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Silvio Riondato, Ineffettività italiane della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e ruolo del giudice penale interno
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Nella preparazione “estiva” di questo nostro Seminario di Formazione era stato convenuto sull’opportunità di dedicare spazio a un problema che appariva di grande importanza, quello della carenza di effettività della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nel diritto vivente italiano, soprattutto in ambito penalistico.

Il giure penale nel suo complesso non aveva nemmeno dato credito a certe aperture giurisprudenziali anche notevoli e peraltro controverse manifestatasi in altri ambiti. Le stesse novelle legislativo-penali (comprese riforme costituzionali) emanate in materia negli ultimi anni e la correlata giurisprudenza, avevano mostrato da un lato che il nostro apparato persisteva in complesso a rimanere impermeabile fino a che non fosse intervenuta una legge dello Stato, e dall’altro lato che, nonostante le riforme nazionali avessero implementato alcuni sviluppi della Convenzione dopo plurime gravissime reiterate conclamate e condannate inadempienze italiane, la nostra giurisprudenza penale continuava a manifestare forti resistenze verso un’applicazione delle novità normative nello spirito della Convenzione, cioè in buona sostanza faticava ad assumere il ruolo di co-protagonista nel rendere effettivi i diritti e le libertà sanciti dalla Convenzione e dalla giurisprudenza della Corte europea[1].

Mi accingevo perciò, ed era il primo di due sottotemi, al tentativo di esternare la mia convinzione che non vi fosse fondata ragione per mantenere un atteggiamento del genere da parte della giurisprudenza penale. Infatti in materia penale sussistono sia arresti giurisprudenziali che orientamenti dottrinali idonei a sostenere, volendo, una radicale inversione di rotta nel senso di consentire un forte dispiegamento nel nostro diritto penale sostanziale e processuale alle potenzialità significanti della CEDU[2]. Basti pensare che nel 1988 si è avuta una perentoria decisione delle Sezioni Unite sull’immediata applicazione delle norme CEDU “sufficientemente puntualizzate”[3]. La S.C., oltre che interpretare la Convenzione nel senso che essa abbia inteso rafforzare all’interno la tutela anche giurisdizionale diretta dei diritti e libertà riconosciuti,  ha tra l’altro valorizzato il principio di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale. E’ stato così sancito che ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare diritti e obblighi, l’adozione interna del modello di origine internazionale è automatica e spiega effetto anche in ambito penale (adattamento automatico). Nella successiva decisione in c. Medrano del 1993[4] la CEDU viene applicata direttamente e sulla scorta della giurisprudenza strasburghese.

Certo, non intendevo nascondere che questa linea interpretativa non poteva dirsi recepita adeguatamente dal diritto vivente, soprattutto con riferimento a radicate opinioni, sostenute anche in dottrina, che in conclusione assegnano alla Convenzione un’orbita tendenzialmente estranea al potere giurisdizionale nazionale. Chi conclude in questo senso coinvolge in compiti di applicazione e esecuzione piuttosto lo Stato-legislatore o amministratore e a tutto concedere  la Corte costituzionale - la quale però in materia si è pressoché sempre defilata. E’ un orientamento diffuso. La nostra giurisprudenza penale anche perciò si rivela in complesso oltremodo sprovveduta nella conoscenza del portato della Convenzione.

Mi proponevo però, e veniamo al secondo tema, di mostrare come la cennata tendenza riduttiva e la stessa non consocenza della Convenzione e della relativa giurisprudenza europa siano frutto di molto tradizionali opzioni giuridico-culturali di fondo destinate a un pur lento ma inesorabile superamento, tramite una progressiva sostituzione con nuove visioni del mondo giuridico  più idonee a favorire (anche) l’ingresso  dei diritti umani e delle libertà fondamentali tra i formanti imprescindibili del diritto (anche) penale.

Senonché è intervenuta, concludendo in buona sostanza in quest’ultimo senso, la Corte di cassazione sez. I con la sentenza 12 luglio-3 ottobre 2006 n. 32678, caso Somogyi[5], estensore il dott. Turone che oggi ci ha così bene illustrato la vicenda – e abbiamo potuto capire quanto seriamente e con quanta esemplare professionalità la questione dei diritti fondamentali sia stata affrontata.  Il mio primo compito è stato quindi molto facilitato. A mio avviso la sentenza dovrebbe segnare un punto di non ritorno, soprattutto in tre delle sue affermazioni: 1) la c.d. “precettività” (contrapposta alla “programmaticità”) in Italia delle norme CEDU; 2) l’obbligo giuridico del giudice nazionale italiano a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; e in stretta connesione 3) la non intangibilità del giudicato penale nazionale. Il merito di questa sentenza è stato quello di aver valorizzato i diritti fondamentali tramite una consacrazione senza riserve del vincolo tra CEDU e giurisdizione penale, facendo tesoro dei precedenti giurisprudenziali nonché di una certa e peraltro frammentaria tendenza del legislatore italiano a dare migliore esecuzione ai suoi obblighi internazionali in materia.

Non intendo però qui soffermarmi ulteriormente sulla portata e su eventuali limiti della recente decisione, salvo certi rilievi più avanti. E’ ora sufficiente notare che così ormai la nostra giurisprudenza penale ha dimostrato ancora una volta che, volendo, è in grado di realizzare un’integrale impiego dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione e concretizzati dalla Corte europea; mi parrebbe quindi di poter individuare una messa in mora della magistratura rispetto all’improcrastibabile adeguamento prima di tutto culturale al portato della CEDU – il Seminario odierno non poteva quindi cogliere un momento più opportuno.

La caduta del giudicato nazionale, che le stesse SS.UU. pur sanciscono, è tuttavia solo un’ovvia conseguenza. Comprendo peraltro come questa novità possa fungere da chiaro e privilegiato segnale “rottura” rispetto alla tradizione, per coloro che ancora non hanno bene inteso quale sia il precipitato di quelle “limitazioni di sovranità” in cui la stessa Corte (peraltro solo accennando)  inquadra il ruolo assegnato alla Convenzione europea. Tali limitazioni in definitiva pongono un problema di contemperamento tra diritto originariamente nazionale e diritto originariamente alieno. La compresenza si tramuta in un problema di legalità o meglio di scontro-incontro tra legalità diverse. In mancanza di una Corte Suprema che sani il conflitto è il giudice del caso che necessariamente diviene il giudice del co-ordinamento in una dimensione di internormatività. Ma per sfuggire all’arbitrio egli non trova altro criterio di decisione fuori dal riferimento ai diritti fondamentali intesi come cardini perfino metagiuridici del giure intero[6], e fuori da un dialogo ermeneutico condizionato dal caso concreto[7] nonché, volendo, dalla propria coscienza[8].

 Si potrebbe ricordare la vicenda per qualche verso analoga verificatasi nell’ambito dei rapporti tra diritto penale nazionale e diritto comunitario, quando la Corte di Giustizia delle Comunità europee ha sancito l’incompatibilità tra giudicato penale e diritto comunitario[9]. Anche allora si è trattato di un duro colpo per le tradizionali concezioni del diritto penale che tuttora sono rigide, formali, legalistico-moniste, statalistiche e troppo spesso nazionalistiche ad oltranza. Ma sto ora già immergendomi nel secondo dei temi che mi sono proposto.

Si tratta del grave limite all’espansione dei diritti fondamentali costituito in ambito penalistico dalle tralatizie concezioni sulle fonti e sul metodo interpretativo in materia, cioè dal formalismo giuridico, il c.d. legalismo[10]. Persiste in complesso, almeno nelle intenzioni dichiarate, il connubio tra da una parte la generale tecnica di lettura secondo gli schemi formalistici del positivismo legalistico e dall’altra parte il peculiare ancoramento della materia in modo tendenzialmente esclusivo alla legge statale. Risultato ne è che la soluzione normativa dipende  immediatamente dall’arbitrio del potere, legislativo e poi giurisdizionale, potere che ha il primato sul Diritto. Il tutto finisce per far prevalere, ad essere ottimisti, una concezione procedurale della democrazia, la quale però non è in grado di fornire legittimazione sostanziale, giuridica etica e politica, alla soluzione normativa – noto per inciso che qui è in gioco anche la legittimazione sostanziale della magistratura, problema di scottante attualità. Una tale legittimazione può aversi solo sul fondamento di una democrazia sostanziale, la quale poggia appunto su una concezione dell’uomo che vede come imprescindibili i diritti fondamentali.

 Perciò, l’alternativa che anche di recente è stata proposta da chi non intende rinunciare al portato del costituzionalismo sostanziale[11] per rendere effettività ai diritti fondamentali è che ci si predisponga a superare la pur persistente matrice vetero-liberale dei principi europeo-continentali dello stato di diritto. Si tratta di  ricercare nel diritto vivente e in particolare nella giurisprudenza gli elementi per l’affermazione dei valori di garanzia giuridica dei diritti e delle libertà degli uomini, secondo linee di sviluppo che sono più vicine a modelli di common law.      

  Nel settore che ne occupa, quello della rilevanza in Italia della CEDU, si potrebbe dire che basti molto di meno, poiché chi intenda rileggere il nostro diritto penale sostanziale e processuale anzitutto interpretandolo e poi integrandolo in modo conforme alla Convenzione può pianamente fondarsi su un metodo non molto divergente da quello tradizionale sol che conceda spazio alla legge di ratifica ed esecuzione della CEDU (l. 4 agosto 1955 n. 848) e ai successivi sviluppi, così come del resto si è fatto con le cennate sentenze penali. Del resto, il nostro art. 101 Cost. può ben essere interpretato nel senso che i giudici devono rendere Giustizia, e quindi applicare il Diritto, e nel farlo devono anche rimanere soggetti alla legge, sia pur soggetti nel senso di strettamente legati come prevede l’art. 25, co. 2, Cost.  Comunque, ora la nuova formulazione dell’art. 117 Cost. potrà contribuire a temperare le resistenze all’ingresso del diritto internazionale.

Occorre però assumere un atteggiamento di fondo che in buona sostanza potrebbe apparire estraneo alla nostra giurisprudenza penale (a parte lodevoli casi che anche oggi celebriamo) cioè quello che riconosce ormai esistente sul terreno dei diritti fondamentali la possibilità di un penetrante controllo di conformità e vorrei dire di costituzionalità di tipo diffuso e con effetto eventualmente normo-integrativo, dove per costituzionalità intendo appunto conformità a tavole positive di valori come per esempio la CEDU, e per diffuso intendo spettante ad ogni giudice del caso, mentre quanto all’effetto si tratta di piegare l’ordinamento, una volta individuato il valore-scopo, ad esprimere il rimedio rivolto ad una adeguata tutela nel caso concreto. Questa è l’operazione che in definitiva ha svolto la Cassazione nella citata sentenza del 3 ottobre scorso. E a operazioni del genere si riferisce a mio avviso quella formula della sentenza costituzionale 388/1999[12], di cui oggi il giudice Zagrebelsky ci ha parlato osservando che si tratta di una presa di posizione equivoca sul ruolo della Convenzione nel regime delle fonti. A me pare invece che, abbandonati tradizionali schemi anche sul regime delle fonti,  si apra una una fruttuosa dimensione ermeneutica di internormatività costituzionale, che la giurisprudenza anche di merito ha il compito di sviluppare adeguatamente.   

Questi meccanismi sono già chiaramente contenuti nel diritto comunitario, in base al quale proprio la CEDU, in quanto integrante principi generali del diritto comunitario, diventa senz’altro direttamente applicabile da parte del giudice interno quando il diritto interno presenti un elemento di collegamento col diritto comunitario[13]. Non conosco però casi in cui ciò si sia avverato in un nostro procedimento penale, nonostante da tempo si sia dispiegata la rilevanza penale del diritto comunitario.  Temo che ciò derivi da una scarsa dimestichezza degli interpreti con il precipitato del diritto alieno.  Eppure si può affermare che la giurisprudenza penale italiana è, volendo, in grado di sfruttare ogni piega del diritto di provenienza europea, come appunto ha sporadicamente dimostrato la giurisprudenza finora citata. Possiamo inoltre tra l’altro osservare, in relazione a recenti procedimenti penali anche famosi concernenti reati di false comunicazioni sociali, che improvvisamente la giurisprudenza penale è riuscita in breve tempo a recepire ed elaborare parte notevolissima dell’assai complessa trama dei rapporti tra diritto penale e diritto comunitario convogliandola acribicamente addirittura verso questioni pregiudiziali in malam partem[14].

Ho aderito a questa impostazione[15]. Ma auspico di rilevare lo stesso impegno sul fronte dei diritti e delle libertà fondamentali sanciti dalla CEDU. Per far solo un esempio, auspicherei che venisse adeguatamente applicato l’art. 7 CEDU, che sotto il principio nullum crimen nulla poena sine iure (e non già soltanto sine lege) consente di porre un secco limite agli effetti negativi dei mutamenti interpretativi sfavorevoli che intervengano successivamente al fatto commesso: tali mutamenti sono irretroattivi, per così dire[16].

     La Corte europea dei diritti umani è una Corte sussidiaria; devono intervenire le autorità statali, giudici compresi, a prevenire le violazioni in modo tale che la Corte non sia nemmeno adìta. Vi è il rischio a mio avviso che si arrivi invece a costatare che l’intensità  della valorizzazione giurisprudenziale penale della CEDU dipenda da interferenti apprezzamenti riguardo all’eventuale effetto interno sul piano della prevenzione generale e della prevenzione speciale-neutralizzazione. Si tratterebbe allora di un’opzione di fondo che questa volta atterrebbe a concezioni sul ruolo del diritto penale, e ancor prima al ruolo di chi applica la legge.  Occorre però infrangere l’illusione che il diritto penale costituisca uno strumento affidabile di tutela preventiva. E’ un’illusione che carpisce soprattutto nel momento applicativo della norma penale, e distoglie dalla dimensione critica che invece deve rimanere attiva essendo positivamente imposta in quanto fondata sui diritti e le libertà fondamentali. Le ragioni di tutela del bene giuridico, e in concreto le ragioni della vittima, che pure possono intendersi correlate a quei diritti e a quelle libertà, quindi all’impiego dello strumento penale, finiscono  per svelare una tendenziale cedevolezza in ambito penale, mentre la loro vera forza espansiva, con la conseguente soddisfazione di ogni pretesa per quanto possibile, dovrebbe collocarsi in altri ambiti giuridici. La pena, la misura di sicurezza, la misura di prevenzione, soprattutto quando attingono beni fondamentali, si comportano sempre come armi a doppio taglio che rischiano di ferire la mano stessa che le impugna, causando lacerazioni individuali e sociali più gravi di quelle che in ipotesi si vorrebbero prevenire o reprimere, e comunque intervengono, almeno nella pratica, quando già le offese si sono realizzate. Vale quindi ribadire il principio di extrema ratio per cui il diritto penale non solo dovrebbe essere ammesso ad intervenire esclusivamente quando si sono già esaurite tutte le opportunità di utilizzare altre misure, ma anche deve essere impiegato con parsimonia perché non è in grado di colmare la lacuna dell’assenza di una valida politica sociale, né può sostituire un’intelligente e prudente politica di polizia di vigilanza generalpreventiva, e soprattutto non è in grado di creare un’etica conforme a certi valori là dove questa etica non esiste. In questa prospettiva, l’impiego dello strumento penalistico corre sempre il rischio di non trovare adeguata legittimazione sostanziale, tanto è vero che il grande Maestro di questa Università Giuseppe Bettiol, conscio di questo rischio, confina la pena nello strettissimo e iper-garantito spazio della retribuzione secondo criteri di umanità, ritenendo che essa non riesca in ultima ad ancorarsi che a un sentimento, dico sentimento comune di giustizia. Il sentimento è importante  ma riesce ben poco a legittimare appieno. E’ il resto dell’umanità della pena che dovrebbe contribuire a rendere almeno tollerabile questo rozzo strumento. Vale a dire che essa è tollerabile solo se nella disciplina penalistica sostanziale e processuale risultano intensamente consustanziati i diritti e le libertà fondamentali.

 

Silvio Riondato - professore associato di diritto penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Padova – febbraio 2007

 

(riproduzione riservata)



* Testo, corredato di prime note, del contributo al Seminario di Formazione decentrata per i magistrati (C.S.M., Ufficio Referenti Corte d’Appello di Venezia) “Tutela dei diritti umani. Attività e giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e sua incidenza nel diritto penale interno”, Università degli Studi di Padova, 20 novembre 2006

[1] Per un quadro della situazione si veda, per tutti, GUAZZAROTTI A. – COSSIRI A., L’efficacia in Italia delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la prassi più recente, in Avvocatura d. Stato, 2006, n. 3; GUAZZAROTTI A., La CEDU e l’ordinamento nazionale: tendenze giurisprudenziali recenti e nuove esigenze teoriche, in Quad. cost., 2006, n. 3, 491.

[2] Una panoramica si trova nei contributi di Esposito A. (sub art. 3, 75), Chiavario M. (sub art. 6, 154 s.), Caretti P. (sub art. 10, 349), Pertici A.-Romboli R. (sub art. 13, 383) al Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di BARTOLE S. – CONFORTI B. – RAIMONDI G., Padova, Cedam, 2001. V., inoltre, più di recente, anche per ulteriori indicazioni, la letteratura indicata in nota 1.

[3] SS.UU. pen., 23 novembre 1988, Polo Castro, in Cass. Pen. 1989, 1418 (ivi indicazioni sul precedente contrasto).

[4] Cass., sez. I, 12 maggio 1993, Medrano, in Cass. Pen., 1994, 439, con commento di G. Raimondi, Un nuovo status nell’ordinamento italiano per la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

[5]  La decisione è al momento facilmente reperibile nei siti web specializzati.   Vi ha fatto seguito, sempre nel senso della valorizzazione della CEDU,  la decisione SS.UU. 26 settembre – 14 novembre 2006, n. 37483, Arena

[6] Sul punto mi sono soffermato altrove:  RIONDATO, Competenza penale della Comunità europea. Problemi di attribuzione attraverso la giurisprudenza, Padova, Cedam, 1996 (ora anche in www.riondato.com), 114 s. e passim.

[7] V. al riguardo di recente CARLIZZI G., Ragionamento giudiziario e complessità diacronica del circolo ermeneutico, in Cass. Pen., 2006, 1184.

[8] Il ruolo della coscienza del giudice è stato particolarmente valorizzato da Giuseppe Bettiol, come ho considerato in RIONDATO S., Un diritto penale detto ragionevole, Padova, Cedam, 2005. La coscienza non è un orpello da nascondere. Molto chiaramente oggi il dottor Turone ci ha svelato una circostanza importante accaduta alla sezione prima in camera di consiglio in relazione al cennato caso Somogiy,  quando ha raccontato “ci siamo guardati tutti e cinque negli occhi e ci siamo detti che non potevamo dare una soluzione diversa senza vergognarci”. Dobbiamo mantenere a tutti i costi la capacità di vergognarci, così come quella di indignarci, al fine di preservare i diritti fondamentali.

[9] CGCE, 16 febbraio 1978, 88/77, Ministero della Pesca/Schoenenberg.

[10] V. per tutti CONSO G., Dubbi in via di superamento: neutralità della scienza, neutralità del giurista?, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1970, 12.

[11] BILANCIA F. , I diritti fondamentali e la loro effettività, in corso di pubbl. negli Atti del Convegno “Costituzione europea, costituzione economica, allargamento” (Univ. d. St. di Teramo, Fac. di Giurisprudenza, 22-23 aprile 2005), e reperibile al momento in http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/ .

[12] Corte cost., 13-22 ottobre 1999, n. 388: “Il nucleo essenziale della tutela costituzionale che viene richiesta riguarda il diritto al giudizio: l’effettività della tutela dei propri diritti cui è preordinata l’azione, ed in definitiva la stessa efficacia della giurisdizione, si combina con la durata ragionevole del processo. Garanzia, quest’ultima, la cui fonte il giudice rimettente individua nell’art. 6 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, alla quale, pur se resa esecutiva in Italia con legge ordinaria, egli attribuisce un valore obbligante per il legislatore nazionale in forza dell’art. 11 della Costituzione. - Indipendentemente dal valore da attribuire alle norme pattizie, che non si collocano di per se stesse a livello costituzionale (tra le molte sentenze n. 188 del 1980 e n. 315 del 1990), mentre spetta al legislatore dare ad esse attuazione (sentenza n. 172 del 1987)), è da rilevare che i diritti umani, garantiti anche da convenzioni universali o regionali sottoscritte dall’Italia, trovano espressione, e non meno intensa garanzia, nella Costituzione (cfr. sentenza n. 399 del 1998): non solo per il valore da attribuire al generale riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo fatto dall’art. 2 della Costituzione, sempre più avvertiti dalla coscienza contemporanea come coessenziali alla dignità della persona (cfr. sentenza n. 167 del 1999), ma anche perché, al di là della coincidenza nei cataloghi di tali diritti, le diverse formule che li esprimono si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione. Ciò che, appunto, accade per il diritto di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi, garantito dall’art. 24 della Costituzione, che implica una ragionevole durata del processo, perché la decisione giurisdizionale alla quale è preordinata l’azione, promossa a tutela del diritto, assicuri l’efficace protezione di questo e, in definitiva, la realizzazione della giustizia (sentenza n. 345 del 1987)” (cors. nostro).

[13] Cfr. RIONDATO S., Profili di rapporti tra diritto comunitario e diritto penale dell’economia (<>, poteri del giudice penale, questione pregiudiziale ex art. 177 T.CE, questioni di costituzionalità),  in Riv. trim. dir. pen. ec., 1997, 113.5

[14] Sul relativo dibattito v. la raccolta Ai confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, a c. di R. Bin, G. Brunelli, A. Puggiotto e P. Veronesi, Torino, Giappicchelli, 2005 (tutti i documenti sono consultabili in www.unife.it/amicuscuriae ).

[15] Rinvio al mio contributo nel volume citato alla nota che precede.

[16] Cfr. RIONDATO S., Retroattività del mutamento giurisprudenziale sfavorevole tra legalità e ragionevolezza, in VINCENTI U. (a c. di), Diritto e clinica. Per l’analisi della decisione del caso, Padova, Cedam, 2000, 239 ss. (spec. 255).

 
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