condotte in un contesto altrimenti qualificato da illiceità.
Si è in passato affermato, nella giurisprudenza di legittimità, che “sussiste rapporto di specialità tra l'ipotesi di reato di cui all'art. 316ter (indebita percezione di erogazioni in danno dello Stato, introdotto dall'art. 4 della legge 29 settembre 2000, n. 300) e il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche; ne deriva che, allorché la condotta incriminata sia consistita nella semplice attestazione di fatti non conformi al vero, integrata dall'art. 316ter, ed il profitto conseguito dall’agente non raggiunga la soglia minima di punibilità prevista dall'art. 316ter, comma 2,
la condotta contestata non ha più rilievo penale e resta sanzionata solo in via amministrativa” (Cass., II, n. 14817 del 6 marzo 2003): rapporto di specialità da riconoscersi altresì rispetto all’art. 483 c.pen., che descrive identica condotta, dichiarativa in senso lato.
Le circostanze concrete della dichiarazione resa dagli imputati, oggetto dell’accusa, porterebbero pertanto a sussumerne la condotta nella fattispecie di cui all’art. 316ter c.pen: e considerato il mancato superamento dei limiti quantitativi della somma percepita che determinano la rilevanza penale del fatto, ad assoluzione o a dichiarazione di non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato.
 
Non muta questa conclusione la considerazione di quanto affermato da Cass., II, n. 10231 del 10 febbraio 2006, che ha annullato con rinvio una sentenza in cui si affermava la sussistenza della fattispecie di cui all’art. 316ter in un’ipotesi di dichiarazioni false che avevano indotto all’erogazione di prestazioni sanitarie.
Non a caso tale ultima sentenza fa espresso richiamo a Cass. SS.UU. n. 2870 del 24 gennaio 1996, che aveva riconosciuto la sussistenza del solo reato di c.d. frode comunitaria, quando il soggetto si fosse limitato ad esporre dati e notizie falsi ed alle false dichiarazioni non si fossero accompagnati artifici e raggiri di altra natura; e all’ordinanza della Corte Costituzionale n. 95 dell’8 marzo 2004, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 316ter c.pen. riconoscendo a tale norma compiti di apprestamento di tutela complementare rispetto a quella offerta dall’art. 640bis c.pen., e ricordando che “rientra nell’ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall’art. 316ter c.pen. integri anche la figura descritta dall’art. 640bis c.pen., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest’ultima previsione punitiva”.
Il richiamo alla concretezza del giudizio sull’elemento degli artifizi o raggiri e su quello dell’induzione in errore, centrale nell’argomentare della Corte Costituzionale, lo è anche in quello della Corte di Cassazione: “nella valutazione della fattispecie concreta è rimesso al giudice stabilire se la condotta che si è risolta in una falsa dichiarazione, per il contesto in cui è stata formulata integri l’artificio di cui all’art. 640 c.pen.” (il riferimento alla figura base di truffa è coerente con la configurazione come ipotesi aggravata della truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche).
L’introduzione di una sanzione penale ha comunque un senso rilevante: per usare un linguaggio comune, ciò che viene punito è l’attestare un requisito essendo consapevoli di non possederlo, per ottenere un’erogazione, senza porre in essere comportamenti di costruzione di una falsa realtà ulteriori rispetto al semplice mendacio, ovvero senza collocare il mendacio in un contesto di per sé idoneo a generare l’errore del destinatario della dichiarazione non veritiera.
Ben si intende che, in un sistema penale caratterizzato dalla moltiplicazione delle fattispecie, non può che darsi assorbimento nella norma specificamente dettata, di ulteriori astratte ascrivibilità a norme incriminatrici che (come l’art. 483 c.pen. o l’art. 495 c.pen.) del pari tutelano la funzione pubblica.
Le considerazioni che qui si svolgono valgono per tutte le ipotesi di reato, addebitate o riconosciute in concreto, posta l’identità della struttura fondamentale della condotta, consistente in una dichiarazione non conforme al vero, che produce una erogazione da parte di ente pubblico, rilevante di per sé (art. 316ter c.pen.) ovvero quale forma decettiva (art. 640bis c.pen) se accompagnata da condotte ingannatorie ulteriori ovvero collocata in un contesto di maggior affidamento sul comportamento del privato.
E’ dunque da valorizzare, nella prospettiva delle ulteriori argomentazioni in senso assolutorio, quanto la Suprema Corte, nella citata sentenza, afferma circa l’affidamento ex lege sulla veridicità delle autocertificazioni, che amplierebbe la portata ingannatoria del mendacio quale condotta obiettivamente integrante il delitto di truffa.
Un contesto di prospettazione o produzione documentale presidiato da un rapporto di affidamento del potere pubblico alla condotta dei privati, è il presupposto per attribuire al mendacio valore di elemento costitutivo del delitto, che sarà integrato al ricorrere degli ulteriori elementi dell’induzione in errore (in caso di truffa) e dell’atto dispositivo patrimoniale.
Nelle condizioni in cui la pubblica amministrazione e il soggetto di diritto privato Poste Italiane S.p.A. hanno agito, sembra invece di dover paradossalmente riconoscere un contesto ingannatorio per i privati destinatari della comunicazione del Presidente del Consiglio.
E’ facile immaginare – ed in tal senso si sono espresse alcune delle argomentazioni difensive nel presente processo – che un cittadino che si vede recapitare una comunicazione del tenore sopra riportato, accompagnata da un modulo prestampato nel quale sono espressamente riportati i dati anagrafici della persona destinataria di un beneficio, intenda che il diritto a quella prestazione sussista: perché altrimenti un potere pubblico dovrebbe “indurlo” (esso sì) al compimento un atto?
Del resto i due imputati di questo processo sono l’uno un rifugiato kossovaro, l’altro un cittadino marocchino entrambi da lungo tempo legalmente residenti in Italia, muniti di carta di soggiorno, che ben possono aver equivocato il tenore dell’invito esplicito che il massimo esponente del potere esecutivo rivolgeva loro, personalmente, con dei documenti in cui figurava chiaramente indicato con tutti i dati anagrafici il loro figlio appena nato, e che evidentemente coinvolgeva la loro posizione sul territorio nazionale.
E’ stato acutamente osservato dalle difese che l’animus dello straniero che ha scelto la legalità della sua presenza in Italia, è ancor più orientato a vedere in manifestazioni favorevoli del potere pubblico una conferma del valore positivo del suo generale rispetto delle leggi; e non altro è accaduto in questo caso.
Altre considerazioni, che riguardano l’elemento soggettivo dei delitti dolosi addebitati ai due imputati, ma anche del delitto di cui all’art. 316ter c.pen., riguardano – pur senza scadere ad interpretazioni banalmente o pregiudizialmente favorevoli ai cittadini stranieri i quali partecipano alla vita sociale dello Stato che li ospita e dunque condividono i doveri dei cittadini italiani - la comprensibilità dei moduli, quantomeno sotto due aspetti particolari: quello della discrasia comunicativa tra il formulario che cumula riferimenti a fonti legislative non comprensibili ad alcun comune cittadino (italiano o straniero), e quello della prospettazione dei tre requisiti, che nell’andamento testuale del modulo e delle cosiddette istruzioni è fatta in forma non necessariamente cumulativa bensì, secondo una lettura erronea concretamente possibile, in forma alternativa.
Cosicché ben potrebbe il beneficiario individuato dalla comunicazione recapitatagli a casa, avere inteso che fosse necessario possedere uno dei requisiti per avere diritto alla corresponsione del beneficio.
Queste stesse considerazioni che escludono o comunque rendono dubbia la sussistenza dell’elemento soggettivo valgono a far ritenere applicabile anche il dettato dell’art. 5 c.pen.: la lettera del Presidente del Consiglio e la precompilazione del modulo nella parte indicante il nuovo nato avente diritto, integrano comportamenti positivi della pubblica amministrazione che inducono in errore; ovvero ancora quello dell’art. 47 c.pen.: laddove l’errore su legge diversa dalla legge penale è quello sulla portata dei requisiti previsti dai commi 330 -333 dell’art. 1 della L. 23 dicembre 2005, n. 266.
Senza dimenticare che altro dubbio ragionevole sulla sussistenza dal fatto costituente reato riguarda la possibilità di comprendere il concetto di cittadinanza così come declinato in quel contesto: cittadino in quanto soggetto che ha conseguito uno status giuridico generale, o cittadino in quanto riconosciuto dal potere pubblico – che espressamente mi interpella al fine di farmelo presente - come destinatario di un beneficio tipico del cittadino?
Ma vi sono altri elementi ancora da valutare a favore degli imputati, che attengono sia all’elemento soggettivo che a quello oggettivo dei reati.
Il comportamento consistito nel sottoscrivere un modulo contenente la dichiarazione di cittadinanza integrerebbe, in concorso formale (pur non esplicitamente così contestato) i due delitti ipotizzati dalla Procura della Repubblica di Varese.
L’ipotesi di falso e truffa aggravata si fonda su una mendace dichiarazione; così pure la diversa fattispecie delittuosa cui si ritiene di ascrivere la condotta nella sua materialità.
Orbene, non sembra possibile scindere nella “attestazione” il contenuto scritto e quello altrimenti dichiarativo costituito alla contestuale presentazione del documento: cioè: sottoscrivo un modulo nel quale è scritta la dichiarazione di cittadinanza italiana e lo presento insieme ad un passaporto dal quale risulta chiaramente che non sono italiano: attesto ‘A’ e contestualmente dimostro ‘non A’.
Siamo ai limiti della costruzione dottrinale e giurisprudenziale del falso innocuo o inutile, o comunque di una situazione di assoluta inidoneità dell’azione, che colpirebbe la stessa materialità sulla base dell’interpretazione dell’art. 49 c.pen. orientata alla concezione realistica del reato; ma che certamente depone, ancora una volta, nella concreta situazione esaminata, nel senso dell’insussistenza dell’elemento psicologico e della stessa coscienza e volontà del fatto ilecito.
Si noti poi che la legge con la quale il beneficio è stato concesso prevede quale oggetto di autocertificazione solo le condizioni di reddito e non il requisito di cittadinanza; recita infatti l’art. 1, comma 333 della L. 23 dicembre 2005 n. 266: “La condizione reddituale di cui al presente comma è autocertificata dall’esercente la potestà, all’atto della riscossione dell’assegno, mediante riempimento e sottoscrizione di apposita formula prestampata in calce alla comunicazione del Ministero dell’economia e delle finanze”.
Sotto questo profilo non vi sarebbe autocertificazione rilevante ai sensi dell’art. 316ter c.pen.; e comunque, ancora una volta e sotto ulteriore profilo, un comportamento extralegale della pubblica amministrazione, consistente nell’aver indirizzato ai cittadini stranieri una comunicazione non conforme alla legge, li ha indotti a rendere una dichiarazione non costituente reato in quanto non supportata dal necessario elemento soggettivo.
Siamo dunque di fronte ad una pluralità di cause di assoluzione o dichiarazione di non luogo a procedere, tra le quali l’analisi della situazione concreta deve portare a scegliere quella di maggior aderenza logica al caso e di maggior favore per chi è stato accusato.
La condotta consistente nella dichiarazione di cittadinanza italiana, in concreto consistita nel sottoscrivere un modulo precompilato con i dati del nuovo nato beneficiario di un’erogazione pubblica (erroneamente individuato come tale dalla pubblica amministrazione), in quanto non associata ad alcun altro comportamento ingannatorio e collocata in un contesto in cui la forza fidefaciente della dichiarazione collide con la sollecitazione fallace della massima espressione del potere esecutivo ad usufruire del beneficio, integra il delitto di cui all’art. 316ter c.pen.; le condotte improprie, contraddittorie ed idonee a trarre in errore i cittadini stranieri, poste in essere dalla pubblica amministrazione, sono tali da escludere la sussistenza dell’elemento psicologico non solo di un qualsivoglia delitto, ma anche (in base all’art. 3 della L. 24 novembre 1981 n. 689, letto in relazione all’art. 42, primo comma, c.pen.) dell’illecito amministrativo obiettivamente integrato con un comportamento non previsto alla legge come reato per mancato raggiungimento della soglia quantitativa di rilevanza penale di cui all’art. 316ter c.pen..
Tra la formula “il fatto non è previsto dalla legge come reato”, che discende dalla mera qualificazione giuridica della condotta, e quella “il fatto non costituisce reato”, che tiene conto della valutazione dell’insussistenza degli elementi costitutivi di qualsivoglia illecito, valutata in tutte le sue componenti la condotta in concreto tenuta, risulta più ampia, e da applicare, quest’ultima, che esclude la devoluzione all’autorità amministrativa degli aspetti sanzionatori non penali (sia pure solo formalmente, atteso il recente intervento normativo che esclude l’azione nei confronti dei cittadini stranieri beneficiari dell’intervento a sostegno delle famiglie).
P.Q.M.
Visti gli artt. 438ss., 530 c.p.p.
 
assolve
LJ dai delitti ascrittigli perché il fatto non costituisce reato;
Visto l’art. 425 c.p.p.
dichiara
non luogo a procedere nei confronti di SB in ordine ai delitti ascrittigli perché il fatto non costituisce reato
Varese, 12 gennaio 2007
IL GIUDICE DELL’UDIENZA PRELIMINARE
 Giuseppe Battarino
 
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