La seconda parte del commento al Codice dei contratti pubblici"
I - Il subappalto non autorizzato e l’applicazione della norma penale ai cd. contratti similari.
Una trattazione dei profili penalistici connessi alla nuova regolamentazione dei contratti pubblici recata dal D. lgs. 12 aprile 2006, n. 163 e s.m.i. (cd. Codice De Lise) non può prescindere da un approfondimento in materia di subappalto.
Non esiste, infatti, altro ordinamento giuridico in Europa in cui, come nel nostro, la disciplina del subappalto di lavori pubblici (ma anche, a ben vedere, anche di servizi e forniture)[1], presenta caratteri di cosi stretta contiguità con quella della tutela prevenzionistica della criminalità organizzata. Il subaffidamento a terzi, infatti, è da sempre apparso il più efficace strumento al quale le consorterie illecite potevano ricorrere per “scardinare” il sistema delle garanzie con cui il legislatore ha inteso preservare, nel tempo, il mondo delle pubbliche commesse dalla capacità invasiva della grandi organizzazioni criminali[2].
L’art. 118 del Codice riproduce, sostanzialmente, quanto in precedenza previsto dall’art. 18 della l. 19 marzo 1990, n. 55 e s.m.i. (ora abrogato), con la rilevante novità di ricomprendere anche la disciplina del subappalto di servizi e di forniture: ciò in coerenza con lo “spirito” di un testo unitario per tutti i comparti di affidamento, ivi compresi i settori speciali (art. 206, comma 1).
Centrale è, ai nostri fini, il disposto del comma 11, primo periodo del predetto articolo 118, che – come già il comma 9 dell’anzidetto art. 18 – reca: ”Ai fini del presente articolo è considerato subappalto qualsiasi contratto avente ad oggetto attività ovunque espletate che richiedono l’impiego di mano d’opera, quali le forniture con posa in opera e i noli a caldo, se singolarmente di importo superiore a 100.000 euro e qualora l’incidenza del costo della mano d’opera e del personale sia superiore al 50 per cento dell’importo del contratto da affidare”.
La previsione rileva, ai fini che qui più interessano, per l’esatta delimitazione della fattispecie di reato prevista dall’art. 21 della legge 13 settembre 1982, n. 646 e s.m.i., che – come noto – sanziona con l’arresto da sei mesi ad un anno e con l’ammenda non inferiore ad un terzo del valore dell’opera concessa in subappalto od a cottimo e non superiore ad un terzo del valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto, il contegno di “chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede, anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse”[3].
Sul reato di subappalto non autorizzato si è registrato negli ultimi anni un rilevante mutamento di indirizzo da parte della giurisprudenza di legittimità: la Suprema Corte, in precedenza attestatasi nella posizione di escludere un qualunque collegamento tra le due norme anzidette (ossia, si ripete, art. 18 della l. 55/90 e 21 della l. 646/82, con la conseguente operatività del precetto penale in presenza di qualunque ipotesi di subappalto di lavori, a prescindere cioè dai limiti dimensionali del subaffidamento previsti dal primo), è recentemente pervenuta ad affermare[4] che il Legislatore, con l’art. 18 citato, ha “definito il concetto di subappalto rilevante ai fini della legislazione antimafia, per un verso, estendendolo a qualsiasi contratto avente ad oggetto attività, ovunque espletate, che richiedano l’impiego di mano d’opera, quali le forniture con posa in opera e i noli a caldo, e, per altro verso, precisando che tale equiparazione riguarda solo i contratti conclusi dall’appaltatore il cui valore sia superiore al 2% dei lavori affidati o d’importo superiore ai 100.000 ECU e semprechéil valore del costo della mano d’opera sia pari o superiore al 50% dell’importo del contratto da affidare”.
In altre parole, la nozione di “subappalto” o di ”cottimo” rilevante ai fini dell’art. 21 della l. 646/82, deve ricavarsi proprio da quella contenuta nell’art. 18. La conseguenza è la delimitazione dell’ambito della punibilità a quei subaffidamenti di attività nel contratto di appalto principale per le quali sia necessario impiego di forza lavoro, a condizione che sussista una prevalenza in tale componente rispetto alle altre nella misura di (almeno) il 50% dell’importo dell’intero subcontratto e purché il valore di esso sia comunque superiore al 2% dell’importo complessivo del contratto principale, ovvero sia superiore ai 100.000 euro.
Ciò in quanto – spiegano i Giudici di Piazza Cavour – “l’art. 21 della legge n. 646 del 1982 non opera su un piano diverso sotto il profilo strutturale funzionale rispetto all’art. 18 della legge n. 55 del 1990 che ne ha esteso l’operatività secondo i termini soprariportati, escludendo però dall’ambito del subappalto e, quindi, dall’obbligo di preventiva autorizzazione del committente pubblico i contratti di fornitura con posa in opera o nolo a caldo il cui valore non sia superiore ai valori dinanzi indicati”; ciò in quanto il “legislatore ha voluto escludere dall’ambito della sua operatività quelle attività che, pur astrattamente rientrando nel novero del subappalto o del cottimo, siano cosi marginali e trascurabili rispetto all’intero appalto da escludere qualsiasi rischio di interessamento da parte di consorterie criminali”.
Troviamo, in definitiva, nella giurisprudenza penale una conferma a quella cd. tesi definitoria del subappalto, cara alla più avvertita letteratura in argomento[5], per la quale la previsione in parola costituirebbe, per l’appunto, l’esclusiva “definizione” della nozione rilevante di subappalto. Sarebbe tale e risulterebbe, dunque, assoggettato alle prescrizioni antimafia di cui all’art. 18 della legge n. 55/90 e s.m.i. (nonché rilevante ai fini della responsabilità penale per la contravvenzione anzidetta), il contratto che corrisponda alle caratteristiche quantitative evidenziate nella norma (prevalenza della componente lavoristica nella misura di oltre il 50% dell’importo globale del contratto; importo del singolo contratto pari al 2% del complessivo, ovvero a 100.000 euro); non rientrerebbero, per conseguenza, nella nozione di “subappalto” penalmente rilevante, tutti gli altri subcontratti (ivi compresi i subappalti con caratteri quantitativi inferiori a quelli suindicati), per i quali l’attuale art. 118, comma 11 del Codice continua a prevedere una regolamentazione “semplificata” (esclusione dell’autorizzazione e della limitazione della quota subappaltabile della categoria prevalente nel trenta per cento; sussistenza di un mero e generico obbligo di comunicazione “successiva” al committente).
La tesi appena illustrata si contende il campo con quella (cd. assimilatoria) per la quale quanto previsto dall’attuale art. 118, comma 11 (già art. 18, comma 8), si limiterebbe ad estendere ai contratti similari, purché rientranti nei limiti quantitativi anzidetti, la disciplina del subappalto, presupponendosi, tuttavia, la nozione civilistica di esso: in altre parole, posto che dovrebbe ritenersi subappalto ogni subaffidamento dei lavori oggetto del contratto principale, di qualunque tipo o dimensione, la previsione amplierebbe la regolamentazione valevole, per l’appunto, per ogni tipo di subappalto a forme che tali non sono ma che, in ragione della loro specifica configurazione (ed, in particolare, per la prevalenza dell’elemento personale su quello materiale), dovrebbero ritenersi soggetti ad identica disciplina legale[6].
La tesi che ci pare preferibile è senz’altro la prima, già sulla base di quanto disposto fino alla cd. Merloni-ter, per una serie di ragioni qui illustrate.
In primo luogo, va evidenziata l’impostazione dell’art. 18, comma 12 della l. n. 55/90 che, nella sua attuale formulazione, risulta differenziata rispetto alle precedenti versioni della stessa. Difatti, fino alle modifiche apportate dalla l. n. 415/98 (cd Merloni-ter), esso stabiliva che le disposizioni in tema di subappalto fossero applicabili, in presenza di alcune condizioni espressamente individuate, “anche ai contratti di fornitura con posa in opera e noli a caldo (…)”. In sostanza - a differenza dell’attuale assetto - dalle precedenti versioni della norma, era possibile evincere, in termini inequivocabili, l’intento del legislatore di estendere la disciplina del subappalto anche a fattispecie negoziali che, sotto il profilo civilistico, non rientravano in tale categoria: ciò, quindi, senza alcun intento definitorio.
In secondo luogo, l’ultimo periodo del comma in questione, nel prevedere l’obbligo dell’appaltatore di comunicare alla stazione appaltante, per tutti i subcontratti stipulati per l’esecuzione dell’appalto, oltre al nome del subcontraente e l’importo del contratto, anche l’oggetto del lavoro, servizio o fornitura affidati, sembra(va) ammettere la possibilità che alcuni subcontratti aventi ad oggetto lavori potessero non essere considerati subappalto. Detto riferimento anche ai lavori (ai quali l’art. 18 della legge n. 55/90 e le modifiche ivi introdotte erano, principalmente, rivolte) trova giustificazione soltanto nell’ipotesi in cui si riconosca la valenza definitoria del comma 12; mentre, non sembrerebbe avere alcun senso ove, mantenendo ferma la definizione civilistica di subappalto, si ritenesse la norma in questione riferita esclusivamente ai contratti similari.
Queste considerazioni non appaiono scalfite dalla circostanza che la legge n. 166/02 (cd. Merloni-quater), nel modificare il comma 9 dell’art. 18, abbia previsto che per i “subappalti o cottimi di importo inferiore al 2 per cento dell’importo dei lavori affidati o di importo inferiore a 100.000 euro, i termini per il rilascio dell’autorizzazione da parte della stazione appaltante sono ridotti della metà” (previsione oggi riportata nell’art. 118, comma 8, ultimo periodo, del nuovo codice).
Se ad una prima analisi, la previsione di un meccanismo autorizzatorio semplificato per i subappalti di importo inferiore al 2 per cento ovvero a centomila euro sembra inconciliabile con la tesi definitoria[7], una più ponderata analisi del complesso di disposizioni interessate può autorizzare a ritenere che il Legislatore della legge n. 166/02 abbia, in definitiva, voluto modificare i presupposti in presenza dei quali un contratto deve, ai sensi dell’art. 18 della legge n. 55/90, essere considerato subappalto.
In sostanza, l’attuale comma 11 (come già il comma 12 dell’art. 18, nel testo modificato dalla legge n. 166 del 2002) avrebbe, come in passato, la funzione di dettare, nello specifico comparto dei contratti pubblici, un’autonoma nozione di subappalto “speciale” rispetto a quella civilistica; esso sarebbe però integrato dal comma 8 dell’art. 118 (già comma 9 dell’art. 18) che, introducendo anche l’ipotesi di subappalti di importo inferiore al 2 per cento rispetto all’importo del contratto principale (ovvero, in termini assoluti, a centomila euro), consentirebbe di ritenere implicitamente superato il predetto comma 12, nella parte in cui richiedeva – affinché un determinato contratto fosse qualificabile come subappalto – non solo la prevalente incidenza della mano d’opera, ma anche il riscontro dei valori economici surriportati.
Pertanto, dovrebbe ritenersi qualificato come subappalto qualsiasi sub-contratto in cui la mano d’opera incida per più del cinquanta per cento dell’importo complessivo (essendo, invece, del tutto irrilevante il fatto che un determinato subcontratto sia pari o superiore al 2 per cento del contratto principale, ovvero in assoluto a centomila euro).
L’interpretazione prospettata sembra trovare un indiretto sostegno nell’analisi degli stessi lavori parlamentari della legge n. 166 del 2002.
Nella stesura approvata dalla Camera, prima di subire variazioni al Senato, l’allora d.d.l. “infrastrutture” prevedeva (c. 4 dell’art. 7) una modifica al comma 12 dell’art. 18 della legge n. 55/90 nei seguenti termini: “Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano ai soli subappalti che siano di importo superiore al 2 per cento dell’importo dei lavori affidati o di importo superiore a 100.000 euro; si applicano, altresì, alla sole forniture con posa in opera e noli a caldo che siano singolarmente di importo superiore a 100.000 euro e per le quali, inoltre, l’incidenza della mano d’opera e del personale, relativamente al cantiere cui si riferisce l’appalto sia superiore al 50 per cento dell’importo del contratto. L’appaltatore trasmette al committente, prima dell’inizio delle prestazioni, una comunicazione concernente il nome del subaffidatario, l’oggetto e l’importo del contratto”.
Sul punto, la “Commissione bicamerale Parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare” (cd. Commissione Antimafia), con riferimento a tale disposizione, ha espresso parere negativo sulla proposta di modifica proprio in considerazione del fatto che, nei termini proposti, “la sostituzione del primo periodo del comma 12 dell’art. 18 della legge n. 55 del 1990 implica il venir meno di una specifica definizione di subappalto agli effetti della legge n. 55 e rischia così di ingenerare confusione sul piano classificatorio, posto che finirebbe con il creare un’area di lavori non riconducibile a nessuna parte della normativa”.
Quindi, è la stessa “Commissione Antimafia” a non dubitare della valenza definitoria del comma 12 dell’art. 18, nella stesura introdotta dalla legge n. 415/98, e ad evidenziare la necessità che la stessa disposizione non sia modificata in termini tali da determinarne un superamento, nonché ad evidenziare la necessità che i subappalti non sfuggano, in alcun caso, alla sfera di operatività della “disciplina antimafia”.
Ora, le modifiche che, nel prosieguo dell’iter parlamentare, sono state apportate all’art. 7, comma 4, del d.d.l. infrastrutture in sede di esame del medesimo, sembrano del tutto coerenti con le indicazioni rese dalla Commissione Antimafia e, proprio alla luce di queste ultime, debbono essere oggetto di valutazione[8].
Da un lato, evitando il rischio di incertezze e confusioni sul piano classificatorio, sarebbe stato mantenuto immutato il comma 12 dell’art. 18 (e, quindi, anche la relativa portata definitoria, seppure implicitamente modificandone i contenuti); dall’altro, tramite l’introduzione del comma 9, si è ritenuto di condividere la preoccupazione evidenziata da parte della Commissione di evitare che alcuni lavori, in ragione del relativo importo, potessero sfuggire alle cautele della disciplina: a tal fine, è stato, quindi, previsto (come si è detto, modificando, implicitamente, lo stesso comma 12), che per i subappalti di importo inferiore al due per cento del contratto principale ovvero, in assoluto, a centomila euro, i termini per l’autorizzazione fossero ridotti della metà; con ciò, ribadendo, appunto, la necessità di considerare anche tali contratti come subappalti.
In estrema sintesi, andrebbe qualificato subappalto di lavori pubblici qualsiasi subcontratto in cui la mano d’opera incida per più del cinquanta per cento sull’importo complessivo dei lavori. Tale nozione, emergente dalla lettura sistematica dell’attuale art. 118 del codice (già art. 18 della l. 55/90 e s.m.i.), rileverebbe in linea di principio, come già osservato, anche ai fini della fattispecie penalistica di cui alla l. 646/82 cit.
Resterebbe, tuttavia, solo da comprendere perché il Legislatore del nuovo codice, anziché pervenire ad una formulazione unitaria di subappalto, abbia preferito riprodurre le precedenti non univoche previsioni, non consentendo cosi di pervenire ad una chiara e definitiva nozione dell’istituto.
II La disciplina antimafia.
L’art. 12 del d.lgs. n. 163/2006, in materia di “Controlli sugli atti delle procedure di affidamento”, dispone, all’ultimo comma, che “restano ferme le norme vigenti che contemplano controlli sui contratti pubblici ai fini di prevenzione degli illeciti penali”.
La previsione è finalizzata a garantire la piena applicabilità del sistema delle fonti legali e regolamentari in materia penale ed, in particolare, antimafia a tutti i rapporti d’appalto e subappalto.
La normativa in questione è costituita essenzialmente, dalle seguenti norme:
- d.P.R. 3 giugno 1998, n., 252 (“Regolamento recante norme per la semplificazione dei procedimenti relativi al rilascio delle comunicazioni ed informazioni antimafia”), e, per quanto ancora applicabile, il d.lgs. 8 agosto 1994, n. 490 (artt. 1 e 4);
- d.P.C.M. 11 maggio 1991, n. 187 (recante il “Regolamento per il controllo delle composizioni azionarie dei soggetti aggiudicatari di opere pubbliche e per il divieto delle intestazioni fiduciarie, previsto dall’art. 17, comma 3 della l. 19 marzo 1990, n. 55, sulla prevenzione della delinquenza di tipo mafioso”);
- d.l. 6 settembre 1982, n. 629, conv. in l. 12 ottobre 1982, n. 726, recante in particolare la disciplina dei cd. modelli GAP.
Con particolare riferimento a quest’ultima norma, tali sono i modelli con i quali (art. 1, comma 5 del d.l. citato) “A richiesta dell'Alto commissario [n.d.R.: già Alto commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa], le imprese, sia individuali che costituite in forma società aggiudicatarie o partecipanti a gare pubbliche di appalto o a trattativa privata, sono tenute a fornire allo stesso notizie di carattere organizzativo, finanziario e tecnico sulla propria attività, nonché ogni indicazione ritenuta utile ad individuare gli effettivi titolari dell’impresa ovvero delle azioni o delle quote sociali”.
Il successivo comma 6 prevede una specifica fattispecie di reato contravvenzionale, integrata dalla condotta dell’appaltatore che non ottemperi a detta richiesta[9], ovvero fornisca notizie non corrispondenti al vero, fissandosi una pena da sei mesi ad un anno di arresto. La condanna comporta “la sospensione dall’albo degli appaltatori”[10].
In materia di disciplina antimafia ed adempimenti imposti dalla legge per prevenire l’infiltrazione mafiosa, non può trascurarsi neppure quanto previsto dal D.P.R. n. 252 del 1998 (cd. Regolamento antimafia).
Tale Regolamento distingue due tipologie di documentazione antimafia da richiedere prima di procedere alla stipula di contratti di importo superiore agli ex 300 milioni di lire: da un lato, le cd. comunicazioni (art. 3), dall’altro, le cd. informazioni prefettizie (art. 10). Le prime sono volte a verificare o meno il ricorrere in capo al subappaltatore delle cause di divieto, decadenza o sospensione di cui all’art. 10 della l. 31 maggio 1965, n. 575 e s.m.i.; le seconde, invece, hanno lo scopo di accertare l’eventuale sussistenza di “tentativi di infiltrazione mafiosa”, di cui all’art. 4, comma 4 del d.lgs. n. 490/1994 (e specificati nel regolamento antimafia), volti ad influenzare le scelte dei partecipanti agli appalti pubblici[11].
In entrambi i casi, infatti, vi è il divieto assoluto di contrattare con la pubblica amministrazione, con esclusione, in capo alla stazione appaltante, della facoltà di sindacare, ad esempio, il contenuto dell'informativa prefettizia (Consiglio di Stato, sez. VI, 30 dicembre 2005, n. 7619)[12]. Nello stesso codice dei contratti, la presenza di una delle cause ostative di cui all’art. 10 della l. 575/65 e s.m.i. (nonché l’eventuale pendenza di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 3 della l. 1423/56) costituisce, poi, causa di esclusione dagli affidamenti (art. 38, comma 1, lett. b).
Con riferimento all’applicazione di una misura di prevenzione di cui all’art. 10 delle l. n. 575/1965, deve rilevarsi che il Ministero dell’Interno con circolare n. 559 del 18 dicembre 1998, ha riconosciuto ai Prefetti la possibilità di accertare l’assenza delle predette situazioni ostative anche in capo ai conviventi del soggetto interessato (con ciò, intendendo evitare l’elusione di tale divieto tramite intestazioni fittizie delle società a persone “di comodo”); del resto, è solo in tal modo che è possibile operare un controllo ad ampio raggio volto a contrastare in concreto l’attività economia dei soggetti colpiti da una misura di prevenzione.
Posto quanto sopra, non sarà ultroneo rammentare che la normativa (art. 10 quinquies, della l. n. 575/1965 e s.m.i.) sanziona penalmente il pubblico amministratore, il funzionario o dipendente dello Stato o di altro ente pubblico, ovvero il concessionario di opere e di servizi pubblici che consenta alla conclusione di contratti e subcontratti in violazione dei divieti previsti dall’art. 10, con la reclusione da due a quattro anni (da tre mesi ad un anno nella fattispecie colposa del comma 2) Del pari, potrà configurarsi il reato di omissione d’atti d’ufficio di cui all‘art. 328 del codice penale in capo al direttore dei lavori, all’ispettore di cantiere e/o al coordinatore per l’esecuzione dei lavori che non denuncino il subappalto non autorizzato, pur essendone a conoscenza.
III. “Partecipazione plurima” consorziato-consorzio stabile.
Con previsione che ricalca quanto già disposto dal precedente art. 12, comma 5, della Legge quadro, il Codice dispone che ”in caso di inosservanza” del divieto di partecipazione alla stessa procedura di affidamento del consorzio stabile e dei consorziati “si applica l’art. 353 del codice penale” (art. 36, comma 5): in tal caso, infatti, si ritiene configurato il reato di turbata libertà degli incanti.
All’evidente scopo di rafforzare la portata del divieto, il Legislatore “tipizza” legalmente una condotta penalmente rilevante, identificandola per l’appunto nel fatto che un medesimo soggetto prenda parte alla medesima procedura ad evidenza pubblica come partecipante di un consorzio stabile e quale singolo concorrente. Evidentemente, tale iniziativa finisce in tal modo per integrare quel “mezzo fraudolento” che, a tenore della fattispecie codicistica, concreta uno degli elementi del fatto di reato e costituente in particolare la modalità cui il partecipante alla gara la impedisce o la turba o comunque ne allontana gli offerenti.
Non è, a ben vedere, la prima volta che il legislatore degli appalti pubblici adotta questo singolare soluzione, “strumentalizzando” una norma penale al fine di presidiare più efficacemente un divieto: l’art. 22 della Legge quadro (peraltro non riprodotto all’interno del codice) disponeva difatti che l’inosservanza del divieto ivi previsto di comunicare a terzi o comunque rendere in qualsiasi altro modo noto l’elenco degli offerenti o comunque dei partecipanti ad una procedura di affidamento prima della scadenza del termine per la presentazione delle offerte o delle comunicazioni ufficiali di invito alla procedura stessa comportasse “per i pubblici ufficiali o per gli incaricati di pubblico servizio l’applicazione dell’art. 326 del codice penale”.
Nel caso della “forzata” applicazione del reato di turbata libertà degli incanti (ri)proposta dal Codice De Lise, due considerazioni meritano di essere svolte.
Anzitutto, l’interpretazione sistematica della norma esclude che l’afflizione penale possa riguardare il caso della simultanea partecipazione alla medesima procedura in due o più consorzi stabili, visto che la sussunzione sotto la fattispecie del codice penale è operata solo con espresso riferimento all’ipotesi anzidetta, mentre il divieto di partecipazione a più di un consorzio stabile (ed a maggior rilievo, il divieto di prendere parte alla gara all’interno di più di una simile compagine) è svincolato da tale equiparazione ed un’estensione a tale assetto configurerebbe senz’altro un analogia in malam partem, certamente vietata.
Egualmente vietata ci pare l’estensione della condotta punita dall’art. 353 c.p., in ragione di un’esegesi, per così dire, “meccanica” del testo, all’ipotesi di partecipazione plurima ad una procedura di affidamento non preceduta o comunque caratterizzata da confronto concorrenziale, sia pure esplorativo od irrituale.
Difatti, la fattispecie di turbata libertà degli incanti, come pacificamente insegnano la giurisprudenza di legittimità e la più qualificata letteratura[13], non si applica in mancanza di una libera competizione tra più concorrenti, come nel caso in cui i singoli potenziali concorrenti vengano interpellati l’uno all’insaputa dell’altro e, più in generale, nell’ipotesi di contratto concluso a mezzo di trattativa privata del tutto svincolata da qualsiasi schema concorsuale. Del resto, il testo della norma penale fa esplicito riferimento solamente a “pubblici incanti” e “licitazioni private” per conto di pubbliche amministrazioni o privati. Ammettere che, in forza del dettato del nuovo codice dei contratti, il precetto penale scatti anche in presenza di una partecipazione congiunta ad una trattativa privata o ad un affidamento in economia non caratterizzati evidentemente da alcun confronto concorsuale (in considerazione dell’esplicito riferimento alle “procedure di affidamento”, da intendersi ricomprensive ex art. 3, comma 36 di ogni tipologia di affidamento di lavori, servizi e forniture) equivarrebbe ad un ampliamento non consentito della fattispecie penale[14].
[1] Visto che le rispettive normative di riferimento vigenti fino all’avvento del nuovo codice (rispettivamente, D.lgs. 17 marzo 1995, n. 157 art. 18, comma 3 e D.lgs. 24 luglio 1992, n. 358, art. 16, comma 3) recavano, per effetto del rinvio operato all’art. 18 della l. 19 marzo 1990, n. 55 e s.m.i., una regolamentazione del subappalto del tutto identica a quella ivi dettata per i lavori.
[2] Acutamente osserva A. Albamonte, in Lavori pubblici e legislazione penale, Milano, 1997, 229 come “l’attenzione che il legislatore ha rivolto negli ultimi anni alla disciplina del subappalto è stata determinata dalle numerose illiceità che hanno investito tale strumento contrattuale, utilizzato come mezzo per dissimulare attraverso la complicità delle stazioni appaltanti e la connivenza di settori ampi dell’imprenditoria penetrazioni inquinanti nelle commesse dei lavori pubblici”.
[3] In proposito, con riferimento ad i connotati distintivi di tale fattispecie ed in particolare alla determinazione del momento consumativo della stessa ci permettiamo di rinviare ad A. Areddu, Profili penalistici delle infiltrazioni mafiose nelle opere pubbliche, in Rivista della guardia di finanza, 4/2000, 1464.
[4] Sez. VI, 3 novembre 2005, n. 39913 (ud. 17 gennaio 2005), ric. P.G. in proc. La Piana ed altri.
[5] Cfr., tra gli altri, M.A. Sandulli in Commento all’art. 34, in L. Giampaolino, M.A. Sandulli, G. Stancanelli (a cura di), Commento alla legge quadro sui lavori pubblici, 1999, 571.
[6] Secondo l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici (determinazione n. 12 del 22 maggio 2001), la disposizione in oggetto “opera una definizione legale del subappalto, finalizzata ad individuare le regole da applicarsi per l’affidamento dei subcontratti relativi a prestazioni che non sono lavori, ma prevedono l’impiego di manodopera, come nel caso della fornitura con posa in opera e del nolo a caldo. La finalità della norma è quella di rendere assimilate ai lavori attività che sono da considerarsi di qualificazione diversa, in modo che anche per queste sussistano le garanzie previste per i lavori e, quindi, per i relativi subappalti, sempre che l’incidenza del costo della manodopera sia superiore al 50% del valore del subcontratti”. Tale impostazione non ha subito alcuna modifica, da parte dell’Autorità stessa, a seguito delle innovazioni apportate al comma 9 del medesimo articolo dalla legge n. 166/02 (cfr., sul punto, determinazione n. 27 del 16 ottobre 2002, in cui viene confermato che “la nuova disposizione riguarda esclusivamente il subappalto o i cottimi relativi alle prestazioni da qualificarsi come lavori e, quindi, nessuna variazione è stata apportata alle disposizioni in materia di contratti similari. Restano quindi pienamente valide tutte le indicazioni che l’Autorità ha fornito in ordine ai contratti similari…”).
[7] Difatti, si dovrebbe considerare subappalto un contratto che, oltre ad essere caratterizzato da un’incidenza della mano d’opera superiore al cinquanta per cento sia, comunque, di importo superiore al 2 per cento dell’importo del contratto principale ovvero, in assoluto a centomila euro
[8] Peraltro, benché, sul piano letterale, il contenuto della disposizione non consenta valutazioni, per così dire, univoche, a sostegno della tesi prospettata nel testo potrebbe rilevare una ulteriore considerazione:in particolare, è stato mantenuto fermo il contenuto dell’ultimo periodo del comma 12, nella parte in cui, nel fare riferimento all’obbligo di informativa, non ha eliminato il riferimento anche ai subcontratti aventi ad oggetto lavori; questa indicazione, come si è detto, è del tutto inconciliabile con l’affermazione secondo cui deve essere qualificato come subappalto qualsiasi contratto avente ad oggetto “lavori”.
[9] Per quanto attiene, in particolare, l’obbligo di produzione del modello GAP si segnala, in giurisprudenza, un’isolata pronuncia del TAR Sicilia - Palermo (sentenza n. 3395 del 19 ottobre 2005) nella quale è stato ritenuto che tale modello, a prescindere da una specifica previsione della lex specialis, costituisse documento imprescindibile per la partecipazione alla gara d’appalto, la cui mancata era da sanzionare con l’esclusione del concorrente. Ciò, in evidente contrasto con la dizione della norma che collega il nascere di tale obbligo alla precisa richiesta in tal senso da parte dell’Alto Commissariato.
[10] Per completezza, si osserva che, ai sensi del comma 7, è fatto obbligo alle stazioni appaltanti di fornire all’Alto Commissario, a richiesta di quest’ultimo, “le documentazioni relative alle procedure di aggiudicazione e ai contratti di opere eseguite e da eseguire”, senza peraltro prevedere alcuna specifica sanzione in caso di inosservanza all’obbligo. Tuttavia, il successivo art. 1-bis (introdotto dall’art. 2 della l. 15 novembre 1988, n. 486) nel disporre il potere dell’Alto commissario di richiedere, tra gli altri, ai “funzionari responsabili degli uffici delle pubbliche amministrazioni…dati e informazioni agli atti e ai documenti in loro possesso, ed ogni altra notizia ritenuta utile, ai fini dell’espletamento delle funzioni conferitigli” (comma 1), punisce l’eventuale inottemperanza alla richiesta ovvero la fornitura di dati ed informazioni non veritieri, salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, con l’arresto da sei mesi ad un anno (comma 3).
[11] Ai sensi dell’art. 10 citato nel testo, sono cause di divieto, tra gli altri, a concludere i contratti ed i subcontratti di cui ai commi 1 e 2 (concessioni, contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la p.a., “compresi i cottimi di qualsiasi tipo, i noli a caldo e le forniture con posa in opera”): a) provvedimenti definitivi che applicano una misura di prevenzione (art. 10, comma 2); b) sentenze definitive di condanna o sentenze di primo grado confermate in grado di appello per uno dei delitti di cui all’art. 51, comma 3 bis del c.p.p. (art. 10, comma 5 ter); c) provvedimenti del Tribunale che dispongano in via provvisoria i divieti nel corso del procedimento di prevenzione, sussistendo motivi di particolare gravità (art. 10, commi 3 e 5 bis); d) provvedimenti del tribunale che dispongano l’operatività dei divieti anche nei confronti di chiunque conviva con la persona sottoposta a misura di prevenzione, nonché nei confronti di imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi (art. 10, comma 4). E’ causa di sospensione dell’efficacia, tra l’altro, dei contratti e subcontratti il provvedimento del tribunale che in via provvisoria disponga la sospensione dell’efficacia dell’atto stesso. Costituisce, infine, causa di sospensione del procedimento amministrativo che concerne il contratto od il subcontratto l’essere il procedimento di prevenzione in corso e l’avere la pubblica amministrazione procedente provveduto a dare preventiva comunicazione del relativo procedimento al giudice competente (art. 10, comma 5 bis, seconda parte).
Quanto, da ultimo, ai “tentativi di infiltrazione mafiosa” essi sono desunti (art. 10, comma 7 del D.P.R. 252 cit.): a) da provvedimenti che dispongano una misura cautelare o il giudizio, ovvero che recano una condanna anche non definitiva per taluno dei delitti di cui agli artt. 629, 644, 648 bis e 648 ter del c.p. o dall’art. 51, comma 3 bis del c.p.p.; b) dalla proposta o dal provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dagli artt. 2-bis, 2-ter, 3-bis e 3-quater della l. 575/65; c) dagli accertamenti disposti dal prefetto anche avvalendosi dei poter di accesso e di accertamento delegati dal Ministero dell’inteno, ovvero richiesti ai prefetti competenti per quelli da effettuarsi in altra provincia.
[12] Il Regolamento esonera dall’acquisire la documentazione antimafia, tra i vari casi, per “i provvedimenti, gli atti, i contratti e le erogazioni il cui valore complessivo non supera i 300 milioni di lire” (art. 1, comma 2, lett. e). Ciò non vuol dire, beninteso, che in relazione a tali contratti (e subcontratti), l’eventuale sussistenza di cause interdittive non operi: anche un contratto, cioè, di importo inferiore a detta soglia non potrà essere stipulato se l’affidatario risulti incorrere nelle situazioni di cui all’art. 10 della l. 575 più volte menzionato nel testo.
[13] Tra le molte, cfr.: Cass. pen., sez. VI, 29 settembre 1998; id., Tarquini; 21 aprile 1995, Innocenti; 30 agosto 1993, Fara. In dottrina: Pagano, Le gare informali ed i limiti di applicabilità del reato di turbata libertà degli incanti, Riv. Pen., 1993, 161 e ss.. Contra, tuttavia: Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, 1988, I, 325.
[14] Peraltro, l’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici, con la deliberazione n. 32 del 19 febbraio 2003, ha ritenuto integrato il reato in parola in una gara d’appalto nell’ambito della quale era stata riscontrata la partecipazione di un congruo numero di candidati con offerte praticamente irrisorie e con scostamenti minimi tra i ribassi; tale circostanza, infatti, avrebbe configurato, secondo l’Autorità, una vulnerazione del principio della concorrenza tale da integrare la fattispecie de quo; ciò in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, detto reato si qualifica come reato di pericolo, sussistendo ogni qualvolta venga alterato il regolare svolgimento della gara attraverso mezzi e strumenti espressamente individuati dalla norma penale in questione (fra i quali, è prevista, appunto, la collusione, quale intesa idonea a generare eventi non leciti, tra cui i ribassi preordinati nella loro entità e la stessa previa individuazione dell’aggiudicatario, in un contesto di possibile “turnazione” nell’assegnazione delle commesse).