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Penale.it - Tribunale di Perugia, in composizione collegiale, Ordinanza 23 maggio 2006

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Tribunale di Perugia, in composizione collegiale, Ordinanza 23 maggio 2006
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Legge 46/2006: questione di legittimità costituzionale per l’esclusione del potere del P.M. di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, per violazione degli articoli 3, 111 e 112 della Costituzione

CORTE D’APPELLO DI PERUGIA
Sezione penale
La Corte d’Appello di Perugia in persona dei sottoscritti magistrati:
dott. Silvio Magrini Alunno   Presidente
dott. Paolo Barlucchi   Consigliere
dott. Gennaro Iannarone   Giudice
ha emesso la seguente
ORDINANZA
Preliminarmente va rilevato che la Corte oggi giudica in diversa composizione rispetto alla precedente udienza all’esito della quale è stata emessa l’ordinanza che nominava il perito d’ufficio in rinnovazione della istruttoria dibattimentale come richiesto dal P.M. nei motivi di appello.
All’udienza odierna il difensore di parte civile ha chiesto la conferma della suddetta ordinanza che, respingendo la questione di illegittimità costituzionale sollevata circa la sopravvenuta inappellabilità da parte del P.M. delle sentenze di assoluzione, aveva dichiarato ammissibile l’appello del P.M. sul presupposto che la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, mediante espletamento di una perizia medico – legale integrasse il requisito di cui all’art. 593 c.p.p. nel testo modificato dall’art. 1 L. 46/2006.
Tale presupposto, re melius perpensa, non appare tuttavia condivisibile in quanto la norma citata fa espresso richiamo all’art. 603 comma 2 c.p.p. che si riferisce esclusivamente alle prove sopravvenute alla pronuncia della sentenza di primo grado.
In altri termini, nel quadro delle prove nuove, per tali intendendosi tutte le prove non acquisite in primo grado, deve enuclearsi una sottocategoria costituita dalle prove sopravvenute, le quali, oltre a non essere state assunte in primo grado, presentino la peculiarità di essere emerse dopo la deliberazione della sentenza di primo grado.
Soltanto una simile prova determina l’ammissibilità dell’appello del P.M. ai sensi della nuova normativa.
E tale non può ritenersi lo svolgimento di una perizia sulla base di elementi di fatto preesistenti, comunque vagliati nel corso del primo grado di giudizio.
In ordine all’approfondimento tecnico il requisito della sopravvenienza può sussistere solo quando abbia ad oggetto elementi non conosciuti nel processo di primo grado e successivamente emersi.
Alla luce della mancata rinnovazione della precedente ordinanza riacquistano in astratto rilevanza la questione di illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 593 c.p.p., come modificato dall’art. 1 L. 46/2006, e 10 L. cit., nonché degli artt. 6, comma 1, L. 46/2006 e 576 c.p.p. come novellato, rispettivamente sollevate dalla Procura Generale e dalle parti civili.
Ciò in quanto, in applicazione della novella, la Corte dovrebbe dichiarare l’inammissibilità dell’appello del P.M.; ed analoga sorte dovrebbe toccare all’appello della parte civile qualora si aderisse alla tesi che vuole il relativo potere soppresso anche nella disciplina transitoria.
Ed infatti nel caso di specie risulta sollevata analoga eccezione dal difensore di parte civile con riferimento all’art. 576 c.p.p., nella parte in cui, secondo una determinata interpretazione, la norma, come novellata, escluderebbe il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento anche in capo alla parte civile, e parimenti determinerebbe, ai sensi dell’art. 10, comma 1, L. 46/2006, la declaratoria di inammissibilità dell’appello già proposto, con conseguente illegittima compressione dei diritti della persona danneggiata dal reato.
Ritiene la Corte che l’esame della prima questione sia pregiudiziale ed assorbente in quanto, la eventuale pronuncia di non manifesta infondatezza della eccezione relativa alla soppressione del potere di appello in capo al P.M., determina la necessità di sospensione del processo ai fini della trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, qualunque opinione si prediliga in ordine alla permanenza o meno del potere di appello in capo alla parte civile, posto che non è processualmente possibile la separazione e quindi la trattazione del solo appello proposto a fini civili, qualora ritenuto ammissibile.
Venendo dunque all’esame del merito della questione sollevata dal P.G. ritiene la Corte che, contrariamente a quanto sostenuto nella precedente ordinanza, l’eccezione di incostituzionalità del combinato disposto degli artt. 593 c.p.p. – come modificato dall’art. 1 L. 46/2006 – e 10 L. cit., nella parte in cui inibiscono al P.M. di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento ed impongono la declaratoria di inammissibilità degli appelli già proposti, sia non manifestamente infondata, anche per profili diversi da quelli posti in rilievo dall’eccipiente.
La nuova normativa infatti, per quanto si dirà, realizza una drastica compromissione dei poteri processuali del P.M., determinando una evidente asimmetria, quanto ai poteri di impugnazione delle sentenze, la quale non può dirsi assolutamente giustificata da ragionevoli considerazioni di principio ovvero di politica legislativa processuale, con conseguente violazione, sotto questo profilo degli artt. 111, comma 2, e 3 Cost.
Inoltre la stessa, in sede applicativa, è foriera di tali incongruenze, da consegnare nelle mani degli operatori del diritto un meccanismo praticamente ingestibile, nell’ambito del quale qualsiasi opzione ermeneutica si prediliga è ineluttabilmente destinata a cozzare con un diverso profilo di illegittimità costituzionale, determinando, soprattutto nel regime transitorio, notevoli disparità di trattamento ovvero la necessità, onde evitare soluzioni pasticciate, del ricorso ad una sorta di giurisprudenza “creativa”, o “suppletiva” delle sviste del legislatore. Tutto ciò in contrasto con il principio di buon andamento della Pubblica Amministrazione (Art. 97 Cost.) ed a conferma della irragionevolezza complessiva del sistema delineato dalla normativa in argomento.
Quest’ultima inoltre, in particolar modo nel regime transitorio, è destinata ad incidere negativamente sui tempi processuali, determinando la necessità dello svolgimento di un maggior numero di gradi di giudizio, a fronte di sentenze gravemente erronee, laddove l’errore ridondi in vizio di motivazione, in violazione del citato comma 2 dell’art. 111 Cost., ultimo periodo.
Risulta pertanto necessario, al fine di porre in luce i profili di incostituzionalità delineati in termini generalissimi, rivolgere uno sguardo di insieme alla nuova legge, ai lavori preparatori, alla interlocuzione del Presidente della Repubblica, che ha ravvisato profili di manifesta illegittimità, rinviando la legge alle Camere per una nuova deliberazione, nonché alle modifiche apportate onde correggere le suddette censure di incostituzionalità.
Un tale discorso di insieme, lungi dal coinvolgere in un generico giudizio negativo l’impianto generale della legge, in violazione della regola della obbligatoria rilevanza della questione, è utile e necessario al fine di evidenziare la profonda irrazionalità della norma da applicare nel caso di specie.
Al riguardo va in primo luogo sgombrato il campo da un falso presupposto teorico che riecheggia nei lavori preparatori della L. 46/2006, secondo cui la eliminazione del potere del P.M. di appellare le sentenze di proscioglimento sarebbe conforme ad un principio generale, sancito dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. In base a tale tesi l’imputato potrebbe essere riconosciuto colpevole solo a seguito di due pronunce di merito conformi nella affermazione di colpevolezza. Diritto del quale sarebbe privato in caso di condanna in secondo grado a seguito dell’accoglimento dell’appello avverso il proscioglimento, non essendovi in questo caso spazio per un riesame nel merito della affermazione della colpevolezza.
Tale tesi dimentica tuttavia che l’art. 2 del VII Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali,sottoscritto a Strasburgo il 22-11-1984 e ratificato in Italia con L. 9-4-1990 n.° 98, prevede la possibilità che un soggetto venga “dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento”, e in questo caso anzi si esclude che il soggetto medesimo abbia diritto a un ulteriore gravame di merito.
Se dunque è erroneo il presupposto teorico di fondo della novella, ne discendono “per li rami” le conseguenze in punto di irrazionalità di una disciplina che, nel differenziare drasticamente i poteri di impugnazione delle parti, e nel sacrificare pressocchè totalmente quelli del P.M. (e di riflesso della persona offesa), non risponde ad alcuna logica giustificazione.
Se a ciò si aggiunge che, nel concreto della disciplina, le nuove norme risultano mal coordinate e tali da rendere obbligatori degli sbocchi processuali del tutto incongrui, la incostituzionalità per irragionevolezza si manifesta in tutta la sua evidenza.
Ed infatti, calandoci dai supremi principi alla applicazione pratica, si rilevano plurime anomalie ed irragionevoli disparità di trattamento tra P.M. e persona offesa da un lato, parte civile ed imputato dall’altro, con la “stranezza” che la parte civile viene a condividere con l’imputato, suo contraddittore naturale, un destino di maggior favore rispetto a quello riservato al P.M.
A) Nella previgente disciplina il più vistoso caso di asimmetria in relazione ai poteri di impugnazione delle parti riguardava le sentenze emesse all’esito del giudizio abbreviato, non potendo il P.M., salvo il caso del mutamento del titolo del reato, proporre appello avverso la sentenza di condanna.
Tale disciplina era stata pacificamente ritenuta conforme al dettato Costituzionale, in quanto la limitazione al potere di appello del P.M. riguardava una sentenza che, pur eventualmente deludendolo in punto di trattamento sanzionatorio, comunque accoglieva la tesi della penale responsabilità dell’imputato. E tale sacrificio era giustificato dalla circostanza che il P.M. beneficiava della possibilità di far valere come prove tutti gli atti raccolti nel corso delle indagini preliminari.
Invece, nella disciplina introdotta dalla L. 46/2006, il P.M. è in primo luogo privato del potere di proporre appello (id est di ottenere un riesame nel merito) addirittura avverso una sentenza di proscioglimento, che cioè sconfessa totalmente la tesi accusatoria, ma tale radicale sacrificio non è compensato da alcuna previsione di favore per la parte pubblica né altrimenti giustificato.
E come si è detto tale giustificazione non può rinvenirsi nelle fonti sopranazionali (che, nell’interpretazione costante, consentirebbero addirittura l’abolizione dell’appello dell’imputato, essendo il suo diritto alla impugnazione della condanna salvaguardato dalla obbligatoria previsione della ricorribilità per cassazione delle sentenze), e tantomeno trova albergo al riparo di altri principi quali la ragionevole durata del processo ovvero l’immediatezza ed oralità del processo.
Sotto il primo profilo, come si vedrà, le nuove disposizioni sono destinate ineluttabilmente ad allungare i tempi processuali.
Il richiamo invece alla oralità ed immediatezza, secondo cui il Giudice d’Appello, che decide sulle carte, non può sovvertire la decisione del Giudice di primo grado che ascolta direttamente i testimoni, prova troppo, dovendo tale argomento necessariamente valere, dal punto di vista logico, anche in relazione all’appello proposto dall’imputato.
Ne consegue che la sostanziale esclusione del potere di proporre appello da parte del P.M. sacrifica in maniera del tutto ingiustificata ed irrazionale la parità delle parti nel processo e la stessa sua funzione di pervenire comunque (o di avvicinarsi tendenzialmente) alla verità storica, inibendo un controllo giurisdizionale su eventuali errori di merito.
B) Del tutto teorica e marginale è la residua facoltà di appello conservata al P.M. (dopo il rinvio della legge alle Camere) in caso di sopravvenienza o scoperta di una nuova prova dopo il giudizio di primo grado.
Anche questa previsione si apprezza per la sua palese inutilità ed irrazionalità.
Sotto il primo profilo essa relega in un ambito statisticamente irrilevante il potere del P.M. di proporre appello, in considerazione del fatto che la nuova prova deve sopravvenire, in sostanza, durante il breve termine per appellare (di 15, 30 o 45 giorni a seconda dei casi), la cui durata, tra l’altro, dipende da fattori del tutto casuali, quali la indicazione o meno di un termine per il deposito della motivazione, il rispetto di tale termine da parte del Giudice, la rapidità della Cancelleria e degli organi a ciò addetti nel notificare l’estratto della sentenza alla parte eventualmente contumace.
Con la ulteriore conseguenza che lo stesso rischio per l’imputato di dover subire il processo di appello dipende da circostanze assolutamente imponderabili e non da egli controllabili.
A ciò si aggiunga che con i limitati potersi di indagine di cui dispone il P.M. dopo il rinvio a giudizio ex art. 430 c.p.p., la emersione di una nuova prova nel ristretto termine suddetto costituirà evenienza talmente rara da sfiorare il miracolistico.
Sotto il profilo della razionalità poi davvero non si riesce a comprendere perché il potere di conservare alla parte pubblica un ulteriore grado di giudizio di merito debba essere riconosciuto solo ad una prova scoperta in quel limitato termine e non anche nelle more della celebrazione del giudizio di cassazione instaurato a seguito del ricorso proposto dal P.M. (verificandosi altrimenti il passaggio in giudicato della sentenza che preclude ab imis la possibilità di far valere una nuova prova di colpevolezza, non conoscendo il nostro ordinamento la revisione in malam partem).
Insomma, non potendo esser fatta valere l’emersione di una nuova prova davanti alla Corte di Cassazione, il P.M. dovrà sperare solo nell’annullamento della sentenza con rinvio al Giudice di primo grado, davanti al quale far valere la suddetta prova, verificandosi, in caso contrario, il definitivo scollamento, a causa della scelta di inibire la celebrazione di un secondo grado di merito, tra verità processuale e verità storica.
Ancora va considerato che, in base alla nuova formulazione dell’art. 593 c.p.p., in caso di emersione di una prova nuova, anche l’imputato potrà proporre appello avverso una sentenza di proscioglimento pronunciata con una formula che possa eventualmente arrecargli pregiudizio (ad es. per difetto di dolo – con conseguente possibilità di esperimento di azione civile risarcitoria nei suoi confronti per illecito civile colposo – ovvero per difetto di imputabilità).
Orbene, in quest’ultimo caso, avverso la stessa sentenza potrebbero essere proposti mezzi di impugnazione diversi – l’appello da parte dell’imputato ed il ricorso per cassazione da parte del P.M. – senza che sia previsto alcuno strumento onde evitare la anomalia della contemporanea pendenza dello stesso processo in gradi diversi, non potendo operare, in una simile ipotesi, il meccanismo della conversione ex art. 580 c.p.p., ristretto ai soli casi di connessione ex art. 12 c.p.p.
Infine, sempre con riferimento al tema della prova nuova, e con specifico riguardo alla normativa transitoria, il legislatore non ha previsto la salvezza dell’appello, già validamente proposto dal P.M. nel vigore della previgente disciplina, qualora negli stessi motivi di appello ovvero direttamente in dibattimento, l’appellante abbia chiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deducendo una prova sopravvenuta.
Con la irragionevole conseguenza, non superabile in via interpretativa, salvo a ricorrere a soluzioni “creative” o “integrative”, che un appello che sarebbe valido anche secondo la nuova normativa - e che è stato validamente proposto secondo la legge vigente al momento della sua proporzione - debba essere tuttavia dichiarato inammissibile, prevedendo l’art. 10, comma 2, L. 46/2006, la declaratoria di inammissibilità dell’appello tout court, senza alcuna deroga o possibilità di valutare gli appelli pendenti secondo il nuovo parametro introdotto dal novellato art. 593 c.p.p.
C) La irragionevole disparità di trattamento introdotta con la limitazione (rectius esclusione) della possibilità del P.M. di appellare avverso le sentenze di proscioglimento, si apprezza anche con riguardo alla posizione della parte civile.
In proposito, limitandoci ad una mera ricognizione della questione, non direttamente rilevante nel caso di specie se non per i profili di irragionevolezza che introduce, va rilevato che, paradossalmente, all’interno del processo penale, dalla normativa a regime, viene tolta al P.M. una facoltà che invece viene confermata in capo alla parte civile (per lo meno secondo la tesi che si fonda sulla voluntas legislatoris, malamente espressa nel testo normativo, emendato a seguito del messaggio presidenziale), e ciò nonostante il diverso rango degli interessi perseguiti, la sedes materiae, e la permanente possibilità del danneggiato dal reato di percorrere i tre gradi di giudizio trasferendo l’azione in sede civile.
Ancor più evidente tale disparità di trattamento emerge nella normativa transitoria ove è pressocchè certo – a prescindere dalla tesi prescelta in relazione alla normativa a regime – che l’appello illo tempore proposto dalla parte civile conservi efficacia, con la conseguenza di mantenere la cognizione della Corte d’Appello Penale esclusivamente su questioni civilistiche, che coinvolgono il merito della vicenda, privandola della corrispondente cognizione penale.
Senza considerare l’ulteriore distonia, ridondante in un ulteriore profilo di irrazionalità, in caso di ricorso per cassazione del P.M., della contemporanea pendenza della medesima vicenda processuale in due gradi diversi, di merito e di legittimità, con possibilità di soluzioni contrastanti, e senza che possa operare – in virtù della disposizione dell’art. 580 c.p.p. – il meccanismo della conversione.
D) L’ultimo profilo di incostituzionalità della soppressione dell’appello del P.M., realizzato con le imperfette modalità della L. 46/2006, riguarda l’incidenza del sistema delineato sui tempi processuali.
Ed infatti è altamente plausibile che, in caso di pronunce gravemente erronee, eliminandosi il potere emendativo della Corte d’Appello, a seguito dell’accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal P.M., si celebreranno i normali tre gradi di giudizio, con rischio elevatissimo di prescrizione del reato, vieppiù alla luce della nuova disciplina dell’art. 157 c.p.p.
Ciò accadrà a causa della sostituzione della sequenza: I grado, II grado e Cassazione, con la sequenza: I grado, Cassazione, I grado, II grado, Cassazione.
E tale situazione è ancora più drammatica nella disciplina transitoria che sconta la dilatazione dei tempi dovuta al decorso del termine per proporre appello ed all’intervallo tra la sua presentazione e la fissazione dell’udienza.
Tutto ciò, ragguagliato ai nuovi termini di prescrizione, si risolve in una sostanziale vanificazione della pretesa punitiva dello Stato in aperto contrasto con l’insegnamento di Corte Cost. n. 98 del 24.3.1994 secondo cui “la configurazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero rimane affidata alla legge ordinaria che potrebbe essere censurata per irragionevolezza solo se i poteri stessi, nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all’assolvimento dei compiti previsti dall’art.112 Cost.” che risulta, conseguentemente, indirettamente violato.
Quanto alla eccezione sollevata dalle parti civili, va rilevato che, secondo l’orientamento seguito da questa Corte, deve ritenersi che, a prescindere dalla soluzione della questione relativa al mantenimento del potere di appello a fini civili nella normativa a regime, di certo conservano efficacia gli appelli già proposti dalla parte civile in quanto la diversa e contraria interpretazione, sarebbe certamente incostituzionale posto che non solo priva il danneggiato del reato di un grado di merito, ma lo espone alla pregiudizievole efficacia extrapenale della sentenza di proscioglimento ex art. 652 c.p.p., non gli consente la tutela dei suoi diritti nel processo civile stante la necessaria sospensione dello stesso ex art. 75, comma 3, c.p.p., e non prevede neppure la remissione in termini, concessa a P.M. ed imputato, per la proposizione del ricorso per cassazione.
La Corte è consapevole che anche questa tesi si scontra con il rischio di una situazione processuale paradossale costituita dalla contemporanea pendenza dell’appello della parte civile e del ricorso per cassazione proposto dal P.M., ma la lettera della legge non consente altra soluzione interpretativa, determinando, anche sotto questo aspetto, un già rilevato profilo di illegittimità per irragionevolezza.
Ed a maggior ragione, ribadendo quanto già detto, non appare possibile la trattazione e decisione dell’appello della parte civile in pendenza della eccezione di incostituzionalità proposta in relazione all’appello del P.M. in considerazione del carattere pregiudiziale della questione, assolutamente assorbente, tanto che, in caso di accoglimento della prima eccezione, la parte civile troverebbe tutela, per il principio della immanenza, anche ove non avesse a sua volta proposto appello.
Pertanto, tornando alla questione principale, in conclusione l’eliminazione del potere del P.M. di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento:
Ø  viola l’art. 111, comma 2, Cost. introducendo una ingiustificata disparità di trattamento tra le parti del processo, da intendersi in tutti i gradi in cui si esso è destinato ad articolarsi attraverso la possibilità concessa alle parti di accedervi;
Ø  viola l’art. 3 Cost. per la manifesta irragionevolezza delle soluzioni normative adottate, tanto nella disciplina a regime quanto in quella transitoria;
Ø  viola il principio della durata ragionevole del processo di cui all’art. 111 Cost.;
Ø  viola l’art. 97 Cost. per la concreta ingestibilità del processo in caso di applicazione della nuova normativa che determina situazioni di necessaria stasi dello stesso;
Ø  viola l’art. 112 Cost. avviando ad un sicuro destino di prescrizione numerosissimi reati.
 
P.Q.M.
visti gli artt. 134 Cost. e 23 L. 87/53,
DICHIARA
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 593 c.p.p., come modificato dall’art. 1 L. 46/2006 e dell’art. 10 L. 46/2006, per violazione degli artt. 3, 97, 111 e 112 Costituzione, secondo quanto esposto nella parte motiva.
SOSPENDE
il presente procedimento ed ordina la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
Perugia, udienza del 23 maggio 2006.
IL PRESIDENTE
Dott. Silvio Magrini Alunno
 
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