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Franco Stefanelli, Breve storia della codificazione penale e processualpenale italiana
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Una rapida panoramica sullo sviluppo del codice penale e del codice di procedura penale dall'Unità d'Italia ai giorni nostri.

1. Dal Codice unitario al Codice Zanardelli
Negli anni del processo di unificazione politica della penisola italiana, il Codice di procedura penale[1] sardo del 1859 fu esteso, per tappe successive, ai diversi territori annessi[2]: nel biennio 1859-60 alle province emiliane[3] e alla Lombardia[4], un anno dopo alle province meridionali[5]. Dopo le variazioni apportare dal ministro Giuseppe Pisanelli, il testo definitivo venne promulgato il 26 novembre 1865[6], diventando il primo Codice di procedura penale italiano, con vigenza dal 1 gennaio 1866.
 
La stessa cosa non avvenne, con la medesima facilità, per quanto constava il Codice penale per gli Stati di Sua Maestà il Re di Sardegna del 20 novembre 1859[7], il quale fu sì esteso a molti dei territori annessi[8], ma non a tutti[9]: rimase, infatti, vigente, nell’area del Granducato di Toscana il Codice penale del 1853[10]; i numerosi sforzi di estendere il codice sardo all’area del Granducato si rivelarono tutti vani: il motivo principale di questo fallimento risiedeva nella circostanza che l’estensione del codice sabaudo avrebbe inevitabilmente significato il ripristino della pena capitale proprio laddove essa già era stata abolita[11]. La stigmatizzata prospettiva di una reformatio in peius e la certa riprovazione popolare conseguente si scontravano con l’impossibilità derivante dall’immaturità del resto della penisola per un cambiamento di siffatta portata nel senso del favor rei nella fase dell’esecuzione, risolvendosi così, come suole accadere, l’antinomia in inanità[12].
 
Il primo progetto per un Codice penale del Regno d’Italia[13], sebbene limitato al libro primo, risale al 1864[14], ad opera di Giovanni De Falco, su incarico, conferito l’anno precedente, del ministro Giuseppe Pisanelli; questi fu a sua volta nominato presidente di un’altra commissione, avente il medesimo scopo, nel 1866, proprio da De Falco, che, nel frattempo, era divenuto anch’egli Guardasigilli. Questa seconda commissione, partendo dal lavoro del 1864 e con l’intenzione di portarlo a termine, presentò nel 1868 un nuovo progetto in due libri[15], cui fece seguito nel 1870 un nuovo elaborato, stilato da una diversa commissione, nominata l’anno precedente[16] dal ministro Michele Pironti. A questi ultimi due progetti[17] fecero seguito ulteriori due, promossi dagli allora Ministri della giustizia, De Falco nel 1873 e Paolo Onorato Vigliani nel 1874[18]. Il progetto di quest’ultimo, però, non fu nemmeno esaminato dalla Camera dei deputati a causa della crisi del 1876: venne, tuttavia, poi adottato, sebbene con modificazioni, dal successore di Vigliani, Pasquale Stanislao Mancini[19], le cui dimissioni nel 1877 ne interruppero, però, ancora una volta, i lavori[20].
 
Nel 1883, il ministro Giuseppe Zanardelli produsse il suo primo progetto integrale di Codice penale, che fu presentato, con modificazioni, alla Camera, dal suo successore Bernardino Giannuzzi Savelli; subentrato, al Ministero della giustizia, Enrico Pessina, questi apportò nuove modifiche al testo e così fece anche, nel 1886, il ministro Diego Taiani. Tornato alla guida del dicastero, Zanardelli fece redigere un altro testo, che, prendendo largamente spunto dal suo primo progetto, accoglieva le proposte e le innovazioni suggerite negli anni precedenti. L’elaborato fu presentato alla Camera dei deputati nel 1887, e fu sottoposto allo studio di una commissione, presieduta da Mancini: dopo un acceso dibattito, si pervenne alla conclusione di delegare al Governo, con l. 22 novembre 1888, n. 5801, le eventuali correzioni e di evitare alla Camera sia la discussione sia la votazione articolo per articolo; si stabilì, inoltre, come termine ultimo per la promulgazione del codice il 30 giugno 1889. Dopo che una commissione, presieduta dallo stesso Zanardelli, ebbe portato a termine le ultime modifiche, il testo fu firmato dal re Umberto I il 30 giugno 1889 ed entrò in vigore il 1 gennaio 1890[21]. In questo codice, i temi «dei delitti commessi all’estero, [e] dell’estradizione erano affrontati dal testo in forma nuova in ossequio alle aspettative di una società nella quale le concezioni repressive in materia penale si andavano progressivamente mitigando in armonia ai principi umanitari maggiormente sentiti in uno Stato retto dai postulati di un affermato costituzionalismo liberale»[22].  Questo fu poscia esteso anche ai territori acquisiti a seguito del primo conflitto mondiale attraverso il r.d. 23 giugno 1921, n. 287.
 
2. La nascita del codice di procedura nel 1913
 
Negli stessi anni, vari innesti e modificazioni ebbero ad oggetto anche il codice di rito (e.g.: l. 8 giugno 1874 n. 1937, l. 30 giugno 1876 n. 3183, r.d. 1 dicembre 1889 n. 6509, contenente le disposizioni attuative del Codice penale, che risolsero molti problemi procedurali venutisi a creare a causa della sovrapposizione di un nuovo codice sostanziale a quello vecchio di rito), tanto che fin dal 1890 si iniziò a parlare di un nuovo codice di procedura, mentre rimasero allo stato di progetti i testi voluti dai ministri Teodorico Bonacci ed Emanuele Granturco; tuttavia, le prime manifestazioni del nuovo Codice di procedura penale si ebbero già nel 1898, allorché il ministro Camillo Finocchiaro Aprile nominò una commissione che, sei anni dopo, partorì un testo, però, alquanto schematico; nel 1905, di nuovo sotto la guida del ministro Finocchiaro Aprile, questo testo, benché modificato ed innovato, fu presentato alla Camera dei deputati, ma il suo esame si arenò nella commissione parlamentare istituita ad hoc. Tra il 1908 ed il 1909, l’allora Guardasigilli Vittorio Emanuele Orlando promosse più disegni di riforma della giustizia, ma solo nel 1911, grazie all’ennesima nomina a ministro di Finocchiaro Aprile, fu presentato un ulteriore progetto basato su una versione aggiornata del testo del 1905. Terminato l’esame delle commissioni parlamentari, con l. 20 giugno 1912, n. 598[23], il Governo ottenne la delega alla pubblicazione; modificato abbastanza incisivamente ancora una volta, fu infine presentato al Re e pubblicato il 27 febbraio 1913[24], entrando in vigore il 1 gennaio 1914.
        3. I codici Rocco
Terminato il primo conflitto mondiale, che aveva arrestato qualsiasi attività di affinamento suggerita dall’applicazione pratica dei codici[25], risorsero dalle ceneri postbelliche le intenzioni di riforma del Codice penale: è il 1919 quando il ministro Ludovico Mortara, a tale scopo, nomina una commissione ministeriale, presieduta da Enrico Ferri[26]. Nel 1921 i lavori della commissione, relativi alla sola parte generale – centotrentuno articoli – e fortemente ispirati ai canoni della c.d. scuola positiva, furono presentati all’allora ministro Luigi Fera, suscitando polemiche e dissensi a livello sia dottrinale sia politico[27]. Negli stessi anni, nell’ambito dei poteri delegati dalla l. 3 dicembre 1922, n. 1601[28], avvenne il passaggio della Direzione generale delle carceri e dei riformatori dal Ministero dell’interno al Ministero di grazia e giustizia e dei culti.
 
La revisione della codificazione penale voluta dal regime fascista si concretizzò nella l. 24 dicembre 1925, n. 2260, con cui si concedeva al Governo la facoltà di modificare il Codice penale, il Codice di procedura penale e le norme sull’ordinamento giudiziario[29]. Nel 1926 fu subito nominata, dal ministro Alfredo Rocco, una numerosa commissione ministeriale, presieduta da Giovanni Appiani, per la stesura di un nuovo progetto di Codice penale. L’elaborato partorito dalla commissione[30] fu presentato senza alcuna relazione nell’ottobre 1927 e rimase all’esame della commissione ministeriale fino al giugno 1928; il 27 ottobre 1929, il Progetto definitivo venne, infine, inviato alla competente commissione parlamentare e, dopo un’ultima revisione tecnica[31], fu pubblicato, accompagnato da una Relazione al Re, con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398. Nel 1929, intanto, dopo una serie di lavori durata alcuni anni[32], il ministro aveva anche presentato un progetto di Codice di procedura penale, redatto, tra gli altri, da Vincenzo Manzini e Carlo Saltelli; fatto circolare il testo del progetto[33] e raccolti i pareri su quello, il nuovo elaborato[34] fu inviato ad una commissione interparlamentare presieduta da Mariano D’Amelio. Superato il passaggio delle commissioni parlamentari, fu steso il progetto definitivo che, ancora dopo ulteriori affinamenti, fu presentato al sovrano e pubblicato con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399. Tra le varie novità, è importante notare come, con questo nuovo codice di rito, le norme sui rapporti giurisdizionali con le autorità straniere assursero al rango di Libro e non più di semplice Titolo. Entrambi i codici entrarono in vigore il 1 luglio 1931.
 
4. Dal dopoguerra al Codice di rito del 1988
 
Alla caduta del fascismo[35], si avvertì subito la necessità di riformare i testi di entrambi i codici: già il 31 agosto 1944 il Consiglio dei ministri approvò una delega al Governo «per provvedere alla riforma della legislazione penale, per la formazione di un nuovo codice penale e di un nuovo codice di procedura penale pienamente aderenti alle tradizioni giuridiche del popolo italiano»[36]. Significativo è anche il fatto che l’art. 1 del d.lgs.lgt. 14 settembre 1944, n. 288 si aprisse con una formula – la quale diverrà poi un leitmotiv ricorrente in molte riforme successive – che considerava come certa la riforma radicale dei due codici[37]: «Fino a quando non siano pubblicati i nuovi codici penale e di procedura penale sono apportate le modificazioni di cui agli articoli seguenti al codice penale ed al codice di procedura penale in vigore»[38]. Il 2 gennaio 1945 il ministro Umberto Tupini istituì una commissione[39] per la riforma del Codice penale, che partorì nel luglio 1945 un progetto di riforma inerente la parte generale[40]; istituito in seno alla commissione un Comitato di coordinamento, quest’ultimo presentò al Governo, nel gennaio 1947, un Progetto preliminare di riforma del codice penale concernente l’intero Libro I[41] e, nel settembre dello stesso anno, al Ministro della giustizia Giuseppe Grassi, uno Schema preliminare di riforma parziale del codice penale, entrambi pubblicati in bozze di stampa riservate. Tuttavia, «[…] molti componenti della Commissione insistettero con motivati pareri perché si tornasse all’idea di una riforma integrale; e il ministro Grassi, dopo aver integrato la Commissione stessa, dette disposizioni perché si procedesse di bel nuovo a mettere a punto un progetto completo di codice»[42]. Un’ulteriore spinta nella direzione riformatrice venne dall’entrata in vigore il 1 gennaio 1948 della nuova carta costituzionale, che palesò immediatamente la sua incompatibilità, sotto molti aspetti, con i due codici del 1930[43]. Nel febbraio 1949, il ministro Grassi incaricò un Comitato esecutivo – che sostanzialmente si sostituì alla Commissione (evidentemente giudicata troppo ampia)[44] per la riforma del Codice penale – al fine di portare a compimento l’opera più celermente ed in maniera più organica: così tra il 1949 ed il 1950[45] fu approntato un articolato[46], che venne, però, aspramente criticato[47] e, dunque, accantonato: d’altro canto, le proposte più significative altro non facevano se non ricalcare quelle del progetto di quattro anni prima[48]. Bisognerà attendere il 1956 perché sia riunita, grazie all’iniziativa del ministro Aldo Moro, una nuova commissione (sotto la presidenza di Leonardo Giocoli) con l’intento di apportare alcune modifiche al Codice penale; il progetto-stralcio vide la luce già nell’ottobre 1956 e fu poi fatto proprio, nonché presentato al Senato della Repubblica (d.d.l. 24 febbraio 1960, n. 1018)[49] dal Guardasigilli Guido Gonella. Circa tre anni dopo, il 10 ottobre 1963, il ministro Giacinto Bosco, avvalendosi per la prima volta di un disegno di legge-delega[50], propose la riforma di tutti i codici: l’ambizioso progetto non arrivò mai a compimento[51]. Un lustro più tardi, il ministro Oronzo Reale presentò un ulteriore disegno di legge[52] che modificava, tra le altre cose, l’istituto dell’estradizione, la quale sarebbe stata concessa solo nell’ipotesi in cui il fatto fosse stato previsto come reato sia nella legislazione italiana sia in quella straniera. Nel novembre 1968 si ebbe il c.d. secondo Progetto Gonella (Atto Senato n. 351 – V Legislatura), il quale si inseriva in un’immaginaria linea di continuità coi progetti precedenti, ma che, allo stesso tempo, si proponeva come “premessa eziologica” alla riforma del 1974 (D.L. 11 aprile 1974, n. 99, convertito in l. 7 giugno 1974, n. 220)[53], la quale vedrà la luce in modo così rapido anche in ragione del fallimento, dovuto all’instabilità politica del momento storico, del progetto antecedente. Il proliferare della legislazione dell’emergenza, poi, bloccò – come si vedrà infra anche per la materia procedurale – qualsiasi tentativo di riforma che era venuto maturando soprattutto nell’ultimo decennio[54], tanto che in dottrina si iniziò a parlare, operando un facile raffronto con il settore civilistico, di processo di decodificazione[55].
 
Per quanto concerne, invece, il Codice di procedura, si segnala come, sempre in data 2 gennaio 1945, fu istituita una commissione per la sua modifica[56]: tale commissione dapprima si orientò verso una riforma organica, successivamente, però, si limitò a proporre una modificazione parziale del codice «nella speranza di poter dare a questo modo più celere soddisfacimento alle istanze di riforma»[57]: il prodotto, del 1949, fu un progetto che sì incideva «su alcuni istituti fondamentali […], non modificava, però, la struttura del codice»[58]. Dagli anni Cinquanta in poi, si susseguirono progetti di riforma, soprattutto sotto l’impulso di Giovanni Leone[59] e del Guardasigilli Adone Zoli[60], i cui due lavori confluirono in un unico progetto, che però non vide la luce[61] a causa della fine della legislatura. Ripresentato nella successiva legislatura[62] – sempre per mano di Leone – fu affiancato nell’esame in sede di commissione da un altro progetto del ministro Michele De Pietro[63]; gli elaborati terminarono, dopo varie vicissitudini politiche, nei decreti presidenziali, promossi dal Guardasigilli, 18 giugno 1955, n. 517 e 25 ottobre 1955, n. 932 (l. 18 giugno 1955, n. 517[64]), modificanti addirittura centoventinove articoli. Le grandi innovazioni apportate da questi due decreti, però, non fecero svanire le richieste di una riforma completa ed organica. Il 14 gennaio 1962 il ministro Gonella istituì all’uopo una commissione[65] che sviluppò una Bozza di Codice di procedura penale (c.d. Progetto Carnelutti, dal nome del presidente della commissione); l’elaborato, per esigenze di speditezza ed organizzazione, fu, però, compilato da un comitato ristretto, il quale lo trasmise, da ultimo, onde acquisire osservazioni e pareri, alla suddetta commissione il 15 febbraio 1963. Sia nel 1965 sia nel 1968 fu presentato un disegno di legge-delega per rimettere all’esecutivo l’emanazione di un nuovo codice di rito: i vari passaggi nelle commissioni e in Parlamento durarono fino al 1974[66], quando venne, infine, promulgata la l. 3 aprile 1974, n. 108[67]. Il ministro Mario Zagari istituì, poi, il 18 ottobre 1974, una commissione ministeriale (presieduta da Gian Domenico Pisapia e Giovanni Conso) che tra il 1977 ed il 1978 partorì un Progetto preliminare di Codice di procedura penale: diffuso e fatto conoscere[68], il testo subì numerose critiche, soprattutto in quanto delineava una diminuzione dei poteri del pubblico ministero e perché propugnava istanze garantiste in aperto contrasto con la legislazione dell’emergenza, con cui, proprio in quel periodo, si tentava di porre rimedio ai gravi episodi criminosi che dilaniavano il Paese; così, nonostante le ripetute proroghe, il termine per l’emanazione del decreto spirò e la delega decadde. Il 31 ottobre 1979 – proprio in coincidenza con lo spirare del termine sancito dall’ultima proroga – il ministro Tommaso Morlino presentò un secondo disegno (era il n. 845)[69] di legge-delega; il testo originario prevedeva come termine per l’esaurirsi della delega il 30 aprile 1981, ma nella Relazione introduttiva, sebbene in maniera velata, si incitava una modifica di alcuni punti della legge-delega. Fu così che il Governo, il 13 febbraio 1980, presentò proposte di modifica a trentanove articoli (su ottantaquattro totali) della legge-delega, mentre il ministro Adolfo Sarti «promosse la stipulazione di una convenzione con L’Università di Firenze, sottoscritta poi il 23 dicembre 1980, per studi e ricerche sul dibattito e sulla produzione normativa relativi all’elaborazione del nuovo codice di procedura penale»[70]. Finita anticipatamente la Legislatura e dunque fallito anche il tentativo del progetto Morlino, la volontà di riforma, tuttavia, non decadde e il nuovo ministro Fermo Mino Martinazzoli ripresentò il medesimo disegno di legge[71] e contemporaneamente insediò una commissione tecnica ristretta, «al fine di proporre quelle ulteriori modifiche ritenute necessarie od opportune per aggiornare il lavoro fino ad allora compiuto»[72]. I lavori parlamentari furono, nuovamente, interrotti dalla fine anticipata della legislatura, ma ripresero immediatamente, non appena venne formato il nuovo Governo. Ottenuta la delega, con l. 16 febbraio 1987, n. 81[73], una Commissione per la redazione del progetto del nuovo testo di codice di procedura penale, con relativa relazione all’uopo istituita, ancora una volta presieduta da Gian Domenico Pisapia, lavorò alacremente e in meno di un anno poté presentare, al ministro Giuliano Vassalli, il progetto preliminare; dopo essere stato diffuso[74] e sottoposto, il 30 gennaio 1988, ad una commissione interparlamentare presieduta da Marcello Gallo, il testo definito, ulteriormente rifinito ancora dalla commissione Pisapia, fu emanato con d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447 ed entrò, finalmente, in vigore il 24 ottobre 1989.
 
5. Le odierne istanze di riforma
 
Probabilmente sotto l’impulso della riforma del codice di rito, con D.M. 8 febbraio 1988, il ministro Vassalli costituì l’ennesima commissione per la riforma del Codice penale (presieduta da Antonio Pagliaro)[75], che il 25 ottobre 1991 presentò uno schema di delega legislativa[76] per l’emanazione del nuovo codice[77]. Dopo aver giaciuto negli archivi del Ministero della giustizia fino al 1993, il guardasigilli Giovanni Conso lo mise, alfine, in circolazione, all’usuale scopo di poter trarre giudizi e pareri sul lavoro svolto[78].
 
Pochi anni dopo, è la volta del d.d.l. 2 agosto 1995, n. 2038 (primo firmatario Roland Riz)[79] che si inserisce nella linea dello schema Pagliaro[80], benché concernente esclusivamente la parte generale.
 
Successivamente[81], il 1 ottobre 1998 fu istituita con decreto ministeriale, dal guardasigilli Giovanni Flick, al medesimo scopo, un’altra commissione (il cui presidente era Carlo Federico Grosso), che presentò, nel luglio 1999, un’articolata Relazione e, in seguito, anche un progetto preliminare di articolato per la parte generale del codice: la prima versione è del 12 settembre 2000, mente la seconda, riveduta e corretta, porta la data del 26 maggio 2001[82].
 
Negli stessi anni, diversi furono anche i tentativi effettuati in sede assembleare di modificare singole norme del Codice penale: fra questi, uno in particolare va segnalato per l’ampiezza e la peculiarità del suo contenuto. Si tratta dell’atto Senato n. 3718 – XIII Legislatura[83], comunicato alla Presidenza in data 18 dicembre 1998, tendente a modificare il Libro primo del Codice penale, letteralmente riproponendo il c.d. Progetto Riz.
 
Ancora un’altra commissione, istituita nel novembre 2001, presieduta da Carlo Nordio e voluta dal ministro Roberto Castelli (D.I. 23 novembre 2001)[84], ha lavorato alla riforma del Codice penale[85], mentre il Progetto Grosso è stato presentato alla Camera dei deputati, come disegno di legge di iniziativa parlamentare nel dicembre 2001.
 
Anche per la materia procedurale, è stata istituita un'ulteriore commissione dal ministro Roberto Castelli, per la riforma dell’ancora giovane codice di procedura penale: presieduta da Andrea Antonio Dalia[86], è stata istituita con D.I. 29 luglio 2004 e prorogata con D.I. 3 gennaio 2005 fino al 30 giugno 2005.
L'avvicendarsi dei governi porta con sè, come si è visto, l'avvicendarsi delle commissioni di studio: così, sotto il nuovo Ministro della Giustizia, Clemente Mastella, sono state istituite, con due separati D.I. 27 luglio 2006, due nuove commissioni: una per la riforma del Codice penale (c.d. Commissione Pisapia)[87] ed una per la riforma del codice di rito penale (c.d. Commissione Riccio)[88]; entrambe devono concludere entro il 31 luglio 2007 i lavori di stesura dello schema della legge delega ed entro il 31 marzo 2008 i lavori di stesura dei testi dei necessari decreti legislativi.
 
dott. Franco Stefanelli
 
19 agosto 2006
 
(riproduzione riservata)

[1] Approvato con l. 20 novembre 1859, n. 3784; «non si tratta[va], per vero, di una «legge» di fonte parlamentare, bensì di un provvedimento del Governo, che rivendica[va], come base della sua forza normativa, la legge 25-4-1859, n. 3345», Chiavario M., Codice di procedura penale, in Dig. disc. pen., vol. II, 1988 Torino, 255.
 
[2] «All’unificazione legislativa, com’è noto, si giunse tra il 1859 ed il 1865 attraverso una serie di tappe ben definite […]», cfr. Ghisalberti C., Unità nazionale e unificazione giuridica in Italia, 1979 Roma-Bari, 309; si trattava, come è stato acutamente osservato, di «un'imposizione manu militari del codice piemontese per sancire, con l'unificazione politica, l'unificazione legislativa e giudiziaria», così Corso P., Codice di procedura penale, in Dig. disc. pen., Aggiornamento II, vol. I, 2005 Torino, 169.
 
[3] R.d. 27 dicembre 1859, n. 78 e l. 20 marzo 1860, n. 4097.
 
[4] L. 20 novembre 1859, n. 3784.
 
[5] Per la precisione: per le Marche, r.d. 31 ottobre 1860, n. 224; per l’Umbria, r.d. 5 novembre 1860, n. 121; per Napoli, d.lgt. 17 febbraio 1861, l. 30 giugno 1861, n. 56, l. 19 gennaio 1862, n. 420, r.d. 6 aprile 1862, n. 530; per la Sicilia, r.d. 17 febbraio 1861, n. 32, l. 19 gennaio 1862, n. 421, r.d. 21 aprile 1862, n. 577; infine, per le province toscane, l. 2 aprile 1865, n. 2215. «Il D’Avossa, che trovavasi allora a capo del Dicastero di giustizia, ottenne l’istituzione di una Commissione di giuristi, che ebbe il mandato di indirizzare il paese alla unificazione legislativa […]. La Commissione […] volse l’attenzione al Codice penale, al Codice di Procedura penale e alla Legge Organica del 1859 […]. Le sue proposte furono accettate col Decreto del Luogotenente per le Province napoletane del 17 febbraio 1861. In tal modo questo Decreto rappresentò un primo momento di fusione legislativa delle condizioni giuridiche napoletane con quelle dell’Italia settentrionale», Pessina E., Il diritto penale in Italia da Cesare Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente (1764-1890), in Enciclopedia del Diritto penale, vol. II, 1906 Milano, 649.
[6] Con r.d. 26 novembre 1865, n. 2598.
 
[7] «Il codice penale sardo del 1859 ebbe come base storica il codice albertino del ’39 del quale fu la revisione», cfr. Rosoni I., Dalle Codificazioni preunitarie al codice Rocco, in Insolera G. – Mazzacuva N. – Pavarini M. – Zanotti M. (a cura di), Introduzione al sistema penale, vol. I, II Ed., 2000 Torino, 16.
 
[8] Specificamente, ai territori del Ducato di Modena e Reggio, del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, delle legazioni dello Stato Pontificio (ossia Emilia, Romagna, Marche e Umbria), della Lombardia e, benché con qualche modificazione ed emenda, del Regno delle Due Sicilie.
 
[9] Ovviamente, l’unificazione legislativa avveniva per tutti codici, sebbene con tempistiche sfasate dovute alle diverse problematiche legislative e politiche peculiari di ciascuna regione, man mano che procedeva l’unificazione politica: a mo’ di esempio si riporta uno stralcio dell’art. 1, l. 26 marzo 1871, n. 129, relativo ai territori veneti (in cui era in vigore, precedentemente, il Codice austriaco del 1852), che così recita: «Sono estesi alle provincie della Venezia e di Mantova, aggregate al regno d’Italia colla legge del 18 luglio 1867, n. 3841:
 
[…]
 
V. Il codice penale, approvato col regio decreto 20 novembre 1859, n. 3783, ed i regi decreti del 26 novembre 1865, n. 2599, e del 30 dicembre 1865, n. 2720;
 
VI. Il codice di procedura penale, approvato con regio decreto del 26 novembre 1865, n, 2598, il regio decreto 28 gennaio 1866, n. 2782, e la legge 28 giugno 1866, n. 3008;
 
[…]
 
X. La presente legge avrà esecuzione a cominciare dal 1 settembre 1871».
 
Molti autori si sono dimostrati critici nei confronti dell’attuazione dell’unificazione legislativa attraverso l’estensione ai territori annessi dei codici piemontesi: uno per tutti Delitala G., Codice di procedura penale, in Enc. dir., vol. VII, 1960 Milano, 284, che, apertis verbis, parla del Codice di procedura penale del 1859 come di quello che «fra i codici degli ex Stati italiani non era certo il migliore»; la critica è ripresa da Nappi A., Codice di procedura penale, in Enc. dir., Aggiornamento I, 1997 Milano; nello stesso senso anche Corso P., Codice di procedura penale, op. cit., 169-170.
 
[10] I due tentativi maggiormente degni di nota di introdurre il codice sabaudo nei territori del Granducato di Toscana furono quello del ministro Vincenzo Miglietti nel 1862 e di Pasquale Stanislao Mancini nel 1864: entrambi, però, si risolsero in un aborto legislativo.

[11] In senso contrario, anche se non completamente, un Autore, il quale ritiene che le ragioni della mancata ricezione in Toscana del Codice sabaudo non si limitino all’eventuale ripristino della pena capitale: «[…] la ragione della sopravvivenza del codice penale del 1853 non può essere ridotta alla sola questione della pena di morte. Il codice toscano era un testo normativo tecnicamente pregevole, sistematicamente ben costruito, moderno nei contenuti; il codice sardo, destinato ad invadere l’Italia con l’unificazione, era invece un testo rozzo, farraginoso, arretrato: quasi un armamentario da acien régime riverniciato alla meglio. La sua estensione alla Toscana avrebbe certo provocato un disorientamento applicativo e uno sconcerto tale, da rendere preferibile il mantenimento del codice granducale, anche a prezzo di una vistosa smagliatura nell’unità legislativa dello Stato.», Padovani T., La tradizione penalistica toscana nel codice Zanardelli, in Vinciguerra S., Diritto penale dell’Ottocento. I codici preunitari e il codice Zanardelli, 1999 Padova.
 
[12] Cfr. Aquarone A., L’unificazione legislativa e i codici del 1865, 1960 Milano, 320.
 
[13] «[…] Fin dal 1862 il Miglietti come Ministro di grazia e giustizia […] presentò un Disegno di legge per un Codice penale comune a tutta la Italia; e vuolsi notare che egli pose a base il Codice penale del 1859 […]. Questa proposta non ebbe corso ulteriore per il momento.», Pessina E., op. cit., 656.
 
[14] Pessina E., op. cit., 656, fa risalire l’istituzione della commissione al 1863.
 
[15] I commissari presentarono, unitamente al lavoro di un’altra commissione che studiò le pene ed il sistema penale in generale, «[…] il risultamento dei loro studi in un Progetto di Codice penale e di Polizia punitiva il 17 maggio 1868 al De Filippo, Ministro Guardasigilli», Pessina E., ivi, 668.
 
[16] D.m. 13 settembre 1869.
 
[17] I due progetti non ebbero fortuna in patria, ma furono presi in gran considerazione dal legislatore germanico e dagli estensori del Codice penale del Canton Ticino del 1873.
 
[18] «Al Vigliani, Ministro guardasigilli, parve opportuno presentare al Senato del Regno il 24 febbraio 1874, un Progetto di Codice penale, giovandosi degli antecedenti lavori, a cui dal 1866 attesero varie Commissioni ministeriali […]. Il Progetto venne diviso in due Libri», Pessina E., ivi, 685. Interessante notare che in occasione della discussione del Progetto Vigliani avanti la Commissione del Senato fu per la prima volta formulata la proposta (c.d. emendamento Pescatore) di un procedimento giurisdizionale per la liberazione condizionale, in contrapposizione a quanto formulato in precedenza dalla Commissione ministeriale per le materie penitenziarie istituita con r.d. 16 febbraio 1862, che delineò solamente la necessità di un previo parere da parte della magistratura; cfr. Corso P., Liberazione condizionale e processo, 1979 Padova, 10 e ss.
 
[19] Il testo divenne, infatti, noto col nome di Progetto Mancini e fu presentato alla Camera dei deputati il 20 novembre 1876.
 
[20] «La Camera dei deputati discusse il Progetto presentato dal Ministro Mancini su Relazione distesa dall’autore di questo scritto, a nome della Commissione parlamentare. E nella Tornata del 7 dicembre 1887 fu votato da essa il Libro primo del Progetto di Codice penale, che, salvo poche modificazioni, confermò nel suo tutto insieme il Progetto del Guardasigilli.
 
In tal guisa di fronte al Progetto Vigliani, approvato dal Senato del Regno, e fondato sulla conservazione della pena di morte si pose il Libro I del Progetto Mancini, approvato dalla Camera dei deputati, col quale recisamente era fermata l’abolizione dell’estremo supplizio.
Per siffatta antitesi la diffinitiva costruzione del Codice penale si trovò per necessità rimandata a tempo migliore.», Pessina E., op. cit., 702.
 
[21] R.d. 30 giugno 1889, n. 6133.
 
[22] Ghisalberti C., La codificazione del diritto in Italia 1865/1942, 1985 Roma-Bari, 172. Era, infatti, un codice di impronta nettamente liberale: e.g., per la materia che qui concerne non ammetteva l’estradizione (neppure dello straniero) per i reati politici; per molti autori, tuttavia, si tratta un codice che nacque «con lo sguardo volto al passato», Vassalli G., Codice penale, in Enc. dir., VII, Milano 1960, 269.
 
[23] Poi prorogata con l. 29 dicembre 1912, n. 1348.
 
[24] Con r.d. 27 febbraio 1913, n. 127.
 
[25] Nel 1910, il Guardasigilli Vittorio Scialoja aveva presentato alla Camera dei deputati un progetto per l’interpretazione autentica di alcuni articoli del Codice penale; in riferimento, invece, al codice di rito, con r.d. 28 marzo 1915 era stata nominata una commissione, presieduta da Ludovico Mortara, incaricata dall’allora guardasigilli Orlando di «[…] proporre le modificazioni da introdursi in quelle disposizioni del vigente codice di procedura penale, le quali nella loro applicazione abbiano dimostrato la necessità di emendamenti» (art. 1); mentre un’altra commissione istituita dal ministro Aldo Oviglio non iniziò neppure i lavori.
 
[26] La commissione fu istituita «[…] con l’incarico di proporre le riforme necessarie nel sistema della legislazione penale per conseguire, in armonia ai principi e metodi razionali della difesa della società contro il delitto in genere, un più efficace e sicuro presidio contro la delinquenza abituale» (art. 1), così recitava il r.d. del 14 settembre 1919, n. 1743. Maggiori dettagli sulle vicende della suddetta commissione in Santoro A., La nomina di una Commissione per la riforma positivista del Codice Penale, in La Scuola Positiva, 1919 Milano, 289 e ss. Maggiori dettagli sulle vicende della suddetta commissione, anche come viste dalla stampa dell’epoca, ivi., 495 e ss. ed ivi., 506 e ss.; inoltre, in Sbriccoli M., La penalistica civile Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in Schiavone A., Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, 1990 Roma-Bari, 227 e ss.
 
[27] È importante sottolineare, con particolare riguardo all’analisi della parte relativa all’esecuzione, che il progetto era latore di una concezione in cui era l’autorità giudiziaria e non il Ministro della Giustizia a rivestire un ruolo centrale.
 
[28] Attuata con r.d. 31 dicembre 1922, n. 1718, in seguito con r.d. 28 giugno 1923, n. 1890 furono date le disposizioni in ordine all’amministrazione delle carceri ed agli agenti di custodia; in proposito, si veda anche la circolare del Ministero degli Interni del 14 gennaio 1923.
 
[29] Un impianto normativo di siffatta portata che «[…] forse soltanto un regime dittatoriale poteva realizzare in tanto breve tempo e con tale simultaneità», Vassalli G., Codice penale, in Enc. dir., op. cit., 272.
 
[30] Ad onor del vero, il progetto preliminare fu preparato da un comitato ristretto, composto solamente da alcuni dei membri della suddetta commissione (e presieduto da Arturo Rocco); la commissione fu, più tardi, ampliata per la redazione definitiva, immettendovi cinque nuovi esponenti.
 
[31] Compiuta personalmente dallo stesso ministro Rocco.
 
[32] L’incarico di redigere il progetto preliminare di codice fu affidato a Manzini il 6 ottobre 1926.
 
[33] Il testo venne reso pubblico il 20 giugno 1929.
 
[34] La pubblicazione è del 31 maggio 1930.
 
[35] «Immediatamente dopo la formazione del governo legale al sud, prese consistenza, sia in ambito governativo che più generalmente politico, una tendenza favorevole a provvedere, insieme con la riforma delle istituzioni costituzionali, anche a quella delle istituzioni giuridiche e, segnatamente, dei codici», Piasenza P., Tecnicismo giuridico e continuità dello stato: il dibattito sulla riforma del codice penale e della legge di pubblica sicurezza, in Politica del diritto, 1979 Bologna, 261.
 
[36] Cfr. Vassalli G., Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali, 1996 Milano, 8.
 
[37] La previsione sarà poi smentita dalla realtà dei fatti: come si avrà modo di leggere infra, infatti, coi decreti legislativi luogotenenziali si inaugurò una stagione di intervento riformatore di stampo novellistico, che durò, per quanto riguarda il codice di rito fino al 1989, mentre dura tuttora per quanto concerne il Codice penale, tanto che Vassalli G. intitolò Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano un suo intervento al Convegno di studi Prospettive di riforma del codice penale e valori costituzionali tenutosi a St. Vincent nel maggio 1994, reperibile in Vassalli G., Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, op. cit.
 
[38] Il testo è riportato in Piasenza P., op. cit., 293-294.
 
[39] Ai membri di questa commissione, presieduta da Giovanni Porzio, fu sottoposto il dilemma di scegliere tra redigere un Codice penale ex novo, pur avendo come modello il Codice Zanardelli (tra i fautori di questa posizione era anche il ministro Tupini), oppure modificare il codice vigente alla luce dei nuovi principi su cui si basava la novella Monarchia (il referendum si sarebbe svolto solo da lì ad un anno); l’opzione scelta fu, ovviamente, la seconda. Il Codice Rocco potette vantare tra i suoi “difensori”, pur con sfumature di posizione degne di nota, giuristi del calibro di Piero Calamandrei, Enrico Casati, Tullio Delogu, Giovanni Leone e Remo Pannain.
 
[40] Risulta opportuno segnalare che, in tale progetto, per quanto riguarda i temi del delitto politico e dell’estradizione, si ebbe un sostanziale ritorno alle disposizioni del Codice Zanardelli, per cui, cfr. infra; nell’ottica di una generale mitigazione delle pene, fu, inoltre, prevista l’abolizione della pena capitale, per cui, cfr. infra.
 
[41] «L’opera fu giudicata bisognosa di maggiori approfondimenti e il ministro guardasigilli Fausto Gullo (succeduto a Togliatti che non si era occupato di questi problemi) autorizzò uno schema di riforma soltanto parziale, sia pure esteso ad alcuni articoli della parte generale», cfr. Vassalli G., Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, op. cit., 8-9.
 
[42] Ibid.
 
[43] Bisogna, però, riconoscere come, soprattutto da parte della dottrina penalistica, almeno fino agli anni Settanta, la lettura della Costituzione repubblicana sia stata alquanto «atomistica e frazionata», come la definisce Bricola F., Il II e III comma dell’art. 25, in Branca G. (a cura di), Commentario della Costituzione, Artt. 24-26 Rapporti civili, 1981 Bologna, 227.
 
[44] Così la considera Pagliaro A., Situazione e progetti preliminari nel procedimento di riforma del diritto penale italiano, in Ind. Pen., 1980, 479.
 
[45] La «[…] parte speciale […] fu presentata nel settembre 1950 al ministro della giustizia Attilio Piccioni (la parte generale era stata presentata al ministro Grassi sin dal luglio 1949)», Vassalli G., Il tormentato cammino della riforma nel cinquantennio repubblicano, in Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, op. cit., 10.
 
[46] Il lavoro è volgarmente noto come progetto Petrocelli-Vannini.
 
[47] «Questo progetto preliminare del primo libro del codice penale rappresenta, non tanto una riforma, quanto una semplice revisione del codice in vigore. […] Ora non si vede un valido motivo per redigere un nuovo codice, se il nuovo codice… è ancora quello vecchio», così scriveva Delitala G., Sul progetto preliminare del primo libro del codice penale, in Riv. it. dir. pen., 1950, 160. Nello stesso senso Pagliaro A., op. cit., 479, il quale diceva «[…] un intero progetto di codice penale (parte generale e parte speciale), nel quale peraltro veniva seguita la falsariga del codice Rocco […]». Un giudizio non così tranchant traspare, invece, da un parere espresso da Leone G., Sulla riforma del libro primo del codice penale, in Riv. it. dir. pen., 1950, 182 e ss.
 
[48] Infatti, riprendendo l’indirizzo proposto dal progetto del 1945, era eliminata la perseguibilità dei delitti commessi all’estero.
 
[49] In particolare, il progetto prevedeva l’abolizione dell’art. 8 cod. pen. (Delitto politico commesso all’estero) e veniva riformato l’istituto dell’estradizione.
 
[50] In precedenza, la prassi aveva visto sempre e soltanto disegni di legge di iniziativa ministeriale; si tratta del d.d.l. 10 ottobre 1963, n. 557 per la riforma dei quattro codici, presentato, alla Camera dei deputati, dal Guardasigilli Bosco.
 
[51] Il successivo governo Moro ritirò il disegno di legge, ma esso rappresenta, in ogni caso, per il codice di rito, «l’inizio del lavoro di codificazione conclusosi nel 1988, perché i pochi principi allora dettati per la riforma del processo penale costituiscono il nucleo originario delle successive elaborazioni», cfr. Nappi A., Codice di procedura penale, in Enc. dir., op. cit., 295.
 
[52] Si trattava del d.d.l. 6 febbraio 1968, n. 4849, il quale si arenò in sede legislativa presso la Commissione giustizia della Camera dei deputati.
 
[53] Come il primo progetto Gonella, anche questo si proponeva di abrogare l’art. 8 cod. pen. e di risistemare l’istituto dell’estradizione, adeguandolo alle più recenti convenzioni internazionali: il progetto ebbe una vita lunga e molto travagliata e diverse furono le modificazioni che si susseguirono nei suoi confronti. Ripresentato il progetto «[…] nella VI legislatura fu esaminato e riapprovato dal Senato (relatore il senatore Giovanni Leone) e quindi trasmesso alla Camera dei deputati. Visto che il disegno aveva avuto l’approvazione di una delle due Camere, il Governo trasformò una parte del disegno di legge nel decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99, convertito poi, con modificazioni, dalla legge 7 giugno 1974, n. 220», cfr. Relazione al disegno di legge atto Senato n. 2038 – XII Legislatura, reperibile all’indirizzo Internet http://www.senato.it/leg/12/BGT/Schede/Ddliter/S2038.htm.
 
[54] È opportuno citare anche il disegno di legge n. 145 presentato al Senato della Repubblica il 14 settembre 1976, riguardante – ancora una volta – la riforma del libro primo del Codice penale, nonché di alcuni articoli della parte speciale (come rammentato nella Relazione al d.d.l. n. 3966 – XIII Legislatura, primo firmatario Cesare Salvi, reperibile sul sito Internet http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/showText?tipodoc=Ddlpres&leg=13&id=00004274&parse=no&toc=no); inutile ripetere che anche questo tentativo fallì.
 
[55] Cfr. Padovani T., La sopravvivenza del Codice Rocco nell’«età della decodificazione», Il Codice Rocco cinquant’anni dopo, in La questione criminale, I, 1981 Bologna, 89 e ss. e Dolcini E., Codice Penale, in Dig. Disc. Pen., II, 1988 Torino, 286.
 
[56] Presieduta da Alfredo Spallanzani, poi da Gaetano Miraulo ed, infine, da Alfredo Jannitti Piromallo.
 
[57] Delitala G., Codice di procedura penale, in Enc. dir., op. cit., 285. V’è da ricordare che l’11 settembre 1945, il nuovo Ministro di grazia e giustizia, Palmiro Togliatti, decise che dapprima la commissione dovesse emendare il codice dalle disposizioni che maggiormente portavano un’impronta fascista, mentre solo successivamente avrebbe dovuto lavorare ad un nuovo codice, sul modello di quello del 1914. Sulla stessa linea di pensiero si collocò Calamandrei, che ebbe modo di scrivere che «[…] era necessario cancellare subito dai codici alcune più ripugnanti sconcezze, che, per ragioni diciamo così di decenza, non si potevano lasciare in vigore un giorno di più dopo la caduta del fascismo: alludo a tutte quelle disposizioni, isolate o facilmente isolabili, che erano state inserite alla superficie dei codici per dare ad essi il colore del regime […] Questo, più che un lavoro di sistematica riforma, doveva essere un lavoro di prima disinfezione: ritocchi episodici operati d’urgenza qua e là, dove più imperiosa si manifestasse l’esigenza politica, non meditata e razionale rielaborazione di tutto il piano legislativo. […] Il fascismo, come non ha potuto durante il suo ventennio impedire agli alberi di continuare a metter foglie ad ogni primavera, così non ha potuto impedire al pensiero scientifico di continuare a difendere, con fedele sotterranea ostinazione, la continuità tra il passato e l’avvenire. Ciò è avvenuto anche nel campo della scienza giuridica; la quale, nel preparare i codici poi entrati in vigore coll’emblema fascista, ha suggerito soluzioni di problemi tecnici che sarebbero state adottate identiche anche se non ci fosse stato il fascismo, semplicemente perché a quelle conclusioni portava il progresso degli studi e l’evoluzione storica della vita sociale. […] Ma per fare la grande riforma bisogna ancora aspettare: aspettare che l’Italia sia liberata, che l’Italia abbia un governo stabile, che l’Italia abbia una costituzione […]», Calamandrei P., Sulla riforma dei codici, in La nuova Europa, anno II, n. 9, 4 marzo 1945, 10. L’articolo continua nel numero successivo: «[…] L’Italia oggi si trova in una specie di limbo costituzionale […]. Come è possibile, in tale situazione, pensare sul serio alla riforma dei codici? […] Le riforme legislative, specialmente quelle fondamentali e radicali come dovrebb’essere la riforma dei Codici, non si mettono all’ordine del giorno all’improvviso, per un capriccio del legislatore. […] I nuovi codici italiani, quando potremo averli, dovranno essere il frutto di una profonda trasformazione della vita sociale: a questa bisogna pensare, prima di pensare ai codici, i quali sono soltanto la forma conclusiva di una sostanza storica che non si improvvisa, e la cui elaborazione è compito non dei giuristi, ma dei politici: ossia del popolo», Calamandrei P., Sulla riforma dei codici, in La nuova Europa, anno II, n. 10, 11 marzo 1945. Nel prosieguo dell’articolo, poi, l’Autore si dichiara contrario alla restaurazione dei precedenti codici, sebbene in misura diversa: assai sfavorevole alla reintroduzione del codice di procedura civile, un po’ più attenuato è invece il suo giudizio nei confronti del ritorno al codice di procedura penale, che viene esaltato per le sue doti liberali. Le conclusioni cui giunge sono nel senso di attendere un momento meno burrascoso, auspicabilmente coincidente con quello di una già definita Costituzione, per poter dare inizio al lavoro di ricodificazione.
 
[58] Pisapia G.D., Codice di procedura penale (riforma del), in Enciclopedia Giuridica Treccani, VI, 1988 Roma, 4.
 
[59] Il disegno di legge (n. 2588), annunciato alla Camera dei deputati il 13 marzo 1952, «riproduceva, pressoché integralmente, il progetto di riforma redatto dalla commissione nominata nel ’45», Delitala G., Codice di procedura penale, in Enc. dir, op. cit., 286.
 
[60] La presentazione alla Camera dei deputati del suo progetto-stralcio (n. 3008) è del 13 novembre 1952.
 
[61] Fu approvato, con pochi emendamenti, nella seduta del 25 marzo 1953, dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati in sede legislativa.
 
[62] La proposta di legge (n. 30) recante Modificazioni al Codice di procedura penale fu annunciata il 25 luglio 1953.
 
[63] D.d.l. 3 agosto 1945, n. 1121.
 
[64] Decreti di attuazione furono: d.p.r. 8 agosto 1955, n. 666 e d.p.r. 25 ottobre 1955, n. 932. La tecnica novellistica produsse – nel medesimo periodo – anche la l. 21 marzo 1958, n. 229 e la l. 25 maggio 1960, n. 504.
 
[65] La commissione si insediò il 3 febbraio 1962.
 
[66] Il d.d.l. 10 ottobre 1963, n. 557 per la riforma dei quattro codici (per cui, cfr. supra nota 33) fu ritirato dal successivo governo Moro, il quale riteneva più praticabile la via di una distinta delega per ciascun codice da riscrivere; il 6 aprile 1965 il ministro Reale presentò un disegno di legge (n. 2243) che si rifaceva ai principi del progetto Bosco: tale progetto, il cui esame fu terminato dalla Commissione giustizia della Camera dei deputati il 14 dicembre 1966, decadde a causa della fine della legislatura. In seguito il ministro Gonella riprese, modificandolo in maniera lieve, il progetto approvato e lo ripresentò alla Camera dei deputati il 5 settembre 1968 (d.d.l. n. 380): iniziato il ping-pong tra i due rami del Parlamento, non fu approvato a causa della fine anticipata della legislatura. Ripreso, ancora una volta, dal ministro Gonella (d.d.l. 5 ottobre 1972, n. 864), una volta che pervenne all’esame del Senato della Repubblica, assorbì anche il d.d.l. 19 luglio 1972, n. 199 presentato da Michele Zuccalà: questo disegno di legge riproponeva il testo decaduto alla fine della precedente legislatura, con l’evidente scopo – il medesimo che animava l’iniziativa ministeriale – di non lasciar andar perduto il lavoro svolto nella precedente legislatura), e fu definitivamente approvato dal Senato della Repubblica il nelle sedute del 27 e 28 marzo 1974.
 
[67] Ottimisticamente l’art. 1 della legge prevedeva che il codice venisse emanato «entro due anni dalla data di entrata in vigore» della legge stessa: questa illusione era comune a tutti i disegni di legge delega, fin dal c.d. progetto Reale. Il termine finale venne procrastinato prima con l. 5 maggio 1976, n. 199, poi con l. 23 maggio 1977, n. 239, infine, con l. 1 agosto 1978, n. 438, che definì come termine ultimo il 31 ottobre 1979.
 
[68] Il testo fu sottoposto ad una Commissione consultiva interparlamentare, ad Università, all’Ordine forense ed alla Magistratura.
 
[69] È d’uopo dare testimonianza anche del tentativo che Giacinto Pannella ed altri diciassette senatori fecero, il 20 giugno 1979, di ripresentare, come propria proposta di legge (d.d.l. 112), il Progetto preliminare di cui supra, con lo scopo che l’istanza riformatrice non finisse obliata ancora una volta.
 
[70] Nappi A., Codice di procedura penale, in Enc. dir., cit., 296. Nell’estate del 1982, terminarono e i lavori del comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei deputati e le ricerche dell’Università di Firenze.
 
[71] Furono presentati, alla Camera dei deputati, un disegno di legge del ministro Martinazzoli (atto n. 691, presentato il 21 ottobre 1983) e tre proposte di legge di iniziativa parlamentare a nome Carlo Casini (atto n. 196, presentato il 19 luglio 1983), Ugo Spagnoli (atto n. 271, presentato il 4 agosto 1983) e Luigi Dino Felisetti (atto n. 457, presentato il 15 settembre 1983) che sostanzialmente recepivano il testo approvato dalla Commissione Giustizia della Camera della precedente legislatura e che confluirono nel disegno di legge di iniziativa ministeriale.
 
[72] Pisapia G.D., Codice di procedura penale (riforma del), in Enciclopedia Giuridica Treccani, op. cit., 7.
 
[73] L’allora Ministro di grazia e giustizia era Virginio Rognoni.
 
[74] Il testo fu inviato al C.S.M., alle più alte cariche della Magistratura, alle associazioni forensi e al mondo universitario.
 
[75] Il progetto, noto come progetto Pagliaro, «oltre ad una maggiore apertura nei confronti del diritto internazionale, […] tende a restituire un centro di gravità al diritto penale: a tale scopo, per contrastare il processo di decodificazione, da tempo segnalato, si inseriscono nel testo alcune materie attualmente regolate al di fuori del codice penale», Militello V. – Orlandi R. (a cura di), Guida al sistema penale degli anni Novanta Normativa, Giurisprudenza, Dottrina, 1998 Padova, 77.
 
[76] La bozza di articolato della commissione Pagliaro è disponibile sul sito Internet del Ministero della Giustizia all’indirizzo http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/art_pagliaro.htm.
 
[77] Per un giudizio critico sulla sfasatura cronologica di redazione dei due codici, cfr. Padovani T., Il nuovo codice di procedura penale e la riforma del codice penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1989, 916 il quale ritiene che «[…] in linea di principio, il codice di rito non sia, e non possa essere, una sorta di «tecnica» d’attuazione del diritto penale, neutra rispetto alle scelte politico-criminali che in questo si esprimono, secondo l’idea della mera «strumentalità» del processo penale, per lungo tempo coltivata da una dottrina pensostanzialistica che oggi può essere senza dubbio considerarsi [sic] morta e sepolta». L’Autore continua asserendo, poi, che «diritto penale sostanziale e processo penale rappresentano i due poli essenziali di un unico sistema, entro il quale, se di «strumentalità» si deve ancora parlare, occorre precisare che si tratta di una strumentalità ad un tempo reciproca e complessa», cfr. ivi, 917. Sulla stessa linea di pensiero è, indubbiamente, l’affermazione secondo cui «È convinzione diffusa che i contenuti di un codice di procedura penale – di solito, più di quelli della media delle altre componenti dell’insieme normativo operante nell’ambito di un determinato ordinamento giuridico – siano in grado di «segnare», talora con poche o nulle possibilità di smentite, la globale Weltanschauung cui l’ordinamento è ispirato», cfr. Chiavario M., Codice di procedura penale, op. cit., 252.
 
[78] Per una compiuta rassegna bibliografica dei lavori riguardanti il progetto Pagliaro, cfr. Militello F., Il diritto penale nel tempo della «ricodificazione», in Riv. it. dir. proc. pen., 1995, 774-783.
 
[79] «Il 21 dicembre 1994, la Commissione Giustizia del Senato della Repubblica deliberò di costituire al proprio interno un «Comitato per la riforma del codice penale», al fine di predisporre un disegno di legge organico che desse alla luce un nuovo codice penale. Nelle intenzioni dei parlamentari, il nuovo codice penale dovrebbe essere composto di tre libri […]. Tuttavia, si preferì presentare, il 2 agosto 1995, i risultati del lavoro svolto in relazione alla parte generale, e dunque solo al libro primo, sia per offrirlo al dibattito, sia per scongiurare il pericolo che la fine anticipata della XII Legislatura, poi effettivamente intervenuta impedisse di presentare almeno la parte del disegno già predisposta», Militello V. – Orlandi R. (a cura di), op. cit., 79-80.
 
[80] Il progetto Pagliaro ed i commenti da esso generati costituiscono «l’ossatura-base sulla quale si potrà instaurare il dialogo parlamentare», così Riz R., Per un nuovo codice penale: problemi e itinerari, in Ind. Pen., 1995, 4.
 
[81] Anche se non si tratta di un progetto di riforma, è d’uopo far menzione del fatto che, in seno alla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, istituita con l.cost. 24 gennaio 1997, n. 1, fu approvato l’art. 129 del progetto di legge costituzionale (Principio di offensività. Divieto di interpretazione analogica o estensiva in materia penale. Riserva di codice), il cui testo, pur nella vagueness del linguaggio tipico di ogni testo costituzionale, indica abbastanza chiaramente la direzione verso la quale un’eventuale riforma del codice penale dovrebbe puntare. Così recitava l’articolo 129: «Le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale.
 
Non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui esso non abbia determinato una concreta offensività.
 
Le norme penali non possono essere interpretate in modo analogico o estensivo.
 
Nuove norme penali sono ammesse solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono». Per un’approfondita disamina dell’articolo, cfr. Cadoppi A. – Colombo G. – Mazzacuva N. – Pagliaro A. – Spangher G., Artt. 129-133 e relativa relazione on. Marco Boato, in Le prospettive penalistiche della bicamerale, in Ind. Pen., 1998, 305 e ss.
 
[82] La Relazione della Commissione Grosso è disponibile sul sito Internet del Ministero della Giustizia all’indirizzo http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/riforma_cp.htm; la versione dell’articolato del settembre 2000 è disponibile all’indirizzo http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm_grosso2_art.htm, mentre si può trovare la versione del maggio 2001 all’indirizzo http://www.giustizia.it/studierapporti/riformacp/comm-grosso3-art.htm.
 
[83] Primo firmatario era Michele Pinto.
 
[84] Maggiori informazioni sulla Commissione Nordio sono disponibili sul sito Internet del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.giustizia.it/commissioni_studio/commissioni/comm_nordio.htm.
 
[85] L’ultima proroga è quella effettuata con D.I. 3 gennaio 2005; in precedenza si è intervenuti per procrastinare il termine dei lavori con D.I. 1 luglio 2002, D.I. 2 gennaio 2003 e D.I. 1 luglio 2003.
 
[86] Maggiori informazioni sulla Commissione Dalia sono disponibili sul sito Internet del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.giustizia.it/commissioni_studio/commissioni/comm_dalia.xhtm.htm.
 
[87] Maggiori informazioni sulla Commissione Pisapia sono disponibili sul sito Internet del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.giustizia.it/commissioni_studio/decreti/xvleg/pisapia_istituzione.htm.
 
[88] Maggiori informazioni sulla Commissione Riccio sono disponibili sul sito Internet del Ministero della giustizia all’indirizzo: http://www.giustizia.it/commissioni_studio/decreti/xvleg/riccio_istituzione.htm.
 
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