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Una disamina sui più recenti orientamenti in tema di vizio di mente anche a commento della Sentenza SS.UU. Penali, 9163/2005
Sul concetto di malattia mentale in giurisprudenza vi sono diverse interpretazioni che talvolta non sfociano in certezze lasciando, inevitabilmente, qualche dubbio.
Il giudice di merito (oltre che quello di legittimità) ha incontrato nel tempo difficoltà in tema di capacità di intendere e di volere che “costituisce uno dei problemi, per così dire, peggiori per il giudice del processo penale costretto a muoversi quasi a tentoni fra approcci empirici di interpretazione e soprattutto dissonanze e distanze ormai evidenti fra i risultati cui è pervenuta la ricerca scientifica e il dettato normativo risalente ormai a quasi 3/4 di secolo orsono. Infatti, a parte casi evidenti di follia manifesta l’esperienza giudiziaria è popolata da chiaroscuri quali possibili simulazioni, reazioni abnormi a corto circuito, stati morbosi difficilmente inquadrabili e zone grigie largamente diffuse nella collettività, tra la patologia e la piena normalità”. [1]
La psichiatria, che è una scienza, ci offre vari orientamenti su cosa deve intendersi per malattia mentale nonché variegate interpretazioni che tendono a configurare la malattia mentale anche oltre i modelli classici da tempo conosciuti.
C’è chi valorizza il dato medico (psichiatria c.d. biologica) c’è chi, invece, valorizza i c.d. disturbi della personalità.
Ma già da tempo si va affermando in diritto il principio che non più si deve intendere la malattia mentale legata a fattori meramente biologici ma anche psicologici, ambientali, sociali, ecc…
Quindi, si può essere non imputabili in quanto “malati” mentalmente e lo si può essere altrettanto in quanto “disturbati” mentalmente.
Ogni qualvolta, cioè, a causa di elementi idonei di natura organica e/o non, la capacità di intendere e di volere viene esclusa o grandemente scemata ci si troverà in presenza del vizio totale o parziale di mente (ex artt. 88-89 c.p.).
“La idea generale del delitto è quella di una violazione (o abbandono) della legge: perché nessun atto dell’uomo può essergli rimproverato, se una legge non lo vietava. Un atto diviene delitto solo quando cozza con la legge; può un atto essere dannoso; può essere malvagio e dannoso; ma se la legge non lo vieta, non può essere rimproverato come delitto a chi lo eseguisce. Ma varie essendo le leggi direttive dell’uomo, in questa idea generale il vizio (che è l’abbandono della legge morale) e il peccato (che è la violazione della legge divina) si confonderebbero col delitto”.
Così si esprimeva Francesco Carrara nella sua opera Programma del corso di diritto criminale. [2]
E secondo l’illustre studioso della scienza penale “soggetto attivo primario del delitto non può essere che l’uomo: perché al delitto è essenziale la genesi del fatto da una volontà intelligente, la quale non è che nell’uomo. Ed ogni uomo in punto astratto di ragione può essere soggetto attivo di delitto; quantunque la sua posizione possa essere di ostacolo alla persecuzione”. [3]
E in quest’ultima precisazione del Carrara, relativa alla posizione del soggetto attivo del delitto, il riferimento è a quei soggetti che per il loro ruolo istituzionale (p. es.: il principe, l’ambasciatore) si sottraggono alla persecuzione penale. Ciò sarebbe giustificato dal fatto di “un riguardo al compatto sociale che si sciorrebbe, ed all’anarchia e disordine in cui tutta la consociazione verrebbe gettata per una tale procedura”, così anche “gli ambasciatori che non andrebbero giudicati criminalmente con i modi ordinari per un rispetto alle relazioni internazionali ed alla loro rappresentanza”. [4]
Ma al di là di queste considerazioni ormai datate (ma pur sempre valide sotto certi aspetti) gli esempi servono per introdurre l’argomento della non punibilità di un soggetto “malato mentalmente” o “disturbato” che comunque ha commesso un delitto.
Spetta, quindi, al giudice stabilire se il soggetto che ha compiuto l’azione delittuosa era nel pieno della coscienza e della volontarietà dell’azione.
E per quanto investito del crisma della somma conoscenza (peritus peritorum) l’ultima parola, il giudice, la potrà dire solo se attraverso l’ausilio degli esperti se ne sarà fatta “un’idea”. Un libero convincimento delimitato da due o più altri convincimenti scientifici spesso non agganciati, però, al terreno della certezza. Più la tecnica è innovativa e più il giudice và guidato nello sfruttamento della < >.
Questo è un insegnamento che recepiamo dall’evoluzione giurisprudenziale americana e che in Europa continentale non è ancora pienamente accolto e ciò perché le antiche tradizioni europee vedono ancora il giudice come peritus peritorum e dunque < >, tutto ciò con gravi rischi per la correttezza della decisione.[5]
Il giudice dovrà verificare la persona, radiografarla nel suo passato, nel suo presente, nel suo futuro, poiché non basta comprendere cosa è accaduto nell’atto del comportamento del misfatto ma dovrà sapere se nel prossimo futuro si asterrà dal perseverare.
Ma in tal senso occorre, uno sforzo sinergico, un incontro al crocevia per l’accertamento di varie discipline (psichiatria – criminologia – medicina legale latu sensu, psicologia – tossicologia ecc…).
E’ compito del giudice del merito “sottoporre a verifica la persona, il suo caso, la sua vicenda psichica per come si è manifestata nel suo agire”. [6]
Le nuove conoscenze scientifiche hanno di molto ampliato le cause di esclusione della imputabilità.
La sentenza delle Sezioni Unite più volte richiamata durante i lavori di questo Convegno non può che rappresentare il punto di partenza verso un nuovo modello di concetto di imputabilità.
Certo il giudice dovrà compiere notevoli sforzi per dipanare le questioni scientifiche prospettate in sede di perizia. Compito, ce ne rendiamo conto, non facile.
Quante chances ha il giudice spesso a digiuno di cognizioni scientifiche, innovative, rivoluzionarie di “azzeccare” la giusta via? Non può certo egli basarsi sulla probabilità o sui dati meramente statistici.
E lo strumento alla fine non può che essere la perizia poiché, come sostiene autorevole dottrina, il fatto di riscontrare in un delinquente o in una categoria di criminali una o più patologie codificate dal DSM-IV, non ha ovviamente una diretta ripercussione sul piano giuridico in ordine alla sussistenza o meno di cause di riduzione o eliminazione dell’imputabilità, che andranno accertate in concreto caso per caso con perizia. [7]
La perversione sessuale, la piromania, la paranoia, la condotta illecita seriale sono indici rivelatori di una mente non aderente alle regole della natura umana.
Ma cosa bisogna intendere per “malattia mentale” ?
Il “disturbato”, intanto, non può che essere un malato. La giurisprudenza che prima dell’intervento, voglio sperare definitivo, delle Sezioni Unite si era divisa sul concetto di malattia mentale dovrà ora, a mio giudizio, rivedere le posizioni e compiere un altro passo da gigante proprio sulla nuova definizione del concetto di malattia mentale.
Nella richiamata sentenza delle Sezioni Unite del 25-01-2005 n. 9163, [8] “si ricorda, infatti, come sia ormai < >, da considerarsi <>, quello secondo il quale per la responsabilità penale deve essere possibile far risalire la realizzazione del fatto all’ambito di facoltà di controllo e di scelta del soggetto”.[9]
Le tabelle per classificare le malattie mentali, intese come vizio totale o parziale di mente in senso classico o come disturbo della personalità, in una società moderna inquieta, frenetica e devastata da diversi fattori ambientali, culturali, religiosi, familiari, lasciano il tempo che trovano.
La situazione è notevolmente mutata rispetto a quella che aveva di fronte il legislatore del codice penale del 1930 che concepiva la malattia mentale in termini ristrettivi poiché all’epoca le malattie erano tipizzate e catalogate secondo gli schemi delle teorie positiviste e organiciste. [10]
Tutto ciò che “compromette” la capacità di intendere e di volere non può che ricondursi al vizio di mente.
Si è di fronte, con il pronunciamento delle Sezioni Unite ad una vera rivoluzione copernicana in materia, ove si consideri che la Corte regolatrice ha quasi sempre fatto riferimento, per ritenere annullate o diminuite le facoltà intellettive e volitive, “ad un’alterazione patologica clinicamente accertabile, corrispondente al quadro clinico tipico di una determinata malattia”. [11]
Abbandonando i binari della rigidità e confortati dalle nuove conoscenze della psichiatria, i giudici di Piazza Cavour hanno inteso affermare che ogni qualvolta vi è un black-out della mente, qualunque ne sia la causa, si è in presenza dell’ipotesi disciplinata dagli articoli 88 o 89 c.p..
Certo è che comunque rimane compito assai difficile quello dell’accertamento dell’incapacità di intendere e di volere al momento del fatto, “mentre più agevole è accertare la malattia che l’abbia determinata”. [12]
Il terreno, sia pur trattato e arato, sembra essere ancora vergine. Vi è un laboratorio tuttora aperto sul concetto d’infermità.
La commissione di riforma del codice penale presieduta dal Prof. Pagliaro nel 1992 ha proposto l’introduzione, all’art. 34, di una classificazione delle singole cause psicopatologiche di esclusione (ovvero di diminuzione) dell’imputabilità, ove al tradizionale concetto di <
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