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Misure cautelari: ai fini della gravità indiziaria la chiamata in correità deve essere confermata da riscontri individualizzanti
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GEMELLI Torquato - Presidente Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere Dott. FAZZIOLI Edoardo - Consigliere Dott. SILVESTRI Giovanni - Consigliere Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere Dott. BRUSCO Carlo G. - Consigliere Dott. MILO Nicola - rel. Consigliere Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere Dott. FIANDANESE Franco - Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica di Lecce nel procedimento a carico di S.L., nato a ..., avverso l'ordinanza 13/8/2005 del Tribunale di Lecce; visti gli atti, l'ordinanza denunciata e il ricorso; sentita in camera di consiglio la relazione fatta dal Consigliere Dott. Nicola Milo; udita la requisitoria del P.G., in persona dell'avvocato generale Dr. Vitaliano Esposito, che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata; udito il difensore Avv. V.M.V., che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FATTO
1- Il Tribunale di Lecce, decidendo in sede di riesame ex art. 309 c.p.p., con ordinanza 13/8/2005 annullava la misura della custodia cautelare in carcere adottata, il precedente 21 luglio, dal Gip dello stesso Tribunale a carico di L.S., indagato per concorso nel duplice omicidio di C. e F. T., commesso il 18/5/2000 (capo J), nella rapina in danno di N.S. e della Banca ..., commessa il 28/04/2000 (capi A1, B1, C1, D1), nella rapina in danno della gioielleria di M.A., commessa il 21/06/2000 (capi H1, I1, J1), nella rapina in danno di Ze.V. e della gioielleria di P.P., commessa il 28/04/2000 (capi E1, F1, G1), nella rapina in danno di C.T., commessa l’11/09/2000 (capi K1, L1).
Il Giudice del riesame dava atto che il quadro indiziario a carico dell’indagato era costituito essenzialmente dalla chiamata in correità operata dal collaboratore di giustizia V.D.E., esponente di spicco dell’associazione criminale denominata “sacra corona unita”, il quale, dopo avere riferito in ordine all’organigramma di tale sodalizio di stampo mafioso e alla variegata attività criminosa allo stesso riferibile, aveva confessato di aver preso parte direttamente ai delitti summenzionati, nei quali aveva concorso anche lo S., attribuendo al medesimo, con specifico riferimento al delitto di omicidio, il ruolo di avere fornito indicazioni sui movimenti delle due vittime e di avere così consentito la realizzazione del piano delittuoso (agguato teso sulla strada ...).
Riteneva che tali propalazioni, in quanto dettagliate, coerenti e logiche, erano intrinsecamente attendibili ed avevano trovato riscontri esterni, con riferimento alle modalità oggettive di esecuzione degli illeciti, negli accertamenti espletati dalla polizia giudiziaria e nelle dichiarazioni di alcuni testimoni.
Escludeva, invece, l’esistenza di riscontri individualizzanti, idonei cioè a confermare l’attendibilità del dichiarante in ordine al concorso dello S. negli illeciti. Precisava, quanto al duplice omicidio, che altri due collaboranti, tali R. e P., avevano riferito de relato sulla vicenda, ma nessun cenno avevano fatto circa il coinvolgimento nella stessa dello S., né dall’esame dei tabulati relativi alle utenze telefoniche mobili intestate all’indagato e a suo fratello G. erano state rilevate chiamate nella fascia oraria del giorno in cui era stato consumato il duplice omicidio (per informare - secondo la versione del collaborante - gli esecutori del delitto sui movimenti delle due vittime), con l’effetto che la chiamata in correità rimaneva isolata, priva del necessario riscontro individualizzante e, quindi, non idonea ad integrare la gravità indiziaria richiesta per legittimare l’adozione della misura cautelare; quanto alle rapine “N.-Banca ...” e “Z.-P.”, la situazione non era diversa, considerato che il collaborante L., concorrente in tali illeciti insieme al D.E. e a tali O. e T., pur dichiaratosi in grado di riconoscere la quinta persona che vi aveva partecipato, della quale aveva presente i tratti somatici, aveva risposto negativamente alla ricognizione fotografica dello S.; quanto alle rapine in danno del M. e del C., nessun collaborante aveva indicato lo S. come concorrente, sicché il suo inserimento tra gli autori di questi ultimi illeciti era stato frutto di una svista.
2- Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Lecce, con riferimento alle sole imputazioni di omicidio e di rapine commesse il 28/4/2000, e ha dedotto:
a) mancanza di motivazione in ordine all’apprezzamento e alla valutazione di alcuni dati di fatto che riscontrerebbero la chiamata in correità: turni di servizio di D.M.E. (madre dello S.), ausiliaria presso l’ospedale di C..., ove C.T. si sottoponeva ad una terapia riabilitativa e da dove effettivamente il giorno 18/5/2000, poco prima di rimanere vittima del mortale agguato, era uscito dopo avere partecipato all’ultima seduta fisioterapica; ingiustificata assenza dello S. dal posto di lavoro presso il calzaturificio ”...” di C. nei giorni 28 aprile e 18 maggio 2000, date di consumazione rispettivamente delle rapine e del duplice omicidio; accertamenti positivi in relazione all’intestazione a nome della D. M. di una autovettura “Renault Clio”, che, secondo il collaborante, sarebbe stata utilizzata dallo S. per raggiungere la zona dell’ospedale e controllare i movimenti del T.;
b) violazione di legge quanto alla valutazione dei c.d. riscontri esterni, ai quali andava attribuita la sola funzione di conferma dell’attendibilità intrinseca del chiamante in correità, non essendo richiesta la loro diretta riferibilità al thema probandum, né tanto meno la consistenza di autonoma prova di colpevolezza.
3- La difesa dell’indagato ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso e, in subordine, il rigetto, evidenziando che, a seguito della legge n. 63 del 2001, la chiamata in correità deve essere, anche ai fini cautelari, corroborata da riscontri esterni di carattere necessariamente individualizzante.
4- La prima Sezione penale di questa Corte, con ordinanza 21/12/2005, rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla interpretazione dell’art. 273 c.p.p., così come novellato dall’art. 11 della legge n. 63/2001, ha rimesso la decisione del ricorso a queste Sezioni Unite.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fissando per la trattazione l’odierna udienza in camera di consiglio.
DIRITTO
1- La questione portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: “se, ai fini della gravità indiziaria richiesta dall’art. 273, commi 1 e 1bis, c.p.p., la chiamata in correità ritenuta intrinsecamente attendibile debba essere confermata da riscontri individualizzanti”.
Il problema, in sostanza, è di stabilire il grado di conferma che la chiamata in correità o in reità deve ricevere per giustificare l’adozione della misura cautelare personale e, conseguentemente, di individuare la consistenza, il grado di specificità e soprattutto l’oggetto dei c.d. riscontri esterni, se cioè questi debbano riguardare soltanto il fatto nella sua oggettività o anche la riferibilità soggettiva di esso.
2- Il tema, sia pure in un diverso contesto normativo, venne affrontato e risolto dalle Sezioni Unite, con la sentenza 21/4/1995 (ric. Costantino), a superamento di un contrasto insorto nella giurisprudenza della Suprema Corte in ordine ai criteri di valutazione della chiamata in correità, quale grave indizio di colpevolezza ai fini cautelari.
Tale pronuncia, inquadrata la questione nel più generale problema della operatività o meno, in sede cautelare, delle regole generali in tema di valutazione della prova (art. 192 c.p.p., in particolare commi 3 e 4), ne esclude, sulla base di una interpretazione eminentemente letterale, l’applicabilità e individua nell’art. 273 c.p.p. la norma di riferimento esclusiva per la valutazione della chiamata di correo ai fini dell’adozione della misura cautelare, con l’effetto che “la rilevanza della chiamata in correità o in reità…deve essere apprezzata alla stregua dell’art. 273, che impone la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza”.
Riassuntivamente, la sentenza “Costantino” afferma il principio che le dichiarazioni accusatorie del coindagato o dell’indagato di reato connesso o interprobatoriamente collegato, in quanto fonte di dubbia affidabilità per la provenienza da soggetto non del tutto disinteressato, devono essere comunque sottoposte -anche in ambito cautelare- ad un vaglio critico particolarmente rigoroso, nel senso che alla verifica dell’attendibilità intrinseca (per precisione, coerenza, spontaneità, disinteresse) deve fare seguito quella dell’attendibilità estrinseca, mediante l’individuazione degli opportuni riscontri, che, per costituire la risposta necessaria alla peculiarità della fonte, non necessariamente devono riguardare - a differenza di quanto accade nel giudizio di cognizione - in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato. Nel presupposto della inoperatività, nel procedimento incidentale cautelare, della regola di valutazione probatoria stabilita dall’art. 192/3°-4° c.p.p. e della sola applicabilità -invece- dell’art. 273 c.p.p., la sentenza esclude il necessario carattere “individualizzante” dei riscontri esterni alle propalazioni accusatorie del chiamante, ritenendo sufficiente la conferma delle sole “modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante” e distinguendo così la valenza di una chiamata idonea a legittimare l’adozione di un provvedimento cautelare da quella idonea a fondare l’affermazione di colpevolezza.
3- Tale tesi, avallata anche dal Giudice delle leggi con ordinanza n. 314/1996, che dichiarò la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli art. 192/3° e 273 c.p.p. così come interpretati dal massimo Consesso di questa Suprema Corte, non pose termine alle tensioni applicative nella prassi giurisprudenziale sia di merito che di legittimità e suscitò non poche riserve da parte della dottrina che, fuoriuscendo dagli schemi di un astratto dogmatismo, propendeva, in larga maggioranza, per la tendenziale applicabilità delle disposizioni del libro III del codice di rito (sulle prove) all’intero arco del procedimento, a condizione di una previa verifica circa l’inesistenza di profili incompatibili tra le linee generali espresse dagli art. 187 e ss. c.p.p. e la disciplina specifica di volta in volta in gioco.
4- Il quadro normativo di riferimento dettato dall’art. 273/1° c.p.p. in tema di “gravi indizi di colpevolezza”, quale condizione generale di applicabilità di una misura cautelare personale, è stato, però, significativamente modificato dall’art. 11 della legge n. 63/2001 sul giusto processo, attuativa della riforma dell’art. 111 della Costituzione, che ha inserito nell’art. 273 c.p.p. il comma 1bis che testualmente recita: “Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli art. 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1”.
Peraltro, pur dopo la novella legislativa, i contrasti nella giurisprudenza di legittimità -in ordine alla necessità o meno di riscontri individualizzanti alla chiamata di correo nella sfera cautelare- non sono mancati e si sono delineati tre indirizzi.
4a- Secondo un primo orientamento, la chiamata in correità, anche dopo l’innesto del comma 1bis nell’art. 273 c.p.p., non necessita, nella fase cautelare, di riscontri individualizzanti, ma semplicemente di riscontri esterni che confermino l’attendibilità del chiamante; diversamente opinando, si ha un automatico allineamento delle nozioni di indizio grave e di prova e, quindi, una equiparazione probatoria dei due dati, che, invece, devono rimanere ontologicamente distinti, essendo il primo funzionale a dimostrare la fondatezza -allo stato degli atti- dell’accusa provvisoria e dovendo il secondo, che si forma a dibattimento, essere posto a supporto del definitivo giudizio di colpevolezza. La novella legislativa non ha avuto altro effetto se non quello di superare le affermazioni giurisprudenziali di inapplicabilità delle disposizioni del codice di rito in tema di prove alla fase delle indagini preliminari e alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini cautelari e non impone “certamente che i riscontri debbano avere il carattere necessario del riferimento specifico alla posizione del soggetto chiamato”, essendo sufficiente che il contenuto e la portata delle dichiarazioni rese dai soggetti di cui all’art. 210 c.p.p. siano valutati “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, il che significa che i parametri di valutazione sono ispirati alla c.d. “libertà del riscontro” (cfr. Cass. Sez. I 27/2/2001, Bidognetti; Sez. V 18/4/2002, Battaglia; Sez. I 24/4/2003, Esposito; Sez. V 21/1/2003, Formigli; Sez. V 11/5/2004, Zini).
4b- Secondo altro indirizzo, la chiamata di correo, per integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273/1° c.p.p., oltre che essere connotata da intrinseca credibilità, necessita di riscontri esterni parzialmente individualizzanti, che consentono cioè di collocare la condotta del chiamato nello specifico fatto oggetto dell’imputazione provvisoriamente elevata; il comma 1bis dell’art. 273 c.p.p., pur orientato in apparenza ad una omologazione tra riscontri richiesti per l’adozione della misura cautelare personale e quelli richiesti per il giudizio di colpevolezza, “in realtà non perde di vista il concetto del riscontro definito nell’ambito puramente indiziario in cui esso assume valore designante”, con l’effetto che al medesimo deve richiedersi una mera “vocazione individualizzante”, la quale, peraltro, può atteggiarsi in maniera più o meno elastica in rapporto al grado di attendibilità intrinseca del dichiarante e del suo narrato, nonché alla maggiore o minore precisione delle propalazioni (cfr. Cas. Sez. VI 2/7/2001, Tramonte; Sez. VI 2/10/2001, Calabretta; Sez. VI 7/10/2001, Pollari; Sez. II 26/6/2002, Berretta; Sez. Fer. 21/8/2002, Musitano; Sez. VI 4/6/2003, Grasso; Sez. I 31/3/2003, Ribisi; Sez. IV 14/1/2004, Vatinno; Sez. VI 7/10/2004, Fanara; Sez. VI 17/2/2005, Raia; Sez. IV 28/10/2005, De Pieri; Sez. II 16/1/2005, Di Salvo, Sarcina, Tatò, Castellano; Sez. V 24/9/2004, Mignacca).
4c- Un terzo orientamento sostiene che l’esplicito richiamo fatto dall’art. 273/1°bis “alla regola forte di valutazione probatoria stabilita dall’art. 192/3°-4°” comporta che i riscontri estrinseci alla chiamata in correità devono essere compatibili con la stessa, sì da consentire “un collegamento diretto ed univoco, sul piano logico-storico, con i fatti per cui si procede mediante connotati individualizzanti”; solo la individualizzazione del riscontro “è in grado di fondare la persuasività probatoria della chiamata in correità e la razionalità della decisione cautelare che è destinata a reggere la forza d’urto del contraddittorio dibattimentale” (cfr. Cass. Sez. I 14/11/2001, Caliò; Sez. I 7/2/2002, Schiamone; Sez. Fer. 28/8/2002, Desogus; Sez. VI 20/6/2001, Caterino; Sez. VI 3/12/2004, PM/Sapia; Sez. I 21/11/2005, Cavalcanti; Sez. IV 2/12/2005, Baldassi; Sez. I 13/12/2005, PM/Sinesi; Sez. I 4/5/2005, Lo Cricchio).
5- La Corte condivide quest’ultimo orientamento, con le puntualizzazioni di cui al seguito.
Il giusto processo cautelare è l’epilogo di un cammino che, attraverso varie tappe segnate da interventi del legislatore, di questa Suprema Corte e del Giudice delle leggi, ha visto progressivamente sfumare le tradizionali differenze evidenziate tra decisione cautelare e giudizio di merito, con riferimento alla valutazione degli elementi conoscitivi posti a disposizione del giudice, e ricercare una tendenziale omologazione dei corrispondenti parametri-guida.
Già con la legge 8/8/1995 n. 332, si accentuava, in linea con i precetti costituzionali di cui agli art. 13 e 27, il carattere eccezionale dei provvedimenti limitativi della libertà personale disposti prima della condanna e si imponeva al giudice una maggiore incisività argomentativa nel giustificare la misura, facendogli obbligo di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti gli indizi, i motivi per i quali essi assumono rilevanza, quelli per i quali si rivelano inconsistenti gli elementi forniti dalla difesa (art. 292/2° lett. c e cbis c.p.p.), nonché di valutare negativamente l’esistenza di condizioni legittimanti il proscioglimento ex art. 273/2° c.p.p. (cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato o della pena) o la possibilità di ottenere con la eventuale sentenza di condanna il beneficio della sospensione condizionale della pena (art. 275/2bis c.p.p.).
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 71 del 1996, sottolineava che “il decreto che dispone il giudizio non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono l’adozione e il mantenimento delle misure cautelari personali, sicché precluderne l’esame nelle impugnazioni de libertate equivale ad introdurre nel sistema un limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto qual è quello della libertà personale”.
Tali principi, che esaltano la natura contenutistica della valutazione de libertate, trovano più chiara esplicitazione nella sentenza n. 131 del 1996 della stessa Consulta, che, in continuità con quella n. 432 del 1995, affermava che “…le valutazioni compiute dal giudice in relazione all’adozione di una misura cautelare personale comportano un pregiudizio sul merito dell’accusa: tali valutazioni, infatti, secondo le norme vigenti, devono indurre il giudice a ritenere l’esistenza di una ragionevole e consistente probabilità di colpevolezza e quindi di condanna dell’imputato e addirittura di condanna ad una pena superiore a quella che consente la concessione della sospensione condizionale della pena…”; ed ancora, il giudizio prognostico è tanto lontano “…da una sommaria delibazione e tanto prossimo ad un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché condotto allo stato degli atti e non su prove ma su indizi”.
Né va sottaciuto, sia pure con riferimento al diverso fenomeno della inutilizzabilità di prove illegittimamente acquisite (art. 191 c.p.p.), l’indirizzo ermeneutico e rigorosamente garantista di questa Suprema Corte, che, ben prima dell’intervento del legislatore del 2001, aveva statuito che deve trovare applicazione anche nel procedimento cautelare la sanzione della inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, se eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle prescrizioni stabilite dagli art. 267 e 268/1°-3° c.p.p., considerata la diretta incidenza sull’elemento dimostrativo, indiziario o probatorio, comunque acquisito in maniera illegale (cfr. Cass. S.U. 27/3/1996, Monteleone; 20/11/1996, Glicora).
Particolare interesse, poi, riveste la sentenza 30/10/2002 (ric. Vottari) delle Sezioni Unite, che, nell’affrontare -dopo la riforma del 2001- il rapporto intercorrente tra decreto di rinvio a giudizio e riesame della misura cautelare personale, sottolineava che la decisione cautelare deve essere ispirata ad “un approfondito ed incisivo apprezzamento probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, ancorché condotto allo stato degli atti e basato non su prove ma su indizi, tale da superare la tradizionale divaricazione tra le sommarie delibazioni di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, e il giudizio sul merito dell’accusa, riservato alla sede dibattimentale”.
I principi che, in una prospettiva rigorosamente aderente al dettato costituzionale, sono alla base dell’intervento legislativo del 1995 e delle citate decisioni si armonizzano e si saldano compiutamente con la ratio sottesa alla legge n. 63 del 2001, la quale è essenzialmente diretta ad assicurare, nel superamento di incertezze interpretative legittimate dal tenore letterale della pregressa normativa, una tendenziale anticipazione alla fase delle indagini, terreno elettivo -nella più parte dei casi- delle decisioni de libertate, delle regole in tema di valutazione e di utilizzazione della prova, proprie del giudizio di cognizione, anche per quanto concerne l’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza idonei a legittimare, ex art. 273 c.p.p., le misure cautelari personali.
Nella fase delle indagini preliminari, invero, convivono due distinte categorie di attività, quella diretta alla ricerca e alla raccolta delle conoscenze necessarie per verificare la fondatezza della notitia criminis e quella che sfocia in provvedimenti che comprimono diritti di rilievo costituzionale, qual è quello della libertà.
Nell’ambito di quest’ultima attività, ferme restando la netta distinzione tra gli indizi cautelari e la prova ai fini del giudizio e, quindi, la diversità di prospettiva in cui gli uni e l’altra si muovono, v’è una chiara “spinta all’omologazione” dei parametri di valutazione e di utilizzabilità del materiale conoscitivo oggetto delle decisioni del giudice della cautela e di quello del merito.
6- L’attuale modello normativo (art. 273/1° c.p.p.) richiede, come condizione generale di applicabilità di una misura cautelare personale, la sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza” a carico della persona destinataria del provvedimento, con ciò segnando una netta presa di distanza dalla disciplina dettata dall’art. 252 c.p.p. 1930, che richiedeva “sufficienti indizi di colpevolezza” (prima della modifica con legge n. 330/’88).
La pregnante valutazione prevista circa l’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’accusato, che devono trovare la loro sintesi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, mira ad offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della medesima.
L’art. 292 c.p.p., come modificato dalla legge n. 332 del 1995, delineando per l’ordinanza cautelare uno schema di motivazione assimilabile a quello prescritto per la sentenza di merito dall’art. 546 lett. e) c.p.p., impone, infatti, al giudice della libertà sia di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa e comunque a favore dell’accusato (lett. c e cbis del comma 2), adempimenti questi che esaltano l’aspetto contenutistico del giudizio al quale è chiamato il giudice della cautela.
Certo, non deve essere disconosciuta la differenza tra il giudizio preordinato alla pronuncia di condanna, che presuppone l’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell’imputato, e la delibazione funzionale all’esercizio del potere cautelare, che implica un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza.
Diverso è senz’altro nei due accertamenti il grado di conferma dell’ipotesi accusatoria.
In quello posto a base della decisione definitiva sulla regiudicanda, la conclusione è sorretta da un quadro probatorio completo e non suscettibile di ulteriori aggiornamenti o variazioni, con l’effetto che ogni margine d’incertezza resta superato.
Nell’accertamento incidentale de libertate, invece, il convincimento giudiziale è esposto al flusso continuo di conoscenze potenzialmente idonee a smentirlo, a prescindere dalla scansione in fasi e gradi del processo “principale”. In quest’ultimo caso, la conclusione inferenziale della relativa delibazione è assunta sulla base di dati conoscitivi ancora suscettibili di accrescersi ed evolversi con l’apporto di ulteriori informazioni che stimolano la continua verifica della capacità dell’ipotesi accusatoria di resistere a interpretazioni alternative. Di tanto la decisione cautelare, nel momento in cui viene adottata, non può non tenere conto, nell’apprezzare la forza induttiva del materiale indiziario, sino a quello stesso momento acquisito, rispetto al fatto-reato considerato e al suo collegamento, secondo il criterio sostanziale di elevata probabilità di colpevolezza, con chi ne appare l’autore.
Il quadro di gravità indiziaria ai fini cautelari, concetto differente da quello enunciato nell’art. 192/2° c.p.p., che allude alla c.d. prova logica o critica, ha, sotto il profilo gnoseologico, una propria autonomia, non rappresenta altro che l’insieme degli elementi conoscitivi, sia di natura rappresentativa che logica, la cui valenza è strumentale alla decisione de libertate, rimane delimitato dai confini di questa e non si proietta necessariamente nel diverso e futuro contesto dibattimentale relativo al definitivo giudizio di merito. In sostanza, la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di “prova” idoneo ad integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, non può che riferirsi al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, e ciò a prescindere dagli effetti, non ancora apprezzabili, eventualmente connessi alla dinamica della prova nella successiva evoluzione processuale.
7- Problema diverso è quello delle regole da seguire, in sede di apprezzamento della gravità indiziaria ex art. 273 c.p.p., per la valutazione dei dati conoscitivi e, in particolare, della chiamata di correo.
L’intentio legis della novella del 2001, nella prospettiva di selezionare con maggiore rigore i casi legittimanti l’esercizio del potere coercitivo, è esplicita e chiara, mira a superare il compromesso interpretativo cui era pervenuta la sentenza “Costantino” delle Sezioni Unite, giustificato in qualche maniera dalla formulazione delle disposizioni di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 192 c.p.p. e dal mancato richiamo -a quell’epoca- delle stesse nella norma di cui all’art. 273 c.p.p., e ridisegna a livello ordinamentale i confini del libero convincimento del giudice cautelare nel valutare, ai fini dell’adozione del provvedimento restrittivo della libertà, la chiamata di correo quale grave indizio di colpevolezza, nel senso che tale elemento conoscitivo, oltre che essere apprezzato nella sua attendibilità intrinseca, deve essere supportato da riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col thema decidendum proprio della pronuncia de libertate e di giustificare, quindi, la razionalità della medesima. D’altra parte, l’esigenza della corroboration che inerisca non solo alle modalità oggettive del fatto descritto dal chiamante ma che sia anche soggettivamente indirizzata è imprescindibile nell’ambito di una valutazione che è strumentale all’adozione di un provvedimento, quale quello restrittivo della libertà, dagli effetti rigorosamente ad personam.
Il tenore dell’art. 273 c.p.p., nel testo vigente, non configura un autonomo criterio valutativo da contrapporre a quello indicato nell’art. 192, commi 3 e 4, c.p.p. e i contrari e restrittivi orientamenti giurisprudenziali sul punto, se plausibili in base alla lettera della vecchia formulazione dell’art. 273, non lo sono attualmente, avendo trovato risposta dirimente proprio nella intervenuta modifica, che non legittima più alcun dubbio sull’applicabilità, anche ai fini cautelari, della suindicata regola di valutazione della chiamata di correo, che deve essere sorretta da riscontri individualizzanti, perché la prognosi di colpevolezza non può che essere subiettivizzata, non essendo consentite inferenze totalizzanti.
Il “momento cautelare”, per sintonizzarsi con i principi costituzionali della inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.) e della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva (art. 27/2° Cost.), necessita di tali meccanismi di garanzia, i soli idonei ad offrire una base razionale alla prognosi di colpevolezza ante iudicatum.
Considerato che il comma 1bis dell’art. 273 c.p.p. pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi” e, con specifico riferimento alla chiamata di correo, postula che soltanto la individualizzazione del riscontro attribuisce capacità dimostrativa e persuasività probatoria alla medesima chiamata, va contrastata la tesi sostenuta dal primo degli indirizzi ermeneutici innanzi citati, perché la stessa insiste sostanzialmente nell’attribuire alla norma in esame una funzione di contenimento degli effetti connessi all’applicazione della detta regola e finisce col devitalizzare la portata innovativa della riforma del 2001, che ha avuto proprio l’intento di superare quelle posizioni giurisprudenziali tralaticiamente stabilizzate sugli approdi della sentenza “Costantino” delle Sezioni Unite.
Non può condividersi neppure la posizione interpretativa, per così dire intermedia, secondo cui la chiamata di correo necessiterebbe di riscontri solo “parzialmente individualizzanti”, espressione questa equivoca e inabile a fare chiarezza. Anche tale indirizzo muove dalla fuorviante premessa della distinzione tra prova e indizio cautelare fondata sulla differente capacità dimostrativa e continua a contrapporre la portata dell’art. 273/1°bis a quella dell’art. 192, senza peraltro chiarire quali sarebbero i dati normativi che legittimerebbero, ai fini cautelari, l’attenuazione del riscontro esterno alla detta chiamata, posto che difetta una qualunque indicazione in tale senso nella prima disposizione.
Né può essere sottaciuto, infine, che il novellato art. 273 c.p.p. richiama anche le disposizioni di cui agli art.195/7°, 203 e 271/1° c.p.p., le quali, in verità, attengono, più che alle regole valutative della prova cautelare, al fenomeno dell’inutilizzabilità del materiale investigativo acquisito in violazione di specifici divieti stabiliti dalla legge. Si accentua così il tendenziale accostamento dei criteri di valutazione e di utilizzabilità probatoria nelle varie fasi del procedimento, e da esso scaturiscono ferree regole di esclusione del valore indiziario, ai fini cautelari, di determinati dati, quali la deposizione de relato, senza previa indicazione della fonte, la testimonianza indiretta di un agente o ufficiale di p.g., che tace il nome dell’informatore, le intercettazioni inutilizzabili.
8- Alla luce di tutte le argomentazioni innanzi svolte e in applicazione del disposto di cui all’art. 173/3° norme di attuazione c.p.p., va affermato il seguente principio: ai fini dell’adozione di misure cautelari personali, le dichiarazioni rese dal coindagato o coimputato del medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato possono costituire grave indizio di colpevolezza, ex art 273/1-1bis c.p.p., soltanto se, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, siano sorrette da riscontri esterni individualizzanti, sì da assumere idoneità dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario della misura, fermo restando che la relativa valutazione, avvenendo nel contesto incidentale del procedimento “de libertate” e, quindi, allo stato degli atti, cioè sulla base di materiale conoscitivo ancora “in itinere”, deve essere orientata ad acquisire non la certezza, ma la elevata probabilità di colpevolezza del chiamato.
9- Procedendo, quindi, alla concreta verifica di legittimità della pronuncia del Tribunale del riesame, osserva la Corte che la medesima, pur dando correttamente atto che la chiamata di correo, anche per le finalità di cui all’art. 273 c.p.p., deve essere sorretta da riscontri esterni individualizzanti, evidenzia tuttavia, come rilevato dal P.M. ricorrente, una assoluta mancanza di motivazione in ordine alla valenza da attribuire ad una serie di circostanze di fatto aventi -almeno in apparenza- tale connotazione individualizzante e puntualmente indicate nell’ordinanza impositiva della misura, ma ignorate in sede di riesame.
Ed invero, l’ordinanza impugnata, dopo avere ritenuto le dichiarazioni del collaborante V.D.E. intrinsecamente attendibili e riscontrate da elementi esterni in ordine alle modalità oggettive dei fatti denunciati, esclude la sussistenza di riscontri idonei a collegare tali fatti all’indagato; a questa conclusione l’ordinanza perviene considerando che altri collaboranti (R., P., L.) nulla avevano riferito sulla partecipazione del predetto agli illeciti e, con riferimento specifico al duplice omicidio, che il controllo dei tabulati telefonici non aveva evidenziato alcuna chiamata, nell’imminenza dell’azione delittuosa, dall’utenza mobile in dotazione dell’indagato, il cui ruolo sarebbe stato quello di informare gli esecutori materiali del delitto sui movimenti delle vittime.
Il giudice del riesame omette, però, di portare la propria attenzione sulla valenza indiziante di alcuni dati, che sembrano avere una indubbia connotazione individualizzante e che, pur privi di un’autonoma forza probatoria, appaiono confermare ab extrinseco l’attendibilità del chiamante in correità anche in relazione al coinvolgimento dello S. nei fatti-reato di cui si discute: a) costui avrebbe fornito informazioni al D.E. sui movimenti della vittima, T.C., che seguiva un ciclo di fisioterapia presso l’ospedale di C., dove lavorava come infermiera ausiliaria la madre dello S., persona in grado di attingere e passare notizie sulla presenza del predetto T. e di suo figlio in ospedale, in determinati giorni e a determinate ore; b) il giorno del duplice omicidio, lo S. si sarebbe portato nei pressi del nosocomio a bordo di una “Renault Clio”, autovettura effettivamente nella disponibilità della madre, e, dopo avere visto T.C. e il figlio F. uscire dal detto luogo, avrebbe avvertito telefonicamente gli autori materiali del delitto, che erano appostati nella zona dell’agguato; c) lo S. si era assentato dal posto di lavoro (calzaturificio “...” di C.) senza alcuna giustificazione sia il giorno del duplice omicidio (18/5/2000) che quello in cui vennero consumate le rapine in danno di N., Banca ..., Z. e P. (28/4/2000).
Questi elementi vanno apprezzati e valutati nell’ambito del complessivo quadro indiziario acquisito agli atti.
E’ il caso di puntualizzare che l’elemento di riscontro individualizzante deve confermare non necessariamente in via diretta la condotta illecita ascritta all’accusato, ma le dichiarazioni del propalante e quindi la loro attendibilità, nella parte di riferimento. Né va sottaciuto che, ai fini cautelari, il dato esterno di riscontro, pur dovendo attingere la persona del chiamato, può essere meno consistente di quello richiesto per il giudizio di merito, proprio perché, come si è precisato innanzi, diversa è la prospettiva in cui si muovono le due decisioni e diversi sono gli obiettivi rispettivamente perseguiti.
L’ordinanza impugnata, nella parte attinta dai motivi di ricorso, va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Lecce, che, in coerenza col principio di diritto innanzi precisato, dovrà, in piena libertà di giudizio ma con motivazione completa ed immune da vizi logici, riconsiderare la vicenda cautelare di L.S..
E’ il caso di precisare che la soluzione adottata in ordine alla posizione di D.M.E.D., madre dello S., anch’ella indagata per concorso nell’omicidio dei due T. (cfr. sentenza 13/12/2005 della prima Sezione penale di questa Corte), non può spiegare alcuna influenza sul caso in esame, avuto riguardo alle ragioni di natura strettamente personale poste a base dell’annullamento della misura custodiale emessa nei confronti della predetta.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla l’ordinanza impugnata, limitatamente al reato di omicidio plurimo e alle rapine commesse il 28/4/2000, e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Lecce.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2006. Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2006
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