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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 3 ottobre 2006 (dep. 12 ottobre 2006), n. 34179/2006 (1345/2006)

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Corte di Cassazione, Sezione II Penale, Sentenza 3 ottobre 2006 (dep. 12 ottobre 2006), n. 34179/2006 (1345/2006)
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Truffa: non commette il reato chi espone sul parabrezza un falso certificato assicurativo

                         REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                       SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COSENTINO Giuseppe Maria - Presidente
Dott. MORGINI Antonio - Consigliere
Dott. PERSICO Mariaida - Consigliere
Dott. MONASTERO Francesco - Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente
                              SENTENZA
sul ricorso proposto dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello di Campobasso, nei confronti di R.S., nato il ..., avverso la sentenza del 16.11.2005 del Gip presso il Tribunale di Larino;
Sentita la relazione fatta dal Consigliere, Dott. Macchia Alberto;
Lette le conlcusioni del P.G.
                 
       OSSERVA
Con sentenza del 14 novembre 2005, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Larino ha prosciolto R.S., a norma degli artt. 459, comme 3, e 129 cod. proc. pen., perchè il fatto non sussiste dalla imputazione di tentata truffa per avere, apponendo sul parabrezza del proprio autocarro un certificato assicurativo falso e tacendo tale falsità al momento del controllo di alcuni agenti, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore tali agenti circa la regolarità della posizone assicurativa dell'autocarro stesso, per procurarsi "l'ingiusto profitto di non pagare la sanzione amministrativa con mancato introito di denaro per l'erario e non subire il sequestro dell'autovettura non assicurata".
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Campobasso, il quale ha dedotto violazione di legge.
Ad avviso del ricorrente, infatti, sussisterebbero gli estremi del contestato reato, in quanto l'imputato non si sarebbe limitato a circolare senza il certificato di assicurazione, ma attraverso il quid pluris rappresentato dalla esposizione di un falso certificato, avrebbe eluso i controlli, sottraendosi al pagamento della sanzione amministrativa e della eventuale confisca del veicolo.
Con memoria depositata in prossimità della udienza, il difensore dell'imputato ha chiesto di dichiarare inammissibile o di rigettare il ricorso.
Il ricorso è infondato.
Questa Corte ha infatti in varie circostanze avuto modo di affermare che l'esposizione sul parabrezza della autovettura del disco contrassegno materialmente falsificato unitamente alla ricevuta, integra il reato di truffa consumata, in quanto l'agente, facendo risultare l'adempimento dell'obbligo fiscale, si è sottratto al pagamento del maggior importo dovuto all'erario (Cass. Sez. II, 28 settembre 1989, Zito; Cass. Sez. II, 14 novembre 1989, Scarcelli).
Ma tale orientamento, pur avallato da una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. Sez. Un., 21 giugno 1986, Giovannelli), non soltanto non ha mancato di far registrare opposte decisioni anche in epoca successiva (vedi, ad es., Cass. Sez. II, 09 maggio 1989, De\Cesare; Cass. Sez. II, 30 giugno 1988, Ricucci), ma è stato pure vivacemente resistito in dottrina.
Partendo, infatti, dalla premessa per la quale nella struttura della truffa, secondo il suo schema tradizionale, sarebbe presente, come requisito implicito, quello dell'atto di disposizione patrimoniale - quale elemento intermedio derivante dall'errore e causa dell'ingiusto profitto con altrui danno (la truffa, è stato sostenuto, sarebbe appunto caratterizzata da tre eventi) - si è infatti osservato, al riguardo, che, pur ammettendosi la configurabilità di un atto dispositivo di carattere omissivo, nell'ambito della condotta innanzi delineata mancherebbe un qualsiasi atto di disposizione patrimoniale, non essendo esso ravvisabile nel fatto che gli organi di controllo, indotti in errore, non contestino l'evasione tributaria, nè tantomeno nel fatto che l'erario si limiti a subire l'inadempienza dell'agente al momento del versamento della somma inferiore a quella dovuta: il reato, si è ancora osservato, non sarebbe nella specie ipotizzabile perchè manca la necessaria cooperazione della vittima.
Inoltre, non ricorrerebbe la necessaria sequenza "artificio - induzione in errore - profitto", perchè, al contrario, il profitto sarebbe realizzato immediatamente, grazie al versamento di una somma inferiore, e l'alterazione del contrassegno risulterebbe finalizzata a dissimulare il profitto già ottenuto.
Simili rilievi, di tutt'altro che evanescente spessore, valgono ovviamente eo magis nella ipotesi che qui rileva, posto che tra il "contravventore" e la pubblica amministrazione non sussisteva, prima della falsificazione del certificato di assicurazione, alcun rapporto di "debito", tributario o di altra natura; sicchè il comportamento fraudolento in nessun modo poteva correlarsi ad un "danno" dell'erario, neppure dilatando al massimo la nozione di atto di disposizione di carattere omissivo.
Il profitto conseguito dall'imputato, infatti, era quello derivante dalla circolazione senza la copertura assicurativa: dunque, un fatto del tutto neutro agli effetti di un ipotetico "danno erariale", proprio perchè quella condotta non era destinata a spostare "risorse" economiche dal soggetto in ipotesi truffato all'autore di tale condotta.
A simili principi, d'altra parte, ha fatto appello anche la giurisprudenza di questa Corte, allorchè ha avuto modo di affermare che non integra il delitto di tentata truffa la condotta costituita dalla produzione di falsa documentazione a sostegno di un ricorso al prefetto avverso l'ordinanza-ingiunzione di pagamento di una sanzione amministrativa per violazione delle norme sulla circolazione stradale (Cass., Sez. VI, 25 giugno 2001, Scopacasa).
Si è infatti sottolineato - escludendosi la configurabilità della truffa, anche nella forma tentata - che, nel procedimento volto all'accertamento della infrazione amministrativa, l'autorità che irroga la sanzione in nessun modo compie un atto che possa essere riguardato come disposizione di carattere negoziale incidente sul patrimonio della amministrazione rappresentata, nè, tantomeno, sul patrimonio del trasgressore, ma pone in essere un atto autoritativo di tipo "ablatorio" che costituisce manifestazione tipica dell'esercizio di uno specifico e tipizzato munus, quale è quello di applicare sanzioni.
E' del tutto evidente, allora, che, come non può ipotizzarsi, in tale schema pubblicistico, il carattere dispositivo e negoziale dell'atto (l'accertamento della violazione) dal quale può scaturire l'insorgenza del "danno" patrimoniale postulato come elemento essenziale della truffa, nessuna lesione del bene protetto è ipotizzabile ove la condotta fraudolenta si sia limitata, come nella specie, ad eludere l'accertamento di infrazioni amministrative, che costituiscono - esse stesse - il profitto già conseguito dal trasgressore.
                               P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 03 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2006
 
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