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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 giugno 2006 (dep. 28 settembre 2006), n. 32009/2006 (20/2006)

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Corte di Cassazione, Sezioni Unite Penali, Sentenza 27 giugno 2006 (dep. 28 settembre 2006), n. 32009/2006 (20/2006)
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Indagini difensive: falso e favoreggiamento per il legale che verbalizza in modo infedele le dichiarazioni ricevute (ma per evitare guai basta non utilizzarle processualmente). Il prezzo da pagare per avere atti omologhi a quelli del pm.

                        REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                        SEZIONI UNITE PENALI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARVULLI Nicola - Presidente
Dott. LUPO Ernesto - Consigliere
Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere
Dott. CALABRESE Renato Luigi - Consigliere
Dott. MARZANO Francesco - Consigliere
Dott. AGRO' Antonio Stefano - Consigliere
Dott. CARMENINI Secondo Libero - Consigliere
Dott. GIRONI Emilio - Consigliere
Dott. FIALE Aldo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
                              SENTENZA
sul ricorso proposto da S.L., nato a ..., avverso la sentenza 19.10.2004 della Corte di Appello di Torino;
Visti gli atti, la sentenza impugnata ed il ricorso;
Udita, in pubblica udienza, la relazione fatta dal Consigliere Dr. Aldo Fiale;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Dott. Palombarini Giovanni, il quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito il difensore, Avv. Z.G.P.
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Torino, con sentenza del 19.10.2004, in parziale riforma della sentenza 26.2.2003 del G.I.P. del Tribunale di quella città, pronunciata in seguito a giudizio celebrato con il rito abbreviato:
a) confermava l'affermazione della responsabilità penale di S.L. in ordine ai reati di cui:
- all'art. 479 cod. pen. (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atto pubblico), per avere formato, il 5 febbraio 2001, un verbale falso nell'esercizio della attività di indagine svolta quale difensore di fiducia di B.Y. e quindi
nell'esercizio di una pubblica funzione giudiziaria.
- all'art.378 cod. pen. (favoreggiamento personale), per avere aiutato il proprio assistito ad eludere le investigazioni della autorità formando il falso verbale e producendolo al Tribunale della libertà alla udienza dell'8 febbraio 2001 e, con le riconosciute circostanze attenuanti generiche, essendo stati unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., ribadiva la condanna dell'imputato alla pena principale complessiva di sei mesi di reclusione ed alle pene accessorie temporanee di legge, nonchè la concessione del beneficio della sospensione condizionale;
b) sostituiva la pena detentiva con quella pecuniaria corrispondente di Euro 6.840,00 di multa.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore dello S., il quale ha dedotto erronea applicazione della legge penale nonchè mancanza di motivazione in ordine al giudizio di sussistenza di entrambi i reati addebitatigli.
Secondo i motivi di gravame, in particolare:
a) Quanto al delitto di cui all'art. 479 cod. pen.:
- la relazione di presentazione alla Commissione giustizia del Senato del disegno di legge sulle indagini difensive esordisce affermando che il difensore è rimasto un privato esercente un servizio di pubblica necessità e vi sarebbe traccia, nei lavori parlamentari, della ritenuta superfluità della previsione dell'art. 334 bis c.p.p. (esclusione dell'obbligo di denuncia nell'ambito dell'attività di investigazioni difensive), attesa tale qualifica privatistica;
- la norma dell'art. 359 cod. pen. indica che il ruolo del difensore attiene alla cura degli interessi processuali dell'imputato. La nozione oggettiva di "pubblico ufficiale", introdotta con la L. 26 aprile 1990, n.86, dovrebbe considerarsi, invece, residuale e non operante quando permanga, come nella specie, una esplicita diversa qualificazione del soggetto agente;
- di nessun rilievo, ai fini del decidere, dovrebbe considerarsi la giurisprudenza che attribuisce al difensore la qualità di  pubblico ufficiale nell'esercizio del potere di autentica di una sottoscrizione.
La difesa evoca, piuttosto, la giurisprudenza antecedente alla L.7 dicembre 2000, n.397 che, riferendosi al previgente art. 38 disp. att. c.p.p., nell'evidenziare la valenza processuale delle attività di indagine del difensore, ha comunque sottolineato la permanenza, in capo allo stesso, della qualità di esercente un servizio di pubblica necessità (Sez. 3^, 26.9.1997, n.2812, Lutfija; Sez. 5^, 2.12.1999, n.5214, Campailla; Sez. 1^, 28.12.1999, n. 6489, P.G. in proc. Di
Meglio) e una similare differenza è  stata mantenuta tra il consulente del  P.M. e il consulente della parte privata (Sez.  6^, 13.3.1996, n. 2675, Tauzilli);
- la formulazione dell'art. 327 bis, ove viene fissata la finalità del ruolo del difensore, sarebbe oggettivamente incompatibile con la qualità di "pubblico ufficiale", in considerazione della libertà che deve caratterizzare tutta l'attività del difensore medesimo, legato da un rapporto contrattuale alla realizzazione degli interessi dell'assistito;
- prevalenti sulle affinità sarebbero le differenze (sintomatiche di una assoluta diversità di ruoli) che caratterizzano le informazioni rispettivamente rese al difensore ed al P.M.: soltanto il P.M., infatti, ha una serie di poteri anche coattivi, mentre il difensore sarebbe esonerato, oltre che dal dovere di denuncia, anche da quello di documentare e produrre dichiarazioni sfavorevoli;
- significazioni concludenti potrebbero dedursi pure dalla differenza tra la dichiarazione mendace al difensore - rilevante penalmente - e la reticenza, irrilevante per quanto concerne le informazioni raccolte dal difensore e non in relazione a quelle assunte dal P.M.;
- il rinvio al titolo 3^ del libro 2^ del codice di rito, contenuto nell'art.391ter in relazione alle forme di documentazione  delle dichiarazioni e delle informazioni, opererebbe soltanto in quanto si tratti di norme applicabili e l'attività di autenticazione del difensore sarebbe limitata esclusivamente alla sottoscrizione. La documentazione del difensore, infine, avrebbe un valore processuale inferiore a quello della documentazione formata dal P.M.
b) Quanto al delitto di cui all'art. 378 cod. pen.:
- non potrebbero ravvisarsi gli estremi di una consapevole volontà di favorire indebitamente l'imputato nel processo penale in una vicenda in cui il difensore ha ritenuto di non essere portatore di un dovere deontologico-professionale di  raccogliere, e quindi di documentare, dichiarazioni ostili o comunque nocive agli interessi del suo assistito e ciò in conseguenza del preciso precetto proclamato nell'art.327 bis c.p.p., secondo cui le investigazioni difensive hanno per esclusivo oggetto la raccolta di prove "a  favore del proprio assistito".
Il ricorso è stato assegnato alla 5^ Sezione penale di questa Corte Suprema, la  quale, all'udienza del 31 gennaio 2006, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite, a norma dell'art. 618 c.p.p., rilevando che:
- il tema della qualificabilità come pubblico ufficiale del difensore che redige il verbale di dichiarazioni raccolte, in sede di investigazioni difensive, ai sensi degli artt. 391bis e 391ter c.p.p., è al centro di un acceso dibattito dottrinario e
giurisprudenziale, sfociato, quest'ultimo, anche nella rimessione alla Corte Costituzionale di una questione di sospetta illegittimità delle norme sul presupposto che esse consentirebbero al difensore di confezionare un atto probatorio avente gli stessi effetti di quello della accusa, senza prevedere uguali obblighi di garanzia a tutela della genuinità della prova (va rilevato, al riguardo, che il Giudice  delle  leggi, con ordinanza n. 264 del 20.6.2002, ha dichiarato la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza);
- seppure non risulti che la questione abbia formato oggetto di decisioni difformi, la stessa potrebbe comunque dar luogo a contrasti giurisprudenziali, tenuto anche conto di una recente sentenza di questa Corte Suprema secondo la quale l'art.359 c.p., n.1, qualifica "come servizio di pubblica necessità la professione forense indipendentemente dalla natura degli specifici atti compiuti nell'esercizio della professione" (Cass., Sez. 5^, 28.4.2005, n. 22496, Benvestito). Ciò comporterebbe che, nella specie, la condotta del ricorrente dovrebbe essere inquadrata nel meno grave delitto di cui all'art.481 cod. pen..
La Sezione remittente ha citato, al riguardo, più risalenti sentenze (Sez. 6^, 29.5.1986, n.10973, Piersanti e Sez. 1^,  9.10.1964, De Angelis) che hanno fatto registrare un contrasto tra la tesi della prevalenza, nella funzione del difensore, della cura e degli interessi processuali dell'imputato e la opposta tesi della riconoscibilità, in capo allo stesso difensore, della  qualità di pubblico ufficiale quando svolge la funzione certificatrice in sede di autenticazione della sottoscrizione del mandato ad litem.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l'odierna udienza pubblica.
           
            MOTIVI DELLA DECISIONE
1. La ricostruzione fattuale della vicenda
La vicenda trae origine dall'arresto di due extra-comunitari - tali B.Y. e N.A. - nella ritenuta flagranza del reato di illecita cessione di sostanze stupefacenti del tipo hashish, essendo stati, i due, notati nell'atto di confabulare con giovani italiani ai quali consegnavano un qualcosa in cambio di denaro.
Nell'occasione venivano bloccati anche tre di tali giovani (C.L., B.G. e B.A.), i quali erano trovati in possesso complessivamente di poco meno di tre grammi di hashish.
Era stata altresì recuperata una bustina contenente 55 grammi di hashish che il N., dopo un tentativo di foga, aveva  lasciato cadere a terra.
In sede di convalida, il N. ammetteva di aver effettuato le cessioni di hashish ai ragazzi fermati e di avere diviso a metà con il B. il provento del reato: complessivamente 20.000 L..
Il B. negava invece ogni responsabilità, asserendo di essersi limitato a fare compagna al N..
Il G.I.P. convalidava l'arresto nei confronti di entrambi, sottoponendoli a misura cautelare.
B.A. aveva inizialmente dichiarato alla P.G. (conformemente al Bi.) che gli spacciatori erano due e che la droga gli era stata materialmente ceduta da B..
In sede di trattazione dell'istanza di riesame proposta nell'interesse del B., alla udienza dell'8 febbraio 2001, il
difensore Avv. S. produceva un verbale, da lui redatto, delle dichiarazioni resegli dal Ba..
In tale verbale, recante la data del 5 febbraio 2001, il dichiarante riferiva che gli extra comunitari erano tre, dei quali uno solo aveva agito mentre gli altri avevano assistito senza partecipare. 
In particolare il B. era da identificarsi in uno degli osservatori mentre lo spacciatore era il N., cioè la persona che  deteneva la bustina contenente i 55 grammi di hashish e che era fuggito alla vista dei Carabinieri venendo poi bloccato.
Il successivo 23 febbraio, sentito dal P.M., B.A. riferiva che gli extra-comunitari erano tre ma egli si era avvicinato a quello che poi era riuscito a sfuggire alla cattura, persona che lo aveva indirizzato agli altri due. Questi gli erano apparsi complici dal momento che erano assieme durante la trattativa e che, in seguito all'intervento della P.G., essendo stato ammanettato ad una panchina il B., questi aveva suggerito al Bi. di far sparire la bustina di hashish lasciata cadere dall'amico datosi alla  fuga.
Dichiarava che tali circostanze erano state da lui riferite all'avvocato S., all'atto della redazione del verbale, ma che il difensore gli aveva detto "che non vi era bisogno di verbalizzarle" e che egli avrebbe potuto riferirle direttamente al
tribunale, se richiesto.
Il Tribunale del riesame aveva, nelle more, confermato l'ordinanza custodiate con provvedimento nel quale aveva dato atto che le dichiarazioni rese dal Ba. al legale erano diverse da quelle rese dal medesimo alla polizia giudiziaria e altresì da quelle rese da Bi. e che comunque le aveva reputate "di dubbia utilizzabilità" per la incompleta verbalizzazione degli avvertimenti di cui all'art. 391 bis c.p.p., comma 3.
Il Presidente di quel Collegio, poi, aveva trasmesso al Consiglio dell'Ordine, per il procedimento disciplinare previsto  dal comma 6 dell'art. 391 bis c.p.p., copia del verbale redatto dallo S. e del verbale della P.G., relativi alle dichiarazioni del Ba., unitamente alla ordinanza del Tribunale del riesame.
Aveva informato anche, ai fini penali, la locale Procura della Repubblica.
Questa aveva proceduto, quindi, nei confronti di Ba. per il reato di cui all'art. 371 ter c.p. (false dichiarazioni al difensore) e art. 378 cod. pen. (favoreggiamento personale) e nei confronti dello S.  per i reati di falsità ideologica (art. 479 cod. pen.) e favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.).
I giudici del merito hanno ravvisato la responsabilità penale dello S., in ordine al reato di cui all'art. 479 cod. pen.,
riconoscendogli la qualifica di "pubblico ufficiale" nell'atto della redazione del verbale di indagini difensive, qualificato tale verbale come "attopubblico".
2. La questione controversa.
La questione controversa sottoposta all'esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire se integri il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 cod. pen. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle  persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391bis e 391ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele.
Rileva, al riguardo, questo Collegio che il legislatore, all'art. 359 del codice penale, qualifica il difensore come soggetto privato esercente un servizio di pubblica necessità.
Deve ritenersi, tuttavia, che esso redige sicuramente un atto pubblico allorquando procede alla formazione del verbale  nel quale trasfonde le informazioni ricevute ai sensi degli artt. 391 bis e ter c.p.p..
Il falso ideologico eventualmente commesso dal difensore in tale occasione diviene perciò sanzionabile ai sensi dell'art. 479 cod. pen. (e non dell'art. 481 c.p.).
2.1 La L. 7 dicembre 2000, n.397 ha  potenziato il ruolo del difensore nel processo penale, introducendo una disciplina  organica delle indagini difensive, che ha tipizzato gli atti espletabili dal difensore, ricomprendendo in essi il colloquio con persone ritenute a conoscenza dei fatti, ed ha indicato le forme per documentare ed utilizzare nel processo i risultati dell'indagine stessa.
A norma dell'art. 391bis c.p.p., il difensore - nell'acquisire notizie da una persona a conoscenza dei fatti oggetto di un processo - può procedere in tre modi: 
a) conferire con essa, senza documentare il colloquio;
b) richiedere una dichiarazione scritta;
c) procedere ad esame diretto della stessa.
La documentazione del ricevimento di una dichiarazione scritta o dello svolgimento dell'esame orale deve avvenire secondo le modalità rispettivamente previste dall'art. 391ter c.p.p..
L'art. 391 decies c.p.p. disciplina, poi, l'utilizzazione processuale della documentazione delle indagini difensive,  prevedendo che il verbale delle dichiarazioni rese dalla persona informata dei fatti può essere utilizzato per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. ed è acquisibile al dibattimento mediante lettura ai sensi degli artt. 512 e 513 c.p.p..
Quanto alla documentazione diretta, da parte del difensore, di dichiarazioni acquisite nel corso di investigazioni difensive, va premesso anzitutto che non può sussistere alcun dubbio circa la sussistenza dell'obbligo di fedeltà del   difensore nella verbalizzazione e dell'obbligo di documentare le dichiarazioni in forma integrale (principi affermati anche nelle Regole di comportamento del penalista nelle investigazioni difensive, approvate il 14 luglio 2001 dall'Unione delle Camere Penali e nel Codice Deontologico, con le modifiche apportate dal Consiglio Nazionale Forense il 26 ottobre 2002), che costituiscono ad evidenza una garanzia pure per il soggetto chiamato dal legale a rendere le informazioni.
L'esistenza degli obblighi anzidetti si riconnette:
- alla ratio complessiva della L. n. 397 del 2000, che, anche con riferimento all'art. 136 c.p.p., ha introdotto una serie  di regole per garantire la genuinità della dichiarazione (avvisi, avvertimenti, verbalizzazione integrale, conseguenze penali in caso di falso), al fine di attribuire alla indagine difensiva la stessa valenza probatoria dell'attivita' del P.M.;
- alla previsione dell'art. 371 ter c.p.p., che impone un dovere di veridicità, penalmente sanzionato, alla persona informata dei fatti che viene sentita dal difensore, trattandosi di disposizione che verrebbe del tutto vanificata qualora il difensore stesso potesse non riportare compiutamente o modificare arbitrariamente le dichiarazioni ricevute;
- al disposto dell'art. 391 bis c.p.p., comma 9, che prevede la sospensione del verbale quando la dichiarazione appaia autoindiziante e la inutitizzabilità, contro il dichiarante, delle dichiarazioni di tal genere eventualmente rese in precedenza.
Ne deriva che la infedele o incompleta documentazione delle dichiarazioni acquisite a verbale dal difensore non può iscriversi nel novero delle garanzie di libertà dell'avvocato nell'espletare il proprio mandato nell'interesse del cliente.
2.2 Evidente è la differenza funzionale tra il P.M. e la difesa, in quanto solo il primo è tenuto a raccogliere tutte le emergenze riguardanti l'indiziato mentre al secondo la legge riconosce poteri ampiamente dispositivi.
Per attribuire però al difensore, in fase di documentazione delle indagini, la veste pubblica non occorre passare per la dimostrazione della parità dei doveri e dei poteri rispetto al P.M..
E' vero che il difensore non ha il dovere di cooperare alla ricerca della verità e che al professionista è riconosciuto il diritto di ricercare soltanto gli elementi utili alla tutela del proprio assistito, però sicuramente non gli è riconosciuto il  diritto di manipolare le informazioni ricevute ovvero di selezionarle verbalizzando solo quelle favorevoli.
L'interesse dell'Avvocatura, del resto, non può che essere quello di rendere la prova dichiarativa assunta dal difensore affidabile al pari di quella raccolta dall'accusa, mentre la tutela difensiva resta assolutamente integra e non riceve compromissione alcuna attraverso il riconoscimento legislativo della possibilità di non fare seguire al colloquio preventivo la sua verbalizzazione, nonchè di omettere di utilizzare processualmente il verbale di dichiarazioni che  contenga elementi sfavorevoli (art. 391 octies c.p.p.).
Il difensore, inoltre, altrettanto liberamente può addivenire alla scelta di acquisire le informazioni mediante relazione scritta dallo stesso dichiarante.
La possibilità di non utilizzare l'atto non comporta che esso possa essere distrutto; significa solo che esso può rimanere nella disponibilità privata di colui che l'ha redatto ed il delitto di falso ideologico, pur essendo istantaneo, si ricollega comunque al momento in cui l'atto acquista giuridica rilevanza ai sensi dell'art. 391octies c.p.p. e segg. non potendovi essere falsificazione ideologica punibile fino a quando l'atto rimane nell'ambito della facoltà di disposizione dell'agente (vedi Cass., Sez. 5^, 1.2.1993, n. 834).
2.3 L'art.327 bis c.p.p. finalizza l'attività investigativa del difensore alla ricerca di elementi favorevoli ma rinvia, quanto alle forme da seguire, al titolo 6^ bis del libro 5^, ossia all'art.391bis c.p.p. e segg. e, tra l'altro, all'art. 391 ter c.p.p., che onera il difensore di autenticare "la dichiarazione" e non la sola sottoscrizione del verbale, con la conseguente ravvisabilità dell'esercizio di poteri tipici del pubblico ufficiale ex art. 2703 cod. civ..
Inoltre il verbale che documenta le dichiarazioni sottostà, per espressa disposizione dell'art. 391 ter c.p.p., alle disposizioni del titolo 3^ del Libro 2^ ossia all'art. 134 c.p.p. e segg., in quanto applicabili.
Tra queste disposizioni va ricordato l'art. 136  c.p.p., che disciplina il contenuto del verbale e impone al redigente di
riportare tutto quanto avvenuto in sua presenza.
2.4 Il verbale nel quale il difensore raccoglie le informazioni è destinato a provare fatti determinati e a produrre gli stessi effetti processuali (perfetta equiparazione ai fini della prova) dell'omologo verbale redatto dal P.M. (vedi Cass., Sez. 2^, 9 aprile 2002, n.13552, Pedi) e siccome non si pone in dubbio che quest'ultimo sia atto pubblico, la stessa natura deve attribuirsi anche al verbale redatto a cura del difensore.
Ne consegue che il difensore ha gli stessi diritti e doveri del Pubblico Ministero per quanto riguarda le modalità di
documentazione.
2.5 Sui criteri per identificare il pubblico ufficiale, a seguito delle modifiche apportate all'art. 357 cod. pen. dalle L. n. 86 del 1990 e L. n. 181 del 1992, le Sezioni Unite penali:
a) con la sentenza n. 7958 del 27 marzo 1992 (depositata l'11 luglio 1992), Delogu, hanno rilevato che:
- I criteri normativi di identificazione introdotti dalla L. n.86 del 1990, art. 17, non sono cumulativi, ma alternativi e, ai  fini della qualificazione di pubblico ufficiale, è sufficiente, in particolare, l'esercizio disgiuntivo del potere autoritativo   o certificativo;
- L'art. 357 cod. pen., come successivamente novellato, attribuisce nel comma 1 la qualifica di pubblico ufficiale a coloro i quali esercitano una pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.
"La principale modifica rispetto al testo originario della norma è costituita dall'esclusione di ogni riferimento al rapporto di dipendenza del soggetto dallo Stato ovvero da altro ente pubblico, con la conclusiva sostituzione del criterio di distinzione funzionale-oggettivo a quello soggettivo. Per cui la qualifica di pubblico ufficiale deriva e risulta connotata esclusivamente dal concreto esercizio di una pubblica funzione";
b) con la sentenza n.10086 del 13 luglio 1998 (depositata il 24 settembre 1998), Citaristi, hanno affermato che:
- "Al fine di individuare se l'attività svolta da un soggetto possa essere qualificata come pubblica, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen., è necessario verificare se essa sia o meno disciplinata da norme di diritto pubblico, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore, distinguendosi poi - nell'ambito dell'attività definita pubblica sulla base di detto parametro oggettivo - la pubblica funzione dal pubblico servizio per la presenza (nell'una) o la mancanza (nell'altro) dei poteri tipici della potestà amministrativa, come indicati dal comma 2 dell'art. 357 predetto".
Nella motivazione di questa sentenza le Sezioni Unite hanno rilevato che "è necessario ricordare che l'adozione del criterio oggettivo, realizzatosi con quell'auspicata riforma, si è tradotta in una connotazione funzionale dell'attività concretamente esercitata e che in tale prospettiva è essenziale la ricerca e l'individuazione della disciplina normativa alla quale essa è sottoposta, quale che sia la connotazione soggettiva del suo autore ... quanto alla funzione legislativa e giudiziaria, è agevole ricordare che entrambe sono caratterizzate da connotazioni intrinseche così tipicizzate da non offrire certamente spazio a dubbi o perplessità, nè in relazione alla disciplina normativa alla quale esse sono sottoposte,  nè con riferimento alle modalità del loro esercizio".
Le Sezioni Unite, inoltre, con la sentenza n. 15983 dell'11 aprile 2006 (depositata il 10 maggio 2006), Sepe - relativa ai criteri per individuare l'atto pubblico (in riferimento, nella specie, alla timbratura del cartellino marcatempo ad opera di un dipendente di una pubblica amministrazione) - hanno evidenziato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità e la prevalente dottrina, "agli effetti delle norme sul falso documentale, il concetto di atto pubblico è più ampio rispetto a quello che si desume dalla definizione contenuta nell'art. 2699 cod. civ., in quanto comprende non  soltanto quei documenti che sono redatti con le richieste formalità da un notaio o da un altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede, ma anche i documenti  formati da un pubblico ufficiale o da un pubblico impiegato incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle sue funzioni, attestanti fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza ed aventi attitudine ad assumere rilevanza giuridica".
La identificazione della "funzione pubblica", dunque, a seguito della riforma dell'art. 357 cod. pen., si basa sulla "concezione oggettiva", sostituita a quella "soggettiva" che aveva trovato accoglimento nella formulazione originaria del codice e, quando si tratta di un soggetto privato, l'indice rivelatore della pubblica funzione va ricercato nella disciplina normativa dell'attività da esso svolta, disciplina che deve evidenziare finalità di interesse pubblico.
Nè può utilizzarsi, per l'attività di documentazione del difensore, l'argomento - richiamato dalla giurisprudenza più recente formatasi con riferimento all'esercizio del potere di autenticazione della autografia delle sottoscrizioni apposte  dalle parti nelle procure speciali rilasciate allo stesso difensore - secondo cui l'autentica di firma non è atto pubblico  perchè non comprende dichiarazioni delle parti o attestazione di fatti avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale (vedi, ad esempio, Cass., Sez. 2^, 22.1.2003, n. 3135, P.M. in proc. Quattrone): tali dichiarazioni e fatti ricorrono, invece, nell'attività di documentazione del difensore qui esaminata.
La giurisprudenza civile di questa Corte, del resto, con orientamento costante, evidenzia che "la funzione del difensore  di certificare l'autografia della sottoscrizione della parte, ai sensi degli artt. 83 e 125  cod. proc. civ., pur trovando la sua base in un negozio giuridico di diritto privato (mandato), ha  natura essenzialmente pubblicistica, atteso che la dichiarazione della parte, con la quale questa assume su di sè gli effetti degli atti processuali che il difensore è legittimato a compiere, è destinata a dispiegare i suoi effetti nell'ambito del processo.
Ne consegue che il difensore,  con la sottoscrizione dell'atto processuale e con l'autentica della procura riferita allo stesso, compie un negozio di diritto pubblico e riveste la qualità di pubblico ufficiale, la cui sottoscrizione può essere  disconosciuta soltanto con la querela di falso" (così Cass., Sez. lavoro, 16 aprile 2003, n.6047, Mastronicola c/ Battista; 20 giugno 1996, n.5711, Artar Cicli c/Rigon).
2.6 Irrilevante è la circostanza che, per la violazione del dovere di completezza della verbalizzazione, sia stata espressamente prevista (art. 391bis c.p.p., comma 6) una sanzione disciplinare, perchè ciò non significa che il legislatore abbia intenzionalmente stabilito di sanzionare solo in via disciplinare la violazione del dovere di fedele documentazione del difensore.
La previsione del rilievo disciplinare di un fatto non ne esclude la rievanza anche sotto i profili penali e nel sistema processuale si rinvengono norme (quali l'art. 115 c.p.p., art. 25 disp. att. c.p.p., art. 124 c.p.p.) che prevedono illeciti disciplinari per condotte che pacificamente sono perseguite pure penalmente quando integrino estremi di reato.
2.7 Esiste un'evidente simmetria legislativa fra la falsità nelle dichiarazioni verbalizzate dal difensore (art. 371 ter cod.  pen.) e quella riguardante le dichiarazioni verbalizzate dal P.M. (art. 371 bis cod. pen.), entrambe di rilevanza penale.
E' vero che l'art. 371 ter cod. pen. punisce le false dichiarazioni ma, riconoscendo il diritto della persona informata ad avvalersi della facoltà di non rispondere al difensore, non ne punisce la reticenza. 
Il difensore, però, può fare ricorso alle particolari procedure previste dai commi 10 e 11 dell'art. 391 bis  c.p.p.,  per
ottenere le dichiarazioni della stessa persona dinanzi al P.M. o con incidente probatorio e, nella audizione ottenuta dinanzi al P.M. su richiesta del difensore (art. 391 bis c.p.p., comma 10), si applica la disposizione  generale dell'art. 362 c.p.p., che disciplina le modalità di assunzione delle informazioni da parte del P.M., a sua volta contenente il rinvio all'art. 198 c.p.p., che sancisce l'obbligo del testimone di rispondere secondo verità.
Neanche la reticenza, dunque, nella complessiva articolazione del sistema, rimane priva di sanzione.
2.8 L'esonero del difensore e collaboratori dall'obbligo di denuncia, stabilito dall'art. 334 bis c.p.p., non risolve la questione della loro configurabilità come pubblici ufficiali, ben potendosi ritenere delineata una figura di pubblico ufficiale eccezionalmente dispensato dall'obbligo di denuncia.
2.9 Correttamente i giudici del merito hanno ritenuto, infine, che nella specie non si tratta di falso innocuo.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di falsità di atti pubblici, la legge penale tutela il documento non  per il suo contenuto e la sua validità intrinseca ma per la sua funzione attestativa e per la sua attitudine probatoria, sicchè la invalidità del rapporto giuridico rappresentato dal documento non esclude il delitto di falso previsto dall'art. 476 cod. pen. (vedi Cass., Sez. 5^: 16.12.1997, n. 11714, Lipizer e 12.2.1992, n. 1474, Goio). 
Perchè il documento sia insuscettibile di protezione penale deve essere privo dei requisiti formati che ne consentono la
riconoscibilità sì da potersi considerare "inesistente" e, d'altro canto, per la configurazione del reato, non occorre che l'atto, al momento della sua falsificazione, possa ritenersi valido per istituire o provare un rapporto, bensì che mercè la falsificazione risulti idoneo a provare la sussistenza sia pure apparente, nei confronti dei terzi, della situazione documentata.
Il verbale in questione, pur dichiarato dal Tribunale del riesame "inutilizzabile", non era privo di qualsivoglia rilevanza probatoria, ossia inesistente (qualità sulle quali, come si è detto, la giurisprudenza ha costruito la tesi del falso innocuo): esso, infatti, aveva comunque dato origine al procedimento penale a carico del Ba. e avrebbe potuto dare origine ad indagini contro il terzo complice rimasto ignoto.
3. Ritengono, in conclusione, queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale integra il delitto di falso ideologico di cui all'art. 479 cod. pen. la condotta del difensore che utilizzi processualmente le dichiarazioni delle persone informate di circostanze utili acquisite a norma degli artt. 391bis e 391ter c.p.p. e verbalizzate in modo infedele.
4. Anche i motivi di gravame riferiti al delitto di cui all'art. 378 cod. pen. sono infondati.
Va ribadita, al riguardo, la consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema secondo la quale, per la sussistenza del delitto di favoreggiamento personale, è sufficiente il dolo generico, che consiste nella coscienza e volontà di prestare, con una condotta a forma libera, aiuto ad una persona in relazione ad un reato commesso, per eludere le investigazioni o per sottrarsi alle ricerche (vedi Cass.Sez. 1^, 8.7.1999, n. 8786; Sez. I, 23.10.1995, n. 10544; Sez. 6^, 20.9.1991, n. 9819).
Anche il difensore dell'imputato può rendersi responsabile del delitto di favoreggiamento personale allorquando presti un consapevole aiuto diretto, oltre i limiti dell'attività difensiva, anche solo ad intralciare l'opera di investigazione o di  ricerca dell'autorità (vedi Cass., Sez. L, 26.6.1986, n. 6204): la difesa, infatti, quale diritto inviolabile, non ha nulla a che vedere con attività sleali o delittuose.
Per la configurazione dell'esimente di cui all'art.51 cod. pen., l'esercizio di un diritto scrimina nei limiti in cui esso è riconosciuto, essendo necessario che l'attività posta in essere costituisca una corretta estrinsecazione delle facoltà inerenti al diritto in questione.
Nella vicenda in esame precise disposizioni legislative e deontologiche imponevano all'imputato la fedeltà nella
verbalizzazione e non può costituire scriminante, neppure nella forma putativa, la convinzione dell'esistenza di un diritto in realtà inesistente che si è tradotta in un esercizio del diritto di difesa al di fuori dei suoi limiti legali e naturali, non integrante errore relativo al fatto.
E' fuorviante discettare, infine, della astratta possibilità di configurare un favoreggiamento personale del difensore in  forma omissiva, perchè nella specie l'omessa verbalizzazione è soltanto un presupposto della condotta commissiva di produzione di un verbale contraffatto.
5. Il ricorso, per tutte le argomentazioni svolte dianzi, deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
                
               P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 27 giugno 2006.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2006
 
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