IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALEComposta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIZZUTI Giuseppe - Presidente
Dott. FERRUA Giuliana - Consigliere
Dott. DI TOMASSI Maria Stefania - Consigliere
Dott. FUMO Maurizio - Consigliere
Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere
ha pronunciato la segeunte
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
difensore della parte civile N.G., nata il
(OMISSIS);
avverso la sentenza pronunciata il 22.11.2004 dalla Corte d'Appello
di Palermo, nei confronti degli imputati:
C.C.L., nato il (OMISSIS);
D.G., nato il (OMISSIS);
R.A., nato il (OMISSIS);
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Di Tomassi M.
Stefania;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. Monetti Vito che ha concluso chiedendo l'annullamento
della sentenza impugnata con rinvio al Giudice civile competente;
Rigetto nel resto.
Udito per la parte civile ricorrente l'avvocato Angelozzi Antonio,
che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d'Appello, in riforma della
sentenza di primo grado che aveva condannato C.C.
L., D.G. e R.A. per diffamazione a
mezzo stampa e omesso controllo (il R.) ai danni di N.
M.G. in relazione ad alcuni articoli apparso il 16, il
19 e il 25 ottobre, nonche' il 28.11.1997 sul quotidiano Gazzetta di
Sicilia, aveva assolto i predetti imputati dal reato loro ascritto
perche' il fatto non costituisce reato.
1.1. In particolare, i fatti contestati agli imputati consistevano:
C.; (artt. 81 e 595 c.p., capo A) nell'avere redatto:
- il 16.10.1997 un articolo ("Lampedusa, giu' le mani dalla riserva")
nel quale riferendosi alla N. si diceva "Sopratutto lei, la
bionda, la cinica, la spietata, quella che si prende il lusso di dire
ad alcuni - Ti caccero' via dall'isola - oppure, rivolgendosi ad un
bambino di 15 anni - Tu da casa non ci passi"; "la bottega del papa'
N. viene presa di mira dai fantasmi. Un giorno vengono
trovati fili della corrente elettrica...bruciacchiati. Si grida
all'attentato si grida alla mafia, si grida alle intimidazioni. C'e'
una relazione dei vigili del fuoco che parla chiaro: non esiste il
dolo". "La bionda direttrice deve accontentarsi di un diploma di
scuola media superiore, che lei accompagna sempre da un "non sono
laureata per una manciata di materie". E perche' non studiava? Ma
puo' una diplomata di scuola superiore dirigere un ente gestore?
Forse"; " C.S....: Eravamo come fratelli ... oggi ci
odiamo a morte, chissa' perche'". "La N., per i suoi modi di
fare ed agire e' la nemica di tutti";
- il 19.10.1997 un articolo ( "L'abbraccio con il Vescovo..."), nel
quale si diceva "Eccellenza non si fidi tanto di Legambiente e
soprattutto di A.. Loro hanno interessi politici e, forse,
anche personali (vedi N. all'isola dei Conigli ...)";
D.; (art. 595 c.p. capo B) nell'avere redatto:
- il 25.10.1997 un articolo ("Siamo Verdi mica fessi") nel quale si
diceva "La riserva di Lampedusa e' diretta dalla pidiessina N.
G., gia' vice dell'isola che oggi, per far parlare di se', si
deve inventare (con la complicita' dei soliti noti) attentati
dinamitardi a destra e a manca. Pero' tra un esposto e l'altro, la
N. non ha trovato il tempo per conseguire questa laurea tanto
sognata che si renderebbe necessaria per potere ricoprire l'incarico
di direttore della riserva";
R.; (artt. 81, 595 e 596 bis c.p. capo D, L. n. 47 del 1948,
artt. 13 e 21) nell'avere quale direttore responsabile omesso il
controllo in relazione alla pubblicazione degli articoli ai capi A) e
B);
- nonche' sull'articolo dal titolo "C'e' la regia occulta di
N.G., alchimista per natura - Si tenta di affossare
M.", pubblicato sul giornale "Gazzetta di Sicilia" il
28.11.1997.
1.2. Il Tribunale aveva ritenuto lesivi della reputazione della
N. detti articoli:
- quanto al primo, con riferimento alle espressioni "spietata e
cinica"; e alla parte in cui si ventilava il sospetto che avesse
"inventato" attentati;
- quanto al secondo, in relazione all'adombrata esistenza di
interessi personali della N. nell'isola dei Conigli;
- quanto al terzo, perche' anche in esso si insinuava il sospetto
circa l'invenzione di minacce o attentati; e si sosteneva
l'inadeguatezza professionale della N. per la carica
rivestita.
Rilevava in particolare il Tribunale che contrariamente a quanto gli
articoli facevano intendere, risultava dimostrato che un incendio
s'era realmente sviluppato nell'officina del padre della persona
offesa, che i Vigili intervenuti non avevano potuto accertarne la
causa, ma non avevano mai escluso l'ipotesi dolosa. Ne' poteva
ritenersi la verita' putativa perche' gli stessi imputati avevano
dichiarato d'avere riferito una "voce comune in tutta l'isola". Non
era affatto esatto quanto riportato tra virgolette come detto da
C. (dichiarazioni dello stesso, non smentite dalla giornalista
Minuta era presente all'intervista). Non corrispondeva al vero che
per ricoprire l'incarico di direttore di una riserva naturale
occorresse la laurea (teste vice direttore generale Legambiente).
Nessuna prova era stata offerta che la N. avesse interessi
personali nell'isola di Lampedusa.
Quanto alle altre espressioni contestate esse costituivano poi,
secondo il Tribunale, non una critica serena obiettiva e misurata,
piuttosto un ingiustificato, sia sul piano umano che professionale,
attacco personale alla N..
Veniva esclusa ogni responsabilita' del R., invece, in
relazione all'articolo pubblicato il 28.11.1997.
2. Investita dell'impugnazione degli imputati la Corte d'Appello
riteneva che gli articoli incriminati fossero scriminati
dall'esercizio del diritto di critica, assolvendo gli imputati
"perche' il fatto non costituisce reato", in particolare perche':
- la non accertata causa dell'incendio rendeva prive di fondamento le
affermazioni della N. sulla natura dolosa dell'incendio
stesso; i racconti di tali vicende si risolvevano percio' in una
critica corretta ed appropriata, seppure pungente;
- quanto alla mai conseguita laurea, il dato rilevante non era che
non occorresse la laurea per ricoprire l'incarico di direttore della
riserva, ma che gli imputati esprimevano la loro personale opinione
sull'opportunita' di tale titolo di studio;
- le frasi riferite al C. non avevano alcuna intrinseca valenza
diffamatoria;
- neppure aveva valenza diffamatoria avere invitato un quindicenne a
non passare davanti alla sua abitazione;
- rientrava senz'altro nel diritto di critica l'affermazione che la
N. aveva interessi politici e "forse" anche personali
nell'isola dei conigli.
4. Ha proposto ricorso, ex art. 577 c.p.p., la persona offesa
costituita parte civile.
La sentenza sarebbe viziata da violazione di legge e da mancanza e
manifesta illogicita' della motivazione.
In particolare era emerso dall'istruttoria dibattimentale (esame dei
Carabinieri e acquisizione dei rapporti dell'indagine) che la
N. aveva subito attentati da ricollegare alla sua attivita'.
Nessun riscontro avrebbe dunque l'affermazione che l'ipotesi che in
proposito le denunce della N. fossero inventate costituiva
mera critica. Del tutto immotivatamente la sentenza impugnata avrebbe
inoltre assolto gli imputati con riferimento alle frasi "lei, la
bionda, la cinica, la spietata, quella che si prende il lusso di dire
ad alcuni ti caccero' via dall'isola", oppure ad un bambino di 15
anni "tu da casa mia non ci passi", ed ancora con riferimento a
quanto messo in bocca al C. "La N. per i suoi modi di
fare e' nemica di tutti", oltreche' all'affermazione che "la
N. non ha trovato il tempo per studiare per conseguire questa
laurea che si renderebbe necessaria per ricoprire l'incarico ...".
5. In udienza il difensore della ricorrente ha espressamente
dichiarato di rinunciare alla facolta' di depositare motivi aggiunti
accordata dalla L. n. 46 del 2006, art. 10, comma 5, della legge n.
46 del 2006, chiedendo la trattazione del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Occorre premettere, in relazione al capo D, che al R.
risulta contestato (evocandosi gli artt. 81, 595 e 596 bis c.p., e L.
n. 47 del 1948, artt. 13 e 21) di avere, quale direttore responsabile
"omesso il controllo in relazione alla pubblicazione degli articoli
ai capi A) e B)". Non v'e' dubbio, percio', che a lui risulta
addebitata solo la violazione prevista dall'art. 57 c.p., cui l'art.
596 bis comunque rinvia. Il ricorso e' stato tuttavia formalmente
proposto ai sensi dell'art. 577 c.p.p. - abrogato dalla L. 20
febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo, art. 9, comma 1, - nei
confronti di tutti gli imputati, e cioe' sia dei giornalisti
C. e D., imputati di diffamazione, sia del direttore
responsabile R., imputato di omesso controllo.
2. Orbene, in relazione alla posizione del R., direttore
responsabile - imputato, come s'e' detto, esclusivamente del reato
d'omesso controllo - deve ricordarsi che, secondo la giurisprudenza
oramai consolidata di questa Corte, l'art. 577 c.p.p., il quale
riconosceva alla persona offesa costituita parte civile il diritto di
impugnare anche agli effetti penali le sentenze di condanna o di
proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione, "non e'
suscettibile di interpretazione estensiva o analogica, sicche' non e'
ammissibile, sulla sua scorta, l'impugnazione delle sentenze aventi
ad oggetto il reato di cui agli art. 57 c.p., che integra una
fattispecie autonoma rispetto alla semplice diffamazione". (Cass.,
sez. 5, 29/1/1996, Scalari; sez. 5, 2/7/1997, Carnevale; sez. 5, n.
3477, 08/02/2000, Beha; sez. 5, n. 8692, 13/02/2002, Maggi; sez. 1,
n. 36283, 03/06/2004, Migali; sez. 5, n. 37430, 23/06/2004,
Scalfari). L'art. 577 c.p.p. istituiva difatti un'eccezione al
principio generale posto dall'art. 576 c.p.p., che alla parte civile
riconosce il diritto di impugnare le sentenze di condanna o di
proscioglimento solo agli effetti civili. Sicche', ai sensi dell'art.
14 delle preleggi, doveva comunque escludersi la possibilita' di una
sua applicazione analogica al delitto previsto dall'art. 57 c.p., che
prevede un'ipotesi criminosa del tutto autonoma rispetto a quelle di
ingiuria e di diffamazione.
Ne consegue che nei confronti del R. il ricorso deve
intendersi validamente proposto, sin dall'origine, ai soli effetti
civili.
3. Con riferimento alla posizione dei giornalisti imputati di
diffamazione, nei cui confronti il ricorso agli effetti penali
risulta validamente proposto, deve invece valutarsi l'incidenza della
sopravvenuta abrogazione dell'art. 577 c.p.p. per effetto della
menzionata L. n. 46 del 2006, art. 9, in relazione alle specifiche
disposizioni transitorie dettate dall'art. 10 della medesima legge.
A tale proposito osserva innanzitutto il Collegio che, riguardando la
disciplina a regime la materia processuale penale, nessuna norma
della disciplina transitoria puo' essere interpretata in un senso
diverso da quello di una (parziale) anticipazione dell'operativita'
di siffatta disciplina, in deroga al canone tempus regit actum.
Secondo regole generali, logiche prima che giuridiche, e' inoltre
ovvio che il contenuto e la portata derogatoria delle singole
disposizioni transitorie non possono essere letti se non alla luce di
quelle che, in loro assenza, sarebbero state le regole ordinarie di
diritto intertemporale applicabili. E poiche' il principio tempus
regit actum dovrebbe comportare, salvo deroghe, che la nuova
disciplina puo' essere applicata alle sole impugnazioni depositate a
partire dalla data di entrata in vigore della legge, deve affermarsi
che, ove non e' diversamente statuito, la parte dovra' o potra'
ritenersi legittimata a conformare l'atto d'impugnazione al nuovo
assetto normativo solamente se al momento dell'entrata in vigore
della legge pendono ancora i termini per impugnare.
Non puo' inficiare tale conclusione l'obiezione che in tal modo si
creerebbe una disparita' di trattamento tra imputati, a seconda
dell'epoca in cui sono scaduti i termini per impugnare, poiche' ogni
modifica normativa, salvo che il legislatore preveda disposizioni
transitorie, determina una simile differenza di fatto tra il prima e
il poi.
Certamente il principio tempus regit actum non puo' essere
interpretato nel senso che, nell'ipotesi di successione nel tempo di
norme processuali, debba comunque essere applicata la norma
processuale "vigente al momento della decisione", e dunque nel senso
che i ricorsi o in genere le impugnazioni pendenti al momento
dell'entrata in vigore della nuova legge debbano essere decisi
secondo le nuove norme, conferendo a tali nuove norme la capacita' di
mutare, ex se, in ammissibili le impugnazioni che non lo erano al
momento in cui sono state proposte (ricorsi per Cassazione proposti
secondo la nuova previsione dell'art. 606 c.p.p.; impugnazioni della
persona offesa - parte civile avverso sentenze di non luogo a
procedere; impugnazioni della parte civile per ipotesi diverse da
quelle in cui era ammesso l'appello del Pubblico Ministero) ovvero
inammissibili le impugnazioni ritualmente proposte secondo le norme
dell'epoca (appello del Pubblico Ministero avverso sentenze di
proscioglimento; e, come nel caso in esame, impugnazioni agli effetti
penali della persona offesa costituita parte civile). Siffatto, non
condivisibile, "presupposto interpretativo", non troverebbe difatti
riscontro in alcuna fonte normativa, non corrisponde alle indicazioni
della migliore giurisprudenza di legittimita' ed e' in contrasto con
il significato tradizionalmente assegnato al principio "tempus regit
actum", che altro non esprime se non, sinteticamente, il modo
d'operare del principio dell'irretroattivita' delle leggi.
Va ribadito invece che il canone tempus regit actum altro non vuoi
dire se non che "la validita' degli atti e' e rimane regolata dalla
legge vigente al momento della loro formazione e percio', lungi
dall'escludere, postula al contrario che a tale legge gli operatori
giuridici debbano fare riferimento quando siano da valutare atti
anteriormente compiti" (Corte cost., sentenza n. 49 del 1970, est. V.
Crisafulli).
La regola e' codificata nell'art. 11, primo comma, delle
preleggi, il quale, (secondo autorevole dottrina) "sancisce un
principio che va ben oltre le situazioni cd. esaurite, perche'
abbraccia insieme a queste anche le situazioni che il diritto
anteriore non considera esaurite, ma in corso", dal momento, che
(come e' stato pure autorevolmente chiarito) "gli effetti giuridici,
in quanto siano fonti di diritti soggettivi individuali e di poteri
giuridici processuali, importano che anche questi siano regolati
dalla legge del tempo dell'atto che li ha prodotti". E' dunque
evidente che le conseguenze d'un fatto passato debbono essere
regolate dalla legge vigente al tempo del fatto che ne e' causa, non
potendo venire regolate dalla legge nuova salvo a conferire a questa
carattere, piu' o meno ampio, di retroattivita'.
Le citazioni traibili, in tal senso, dalla giurisprudenza
costituzionale e ordinaria, nonche' dalla dottrina, potrebbero essere
innumerevoli. Quanto alla prima bastera' dunque richiamare, oltre
alla gia' segnalata sentenza n. 49 del 1970, le sentenze n. 155 del
1990 ("...L'irretroattivita'...rappresenta pur sempre una regola
essenziale del sistema a cui, salva un'effettiva causa
giustificatrice il legislatore deve ragionevolmente attenersi, in
quanto la certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio
cardine della civile convivenza e della tranquillita' dei
cittadini"), n. 176 del 1981, n. 126 del 1996.
Quanto alla seconda, su temi analoghi a quelli in esame, e'
sufficiente ricordare, tra veramente molte. Sez. 4, Sent. n. 25303
del 01/04/2004 (secondo cui, in tema di successione di leggi
processuali riguardanti le impugnazioni, in tutti quei casi in cui,
al momento della proposizione dell'impugnazione, era consentito
soltanto il ricorso per Cassazione, non trova applicazione, in base
al principio "tempus regit actum", la nuova legge: il caso concerneva
la modifica dell'art. 593 c.p.p., comma 3, recato dalla L. 26 marzo
2001 n. 128); Sez. 6, Sentenza n. 39946 del 30/10/2001 (secondo cui
e' inammissibile il ricorso straordinario proposto per la correzione
di un errore di fatto contenuto in una sentenza depositata prima
della data di entrata in vigore dell'art. 625 bis cod. proc. pen.,
introdotto dalla L. 26 marzo 2001, n. 128, in quanto la nuova
disciplina non prevedeva disposizioni transitorie derogative del
principio tempus regit actum che governa la materia processuale);
Sez. 5, Ordinanza n. 2883 del 17/05/2000 (secondo cui la nuova
disciplina dell'art. 593 c.p.p. introdotta dalla L. 24 novembre 1999,
n. 468, art. 18, stabilente la inappellabilita' delle sentenze di
condanna a sola pena pecuniaria trovava applicazione esclusivamente
alle ipotesi nelle quali i termini per la proposizione dell'appello
non erano ancora decorsi); Cass. pen. sez. U. sent. n. 3 del 27 marzo
1996 (secondo cui nel procedimento di riesame di misura cautelare
conclusosi prima dell'entrata in vigore della L. n. 332 del 1995,
art. 16, che ha trasformato in perentorio il termine ordinatorio
dell'art. 309 c.p.p., comma 5, in forza del principio tempus regit
actum e' applicabile la disciplina anteriore a tale legge); Cass.
pen. sez. 4, sent. 1285 del 23/02/2000, Montesano (secondo cui, in
tema di equo indennizzo per l'ingiusta detenzione, la nuova
disposizione di cui alla L. 16 dicembre 1999, n. 479, art. 15, comma
1, che ha stabilito per l'ammissibilita' della domanda il piu' lungo
termine di due anni, non si applica nelle ipotesi in cui al momento
dell'entrata in vigore della legge citata si era gia' verificata la
decadenza, prevista dall'originario art. 315 c.p.p., comma 1, in
diciotto mesi dal passaggio in giudicato della sentenza o degli altri
eventi nella disposizione contemplati.).
Ne' puo' ritenersi che siffatto orientamento giurisprudenziale sia
posto in crisi da due autorevoli pronunce emesse qualche anno fa
dalle Sezioni unite, peraltro non piu' ribadite e concernenti lo
specifico e affatto particolare problema della successione nel tempo
di norme che dettavano regole diverse sia di
esclusione/utilizzazione, sia di utilizzabilita' e valutazione delle
prove.
Sicche', con riferimento al tema trattato, deve concludersi che
l'applicazione immediata della nuova legge agli effetti, successivi
alla sua emanazione, di un atto compiuto precedentemente, incidendo
sul fatto generatore in guisa da renderlo ex posi inammissibile,
costituirebbe retroattivita', da escludersi ove non espressamente
prevista (o comunque sicuramente voluta) dal legislatore.
Cio' detto in linea generale, nessuna eccezione applicabile al caso
in esame puo' desumersi dalla disciplina transitoria recata dalla L.
n. 46 del 2006, art. 10.
Il comma 1 si limita ad affermare la regola generale della immediata
operativita' della legge, dalla data della sua entrata in vigore, ai
procedimenti in corso. Non puo' dunque farsi discendere da esso
alcuna deroga al principio tempus regit actum.
Deroga invece al principio del tempus il comma 2, che disciplina i
casi in cui siano scaduti i termini per impugnare prevedendo che
l'appello del pubblico ministero o dell'imputato contro una sentenza
di proscioglimento gia' proposto deve essere dichiarato inammissibile
con ordinanza inoppugnabile. Senza scendere nel dettaglio e'
sufficiente osservare, in relazione al tema che interessa, come la
previsione sia espressamente limitata alle impugnazioni del pubblico
ministero e dell'imputato e come la portata derogatoria della
disposizione e' circoscritta all'"appello proposto", sicche' essa non
puo' sicuramente trovare applicazione allorquando sull'appello sia
intervenuta la decisione finale (quando cioe' ogni effetto
dell'impugnazione sia completamente esaurito e la fase del giudizio
d'appello risulti conclusa). Del carattere affatto particolare e
specifico di tale disposizione offre peraltro conferma il comma 4, il
quale istituisce un'ulteriore, e ancora piu' particolare deroga, nel
senso che l'inammissibilita' dell'appello, sempre e solo dei medesimi
soggetti (il riferimento e' infatti alla disposizione del comma 2),
va dichiarata anche nel caso in cui (dalla Cassazione) "sia
annullata, su punti diversi dalla pena o dalla misura di sicurezza,
una sentenza di condanna di una Corte di assise di appello o di una
Corte di appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione".
Sicche' la disposizione non e' applicabile se la sentenza di condanna
di secondo grado e' stata pronunciata dal Tribunale in relazione ad
una sentenza d'assoluzione del Giudice di pace; se la sentenza di
condanna di secondo grado e' stata pronunciata in relazione ad una
sentenza di proscioglimento che non sia "assolutoria" (perdono
giudiziale; estinzione del reato; mancanza di una condizione di
procedibilita'; condotte riparazione; particolare tenuita' del fatto
- che a differenza dell'irrilevanza del fatto costituisce condizione
di procedibilita' -: evidente e' difatti la diversita' di
formulazione tra il comma 2 e 4); se la sentenza di condanna di
secondo grado e' annullata soltanto in ordine al trattamento
sanzionatorio (parendo che la terminologia usata "punti diversi dalla
pena" debba intendersi in senso ampio) o alla misura di sicurezza.
Il comma 5 prevede infine che, in caso di avvenuta proposizione del
ricorso per Cassazione - sia nei confronti delle sentenze di
proscioglimento, sia nei riguardi delle sentenze di condanna -, il
ricorrente puo' produrre motivi nuovi, ex art. 585 c.p.p., comma 4,
secondo il novellato art. 606 c.p.p.. La disposizione non istituisce
una deroga piena al principio tempus regit actum perche' non impone
di valutare l'originario ricorso secondo i nuovi criteri, ne' rimette
in termine le parti che hanno gia' impugnato (o quelle che non lo
hanno fatto) per proporre comunque ex nova ricorso. Anzi, limitandosi
a consentire i motivi "di cui" all'art. 585 c.p.p., comma 4, secondo
la nuova formulazione dell'art. 606, rende applicabile la regola che
l'inammissibilita' dell'impugnazione si estende ai motivi nuovi.
La specifica, puntigliosa, individuazione dei casi e modi in cui le
nuove norme sono applicabili alla impugnazioni pendenti, e in special
modo al giudizio di Cassazione, convince dunque della impossibilita'
di estendere alle ipotesi non espressamente previste qualsivoglia
deroga al principio in virtu' del quale l'effetto della impugnazione
resta regolato dalla legge vigente nel momento in cui il potere
d'impugnare s'e' consumato; impedendo di conseguenza, nella
situazione processuale in esame, di assegnare efficacia retroattiva
all'intervenuta abrogazione dell'art. 577 c.p.p..
4. Nel "merito" il ricorso e', nei termini che si diranno, fondato.
La Corte d'appello ha ritenuto i giornalisti scriminati
dall'esercizio del diritto di critica con riferimento ad alcune
proposizioni, escludendo la portata diffamatoria di altre (vedi
sopra, nel ritenuto in fatto).
4.1. In realta', tuttavia, dalla sentenza impugnata non risulta che
la Corte d'appello abbia minimamente preso in considerazione le
proposizioni "lei la bionda, la cinica, la spietata", "per i suoi
modi di fare ed agire e' la nemica di tutti", che dipingono,
specialmente la prima, una sorta di "tipo d'autore", richiamando
indiscutibilmente alla memoria l'immagine di una crudelta' ariana
ancora tristemente viva nella coscienza di tutti. E l'attribuzione di
tali connotazioni alla ricorrente non risulta in alcun modo
giustificata negli articoli incriminati.
4.2. Quanto all'esercizio del diritto di critica, e' principio
consolidato nella giurisprudenza di legittimita', in tema di
diffamazione, che la critica, pur concretizzandosi nella
manifestazione di un'opinione che, come tale, non puo' pretendersi
rigorosamente obiettiva, presuppone comunque, perche' possa
considerarsi legittima, un contenuto di veridicita', limitato alla
oggettiva esistenza del "fatto" assunto a base delle opinioni e delle
di valutazioni espresse (tra molte: Sez. 5, Sentenza n. 13264 del
2005, Farina Cass., sez. 5A, 14 febbraio 2002, Trevisan, m. 221904;
Cass., sez. 5^, 14 aprile 2000, Chinigo, m. 216534), dal momento che
esiste una chiara differenza tra l'argomentata manifestazione di
un'opinione e l'affermazione di circostanze non corrispondenti al
vero (Cass., sez. 5^, 9 giugno 2004, Sinn, m. 229312). Eguale
principio e' costantemente espresso dalla giurisprudenza C.E.D.U.,
secondo la quale, quando le affermazioni contestate hanno ad oggetto
"giudizi di valore", seppure riferendosi a soggetti politici i limiti
di accettabilita' della critica sono piu' ampi, la proporzionalita'
della ingerenza nell'esercizio della liberta' di stampa deve
valutarsi in riferimento all'esistenza o meno di un sufficiente
riscontro fattuale. (Wirtshafts - Trend Zeitschriften - Verlags Gmbh
c. Austria, sentenza del 27.10.2005, ric. n 58547/00; nello stesso
senso, con riferimento ad accuse tra giornalisti, Rodrigues c.
Portogallo, sentenza del 29.11.2005; ric. n 75088/01).
Orbene, nessun reale contenuto di verita' e' evidenziato dalla Corte
d'appello in riferimento alle proposizioni che considera scriminate.
In particolare, allorche' i giornalisti raccontano: "Si grida
all'attentato si grida alla mafia, si grida alle intimidazioni. C'e'
una relazione dei vigili del fuoco che parla chiaro: non esiste il
dolo"; "deve inventare (con la complicita' dei soliti noti) attentati
dinamitardi a destra e a manca", travisavano, secondo la sentenza di
primo grado, quello che risultava accertato e che era: non gia' che
l'incendio non fosse doloso o che la N. non avesse subito
intimidazioni; bensi' solamente che non risultava accertata la causa
obiettiva dell'incendio. Se dunque era questa la "verita'" che andava
correttamente riferita, la Corte d'appello non poteva, in assenza di
argomenti traenti conforto da ulteriori o diverse emergenze
processuali, affermare che costituivano esercizio di critica gli
articoli incriminati laddove davano per pacifico che risultava
accertato che l'incendio non era doloso o che era una "invenzione"
della N.. Ne' la sentenza impugnata consente di comprendere
in che modo, o per quale via, l'ulteriore frase: "Loro hanno
interessi politici e, forse, anche personali (vedi N.
all'isola dei Conigli...)", potesse rientrare senz'altro nel diritto
di critica. Una cosa e', all'evidenza, dire di interessi politici;
diversa e' parlare dell'esistenza di "interessi personali", che dai
primi dovrebbero, secondo regole elementari di correttezza, essere
distanti ed estranei. Sicche' non puo' ritenersi consentito affermare
che costituisce esercizio legittimo del diritto di critica riferire
che l'attivita' pubblica, o politica, e' gestita da qualcuno sulla
base di interessi, "forse", personali, senza evidenziare alcun
argomento concreto che dia giustificazione del dubbio sulla grave
scorrettezza istituzionale in tal modo instillato.
5. Non risultando adeguatamente motivata ne' in relazione alla
mancanza di "diffamatorieta'" di certune proposizioni, ne' in
relazione alla sussistenza della scriminante del diritto di critica
per certe altre, la sentenza andrebbe dunque annullata agli effetti
penali nei confronti dei giornalisti, ai soli effetti civili nei
confronti del direttore responsabile. I reati risultano tuttavia
estinti, poiche' sono stati consumati sino al 25 ottobre 1997 (s'e'
detto che dell'omesso controllo in relazione all'articolo del
28.11.1997 il direttore risulta sostanzialmente assolto) e il solo
fatto interruttivo che si ricava dagli atti concerne il rinvio del
dibattimento di primo grado dal 16.5.2001 al 18.7.2001 (2 mesi e 2
giorni); sicche' la prescrizione e' maturata, per l'ultimo degli
episodi contestati, il 27.6.2005.
Ne consegue che agli effetti penali la sentenza impugnata va
annullata senza rinvio nei confronti di C.C.L. e
di D.G. perche' i reati loro rispettivamente ascritti
sono estinti per prescrizione, mentre limitatamente agli interessi
civili va annullata con rinvio al Giudice civile competente per
valore per il giudizio appello, cui va rimessa la liquidazione delle
spese anche per il presente grado.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata nei
confronti di C.G.L. e di D.G.,
perche' i reati sono estinti per prescrizione. Annulla agli effetti
civili la sentenza impugnata nei confronti dei predetti C. e
D., nonche' nei confronti di R.A., con rinvio al
Giudice civile competente per valore in grado d'appello.
Cosi' deciso in Roma, il 16 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2006