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Alcune brevi considerazioni "a prima vista" sul decreto legge recante Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche, prima della sua (eventuale) conversione in legge.
Sulla scia di numerosi scandali che hanno visto come indiscusse protagoniste le intercettazioni telefoniche e sotto la spinta di una buona parte dell'opinione pubblica che — invero già da qualche tempo — premeva onde ottenere un riordino della disciplina (ed infatti erano stati presentati diversi progetti di legge in tal senso), è stato emanato il D.L. 22 settembre 2006, n. 259, recante Disposizioni urgenti per il riordino della normativa in tema di intercettazioni telefoniche, pubblicato sulla G.U. n. 221 del 22 settembre 2006. Il decreto consta di cinque articoli, i primi due dei quali modificano il codice di procedura penale, il terzo introduce un nuovo reato, il quarto riguarda alcuni rapporti civilistici in tema di risarcimento del danno e l'ultimo disciplina l'entrata in vigore, prevista, in deroga alla regola generale sulla vacatio legis, il giorno successivo alla data di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, id est il 23 settembre 2006. Il decreto incide (senza peraltro intaccare la disciplina di cui al Libro III, Titolo III, Capo IV c.p.p.) su tutte le tipologie di intercettazioni telefoniche, ambientali o telematiche. L'art. 1 riscrive l'art. 240 c.p.p.: con una prassi divenuta oramai consueta (e probabilmente dovuta alla necessità di legiferare in fretta), il decreto sostituisce integralmente, ancorché formalmente, l'intero testo, sostanzialmente, invece, aggiunge due commi. Il novello art. 240 comma 2 prevede che l'autorità giudiziaria disponga l'immediata distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni, relativi al traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti; analogamente si deve procedere per i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni; conseguentemente è anche vietato eseguire copia di quelli in qualunque forma. Un primo problema, di ordine pratico, di immediata rilevazione è costituito dalla distruzione dei supporti contenenti dati e contenuti di conversazioni e comunicazioni. Se, infatti, nel caso di documenti è evidente che la distruzione è l'unico mezzo idoneo ad eliminare il contenuto da essi veicolato, ciò non vale per i supporti, ritenendo che, con tale espressione, si alluda in maniera specifica ai supporti informatici. La previsione della distruzione del supporto, al posto della cancellazione dei dati in esso contenuti appare drastica, anacronistica ed appalesa una certa mancanza di conoscenza delle diverse forme di cancellazione dei dati. Il discorso potrebbe apparire futile, solo se non si considerasse che una completa distruzione del supporto potrebbe comportare un inutile pregiudizio (consistente nella perdita di altri dati) subìto dal soggetto che fruiva del supporto stesso (che può essere chiunque). Logica è la previsione del divieto di copia di tali supporti e documenti, ché, altrimenti, sarebbe vanificata la previsione circa la loro distruzione. L'ultimo periodo del comma prevede che il contenuto di tali atti e documenti non costituisca affatto notitia criminis, né possa essere utilizzato a fini processuali o investigativi. Il comma 3 inserito dalla novella riguarda, invece, la redazione di un apposito verbale, in cui si dà atto sia dell'avvenuta intercettazione illegale ovvero della detenzione e della acquisizione della stessa, nonché delle sue modalità e dei soggetti interessati, senza, tuttavia, che venga fatto alcun riferimento al contenuto. Non del tutto convincente appare, a prima vista, la circostanza che, da un lato, venga richiesta la verbalizzazione dei soggetti interessati, dall'altro che sia tassativamente escluso qualsiasi riferimento ai contenuti. Una tale norma sarebbe completamente priva di logica, se non trovasse il suo pendant in quanto previsto dall'art. 4: nell'insieme, le due norme hanno una razionalità, sebbene non manchino spunti di critica (per i quali, v. infra). Di notevole importanza, inoltre, appare l'utilizzo dell'espressione "illegalmente formati o acquisiti". Tale espressione dice riferimento alle intercettazioni che, già ora, integrano fattispecie di reato previste dal Libro II, Titolo XII, Capo III, Sezioni IV e V c.p.; non possono rientrare nel novero le intercettazioni non convalidate o il cui decreto sia stato ritenuto illegittimo; in tali ultimi casi è già prevista come sanzione la inutilizzabilità (non è, però, escluso che il soggetto agente di tali reati possa essere un soggetto qualificato che agisce con abuso dei poteri inerenti all'ufficio o al servizio). Ciò non toglie che una maggiore chiarezza da parte del legislatore in sede di conversione, eliminerebbe tutti i dubbi, anche se appare poco sostenibile, maxime in criminalibus, che il concetto di "illegalità" sia in rapporto di continenza con quello di "illegittimità". D'altro canto, il codice di rito già prevede ipotesi in cui le "intercettazioni illegittime" sono distrutte. La sanzione colpisce quello che potrebbe essere l'(illegale) mezzo di ricerca della prova, ma si riverbera anche sulla fonte di prova stessa sia perché la distruzione comporta la perdita del contenuto sia perché l'espresso riferimento ai "documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni" non può far propendere per diversa soluzione. L'art. 2 del decreto, poi, aggiunge, ancora una volta con sorprendente numerazione, un comma 1-bis all'art. 512, prevedendo che sia sempre consentita la lettura dei verbali relativi all'acquisizione ed alle operazioni di distruzione degli atti di cui all'articolo 240 comma 2 c.p.p. Il riferimento ai soli atti potrebbe far sorgere, in sede di interpretazione, qualche dubbio, posto che il legislatore pare utilizzare a volte come sinonimi, altre volte come indicanti res differenti i termini "documento", "atto" e "supporto" ed atteso che, l'art. 240 comma 2 specifica partitamente "documenti", "atti" e "supporti"; forse una maggiore chiarezza sarebbe derivata dal riferimento al semplice verbale di cui all'art. 240 comma 3 c.p.p. L'art. 3 introduce, al comma 1, una nuova fattispecie di reato, relativa all'illecita detenzione degli atti e dei documenti di cui al novellato art. 240 comma 2 c.p.p. La configurazione di tale ipotesi come reato comune nonché la previsione della condotta come mera detenzione indicano chiaramente l'intento del legislatore di voler stroncare definitivamente un fenomeno: tutte le ipotesi di reato che prevedono una condotta di mera detenzione presentano un fortissimo connotato repressivo, che inevitabilmente sacrifica la libertà del soggetto, soprattutto atteso che appare ininfluente il modo di acquisto del soggetto detentore. Il comma 2, infine, prevede una circostanza aggravante speciale, comportante l'aumento di pena, nel minimo ad un anno, e nel massimo a sette anni, qualora il soggetto agente sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. L'art. 4 disciplina alcune conseguenze di ordine civilistico. Si è detto "alcune", in quanto va subito precisato che la norma non prevede la tipizzazione di una nuova forma di responsabile civile in relazione al reato di cui al precedente art. 3, in quanto la condotta relativa a quest'ultimo è individuata nella detenzione, mentre la "pena privata" precisata all'art. 4 colpisce chi divulga (ovvero il direttore od il vice-direttore responsabile e l'editore in solido fra loro) gli atti o i documenti di cui all'articolo 240 comma 2 novellato (a rinforzare l'idea che si tratti di una vera e propria "pena privata", si consideri il parallelo con la normativa sulle intercettazioni preventive, in particolare l'art. 5 commi 3-bis e 3-ter, D.L. 18 ottobre 2001, n. 274, convertito con modificazioni in l. 15 dicembre 2001, n. 438); non si tratta, dunque, di responsabilità derivante dal nuovo reato, il cui risarcimento rimane impregiudicato, sia in sede penale sia in sede civile nei confronti dell'imputato e degli eventuali responsabili civili; potrebbe, invece, connotarsi come responsabilità civile da reato per le fattispecie supra rammentate già previste dal codice penale, che andrebbe a specificare quella già prevista dall'art. 11, l. 8 febbraio 1948, n. 47. La norma lascia piuttosto perplessi sotto diversi punti di vista. Infatti, la richiesta di "riparazione" (così parla esplicitamente il testo normativo) è configurata come solamente eventuale e soggetta all'arbitrio del soggetto interessato. In primo luogo, si deve notare come non si parli di "soggetto danneggiato" bensì di semplice "interessato", ragion per cui, ben potrebbe trattarsi anche di chi non ha preso parte alla comunicazione interessata, ma sia stato semplicemente oggetto della stessa, pur non risultando danneggiata dall'illecita divulgazione; in secondo luogo, si deve notare che apparendo quale ipotesi inquadrabile come speciale rispetto alla disciplina di cui all'art. 2043 c.c. (ché altro non può intendersi con il termine "riparazione", se non risarcimento del danno; ciò è poi chiarito dal successivo comma 2, che parla expressis verbis di "danno risarcibile") esso presuppone tutti gli elementi necessari alla concretizzazione della fattispecie risarcitoria del danno aquiliano: elemento soggettivo, evento e nesso eziologico (ergo, il termine "interessato", di cui supra, andrebbe inteso come "danneggiato"). In terzo luogo, appare pleonastica la previsione che la richiesta sia prefigurata come eventuale e soggetta alla volontà dell'interessato: trattandosi di un diritto patrimoniale, esso è disponibile per antonomasia. Si ricollega al discorso del risarcimento del danno in sede civile, la disposizione confluita nell'art. 240 comma 3 che prevede la verbalizzazione dei soggetti interessati: in questa maniera, nonostante la distruzione degli atti, dei documenti e dei supporti (e, dunque, la consequenziale eliminazione dei contenuti), si precostituisce una prova (fortissima) circa la legittimazione del soggetto interessato ad agire per la riparazione. Lascia perplessi anche la predeterminazione della somma liquidabile (non nuova, peraltro, nel sistema italiano, si pensi al risarcimento per le lesioni micropermanenti ex art. 5, l. 5 marzo 2001, n. 57: in quel caso, però, si tratta di danno biologico, ancorato ad una valutazione medico-legale, qui è determinato il danno morale): predeterminata in maniera assoluta nel minimo, id est € 20.000; nel massimo e nel minimo, sempre in maniera assoluta, id est da € 50.000 ad € 1.000.000, a seconda dell'entità del bacino di utenza, ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico; indeterminata nel massimo nel caso in cui trattisi di carta stampata. In questa maniera, un telegiornale ad ampia diffusione, che ottiene milioni di telespettatori, potrà essere condannato al massimo a pagare € 1.000.000, mentre un giornale che stampi ipoteticamente 2.000.000 di copie, sarà condannato (essendo predeterminato il risarcimento unitario per ogni singola copia stampata e pari € 0,50) al pagamento della medesima somma, pur essendo minore il numero di lettori rispetto a quello dei telespettatori. Perplessità sorgono anche in merito alla mancata equiparazione tra la diffusione telematica (quando questa avvenga attraverso lo scritto) e la carta stampata: dando ennesima dimostrazione di ignoranza dei mezzi di comunicazione, il legislatore ha preferito equiparare Internet alla televisione o alla radiofonia, senza considerare che la prima si caratterizza come mezzo di comunicazione che, a seconda dei casi, può essere assimilato alla carta stampata, alla televisione ed alla radiofonia. Il comma 2 prevede, invece, alcune norme processuali, imponendo per l'azione un termine decadenziale breve di un anno dalla data della divulgazione, salvo che il soggetto interessato non dimostri di averne avuto conoscenza successivamente. È previsto, poi, che la causa sia decisa nelle forme di cui agli artt. 737 e s.s. c.p.c., cioè con il procedimento in camera di consiglio (con tutti i problemi del caso; si nota, solo incidentalmente, che ancora una volta il legislatore ha preferito favorire la celerità, obliando che tali procedimenti, in linea teorica, peraltro spesso disattesa, non dovrebbero incidere su diritti soggettivi come invece avviene in questo caso, posto che l'ultimo periodo del comma 2 parla di "danno risarcibile"; la confusione, poi, è massima sol che si consideri che il soggetto è definito "interessato", termine che appare più consono, sebbene, come si è visto, in contraddizione con la sua situazione giuridica, alla tipologia di procedimento; di certo, la scelta di questo tipo di procedimento enfatizza la connotazione di pena privata che la somma liquidata pare voler mostrare). La norma fa salva la possibilità del giudizio ordinario (e quindi lascia aperta la possibilità di esperire azione per il maggior danno ovvero di esperire l'azione ordinaria di risarcimento nei termini regolati dal codice civile), ma, ai fini della liquidazione del danno risarcibile, è precisato che si tenga conto della somma corrisposta ai sensi dell'articolo 4. Il comma 3, da ultimo, precisa che ovviamente l'azione viene esercitata senza pregiudizio di quanto il "Garante della privacy" o l'autorità giudiziaria possano disporre ove accertino o inibiscano l'illecita diffusione di dati o di documenti, anche a seguito dell'esercizio di diritti da parte dell'interessato, così come previsto dal d.lgs. 196/2003. Il comma 5, infine, prevede che l'entrata in vigore sia fissata al giorno successivo alla pubblicazione sulla G.U., con ciò evidenziando ancora una volta la necessità di urgenza di impedire la diffusione del fenomeno, cosa che traspare con una certa forza da tutto il testo del decreto: ne sono chiari segni sia le pene draconiane nei massimi (sei anni e sette anni per l'aggravante di cui all'art. 3 comma 2: si pensi che il massimo previsto dagli artt. 617 e 617-quater per la rivelazione è quattro anni), sia la vera e propria connotazione di pena privata che è stata conferita alla c.d. "riparazione", vuoi per la scelta del rito, vuoi per l'elevato minimo liquidabile previsto.
dott. Franco Stefanelli - Foro di Reggio Emilia
26 settembre 2006
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