nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sorto a seguito della nota del 24 novembre 2004 con la quale il Ministro della giustizia ha dichiarato di non dare corso alla determinazione del Presidente della Repubblica relativa alla concessione della grazia ad Ovidio Bompressi, promosso con ricorso del Presidente della Repubblica nei confronti del Ministro della giustizia, notificato il 29 novembre 2005, depositato in cancelleria il successivo 1° dicembre ed iscritto al n. 25 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2005, fase di merito.
Ritenuto in fatto
1.— Con ricorso del 10 giugno 2005 il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti del Ministro della giustizia «in relazione al rifiuto, da questi opposto, di dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi»; rifiuto risultante dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato.
1.1.— Il ricorrente – sul presupposto di aver manifestato al Guardasigilli, con nota dell’8 novembre 2004 (emessa dopo aver ricevuto ed esaminato la documentazione sull’istruttoria relativa all’istanza di grazia presentata dal Bompressi), la propria determinazione di concedere il richiesto provvedimento di clemenza, invitandolo pertanto a predisporre il relativo decreto di concessione della grazia, per la successiva emanazione – si duole del fatto che il Ministro gli abbia comunicato «di non poter aderire a questa richiesta» in quanto non condivisibile «né sotto il profilo costituzionale né nel merito», atteso che – a suo dire – «la Costituzione vigente pone in capo al Ministro della giustizia la responsabilità di formulare la proposta di grazia».
Il Presidente della Repubblica assume, per contro, che il potere di grazia – riservato «espressamente e in via esclusiva al Capo dello Stato dall’art. 87 della Costituzione» – «verrebbe posto nel nulla dalla mancata formulazione della proposta da parte dello stesso Ministro», proposta, oltretutto, che né la Costituzione né la legge richiedono ai fini della concessione del beneficio de quo. Ritiene, pertanto, il ricorrente che qualora egli pervenga, come nel caso in esame, «alla determinazione di concedere la grazia ad un condannato, tanto la predisposizione del relativo decreto, quanto la successiva controfirma costituiscono, per il Ministro della giustizia, “atti dovuti”».
Su tali basi, pertanto, il ricorrente ha promosso conflitto – ai sensi degli artt. 37 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 – nei confronti del Ministro Guardasigilli, «per violazione degli articoli 87 e 89 Cost.».
1.2.— Indiscutibile – secondo il ricorrente – sarebbe l’ammissibilità del conflitto sotto il profilo soggettivo, atteso che la qualificazione del Presidente della Repubblica come potere dello Stato «è del tutto pacifica», come del resto la legittimazione del Ministro della giustizia «ad essere parte in un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato», e ciò «in ragione del ruolo istituzionale» che la Costituzione riserva al Guardasigilli (sono richiamate, sul punto, le pronunce di questa
Corte n. 380 del 2003,
n. 216 del 1995,
n. 379 del 1992). Ciò premesso, il ricorrente assume – sotto il profilo oggettivo – l’esistenza di una lesione delle attribuzioni che la Costituzione conferisce al Capo dello Stato «nell’esercizio del potere di concessione della grazia».
1.3.— Nel merito, infatti, viene dedotta – come sopra precisato – la violazione degli articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che il rifiuto del Ministro «di formulare la proposta di grazia in favore di Ovidio Bompressi, ritenendola presupposto indispensabile del relativo decreto di concessione», si sostanzia de facto nella rivendicazione del «potere di interdire con la sua decisione (o addirittura con la sua inerzia) l’esercizio del potere presidenziale di concessione della grazia», e quindi nell’attribuzione «di un sostanziale potere di codecisione che è, viceversa, assente nel vigente ordinamento costituzionale».
Diversi argomenti, difatti, «di ordine logico-giuridico, oltre che sistematico», concorrono a confermare la titolarità esclusiva di tale potere in capo al Presidente della Repubblica, secondo quanto risulta già dalla lettera dell’art. 87 Cost.
1.3.1.— Rilevante in tal senso – secondo il ricorrente – è,
in primis, la
ratio dell’istituto della grazia, è cioè la sua finalità «umanitaria ed equitativa» (riconosciuta anche da questa Corte nella
sentenza n. 134 del 1976 e nell’
ordinanza n. 388 del 1987) che è quella di «attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con il più alto sentimento della giustizia sostanziale».
Se è vero, difatti, che la grazia mira a soddisfare un’esigenza «correttivo-equitativa» dei rigori della legge (oppure a fungere – come pure emerge dalla relazione governativa al progetto preliminare del codice di procedura penale del 1988, a commento dell’art. 672 – da «strumento di risocializzazione» del condannato, «alla luce dei risultati del trattamento rieducativo» al quale egli sia stato sottoposto), appare allora «naturale» – assume il ricorrente – tanto che la sua concessione esuli del tutto «da valutazioni di natura politica», quanto che «l’esercizio di un potere di tale elevata e delicata portata venga riservato in via esclusiva al Capo dello Stato, quale organo rappresentante dell’unità della Nazione», nonché «garante super partes della Costituzione», e dunque «unico organo che offra la garanzia di un esercizio imparziale».
In questo quadro, dunque, il Ministro della giustizia «è soltanto il Ministro “competente” che collabora con il Capo dello Stato nelle varie fasi del procedimento, contribuendo alla formazione della volontà presidenziale nell’ambito delle sue specifiche attribuzioni», destinate a sostanziarsi esclusivamente in «contributi istruttori, valutativi ed esecutivi», fermo restando che, proprio in ragione del «ruolo prevalentemente e essenzialmente istruttorio» spettante al Guardasigilli, in mancanza di accordo con il medesimo «devono comunque prevalere le istanze di cui è portatore il Presidente della Repubblica quale titolare del potere di grazia».
1.3.2.— Il riconoscimento dell’esistenza di «poteri di natura sostanziale» spettanti, in materia di grazia, al Ministro della giustizia non potrebbe, d’altra parte, fondarsi sul disposto dell’art. 89 Cost., secondo cui «nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne assumono la responsabilità».
Tale norma, difatti, non legittima affatto – per un verso – la necessità che
in subiecta materia la determinazione presidenziale sia preceduta da una “proposta ministeriale”, giacché – come chiarito in dottrina – il riferimento in essa contenuto all’espressione “ministri proponenti”, «in luogo della più corretta “ministri competenti”», sarebbe da imputare ad un «uso improprio della locuzione» (ciò di cui si sarebbe mostrata consapevole – a dire del ricorrente – anche questa Corte, la quale nell’
ordinanza n. 388 del 1987, «parafrasando il dettato dell’art. 89 della Costituzione in relazione al provvedimento di grazia ha fatto riferimento al “Ministro competente” anziché al “Ministro proponente”»).
Priva di fondamento costituzionale, pertanto, si presenterebbe la pretesa del Guardasigilli di essere «titolare esclusivo del potere di proposta».
Né, d’altra parte, la conclusione relativa ad una “compartecipazione” del Ministro nella decisione presidenziale relativa alla concessione del provvedimento di clemenza potrebbe trarre argomento dalla necessità della controfirma del decreto di grazia.
Se è vero, difatti, che in relazione agli atti formalmente presidenziali ma sostanzialmente governativi la controfirma «ha il significato di attestare la effettiva paternità dell’atto e la conseguente assunzione di responsabilità politica» da parte del Ministro (giacché qui il Capo dello Stato «si limita ad un mero controllo di legittimità, oltre che di provenienza» dell’atto), le posizioni dei due organi costituzionali appaiono, invece, «invertite con riguardo agli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali», tra i quali rientra la concessione della grazia. Ricorrendo tale evenienza, invero, «la controfirma ministeriale si presenta come atto dovuto, in quanto ha funzione, per così dire, notarile», e cioè «di mera attestazione di provenienza dell’atto da parte del Capo dello Stato, oltre che di controllo della sua regolarità formale».
1.3.3.— Né, poi, la necessità che la concessione della grazia consegua ad una “collaborazione” tra Presidente della Repubblica e Ministro Guardasigilli potrebbe essere giustificata in ragione dell’esistenza di una consuetudine costituzionale in tal senso.
Rileva in proposito il ricorrente come, innanzitutto, una consuetudine siffatta abbia assunto nel tempo «forme e modalità diverse», collegate all’evoluzione conosciuta dalle norme del cosiddetto “ordinamento penitenziario”; di talché la progressiva individuazione di «nuovi percorsi di risocializzazione dei condannati» (in special modo attraverso «l’applicazione di misure alternative alla detenzione, ad opera della magistratura»), nel restituire alla grazia la sua funzione prettamente «equitativo-umanitaria», ha comportato che l’istituto «perdesse le finalità di politica penitenziaria che l’avevano a volte in precedenza pervaso» e che avevano giustificato l’affermarsi della descritta consuetudine di “collaborazione” tra i menzionati organi dello Stato.
Sempre sul piano delle relazioni “consuetudinarie” intercorrenti, nella materia de qua, tra il Capo dello Stato e il Ministro della giustizia, rileva il ricorrente come non sia senza significato l’esaurimento di quella prassi seguita dal Ministro, nel caso in cui ritenesse insussistenti i presupposti per la concessione del provvedimento di clemenza, di «“archiviare” la relativa pratica, senza neppure informare il Capo dello Stato». All’esito, infatti, dell’invio della nota del 15 ottobre 2003 – con la quale il Presidente della Repubblica ha chiesto «di essere informato della conclusione di tutte le istruttorie relative ad istanze di grazia, ai fini delle sue decisioni» (nota alla quale il Ministro «ha immediatamente aderito», come da sua comunicazione del successivo 17 ottobre) – deve ritenersi venuta meno quella prassi in passato invalsa che «finiva per attribuire in qualche misura al Ministro della giustizia dei poteri di decisione sostanziale in materia».
1.3.4.— La «natura esclusivamente presidenziale del potere di concedere la grazia» sarebbe, infine, desumibile – secondo il ricorrente – dalla stessa giurisprudenza costituzionale.
Si richiama, difatti, da un lato, l’indirizzo espresso da questa Corte in ordine alla «necessaria “giurisdizionalizzazione” della fase esecutiva delle sanzioni penali», per sottolineare come la declaratoria di illegittimità costituzionale «di numerose disposizioni che contemplavano competenze dell’esecutivo (e cioè quindi del Ministro della giustizia) nella fase di esecuzione della pena» (sono richiamate le
sentenze n. 274 del 1990;
n. 192 del 1976;
n. 114 del 1979;
n. 204 e
n. 110 del 1974) rischierebbe di essere contraddetta dal riconoscimento al Guardasigilli di «poteri decisionali veri e propri in ordine alla concessione della grazia», giacché, pur trattandosi di istituto «connotato da una
ratio del tutto peculiare», esso «incide certamente sull’esecuzione della pena».
D’altro canto, poi, si sottolinea come la tesi della «esclusiva pertinenza presidenziale del potere di concedere la grazia» sia stata «implicitamente condivisa» da questa Corte nella
sentenza n. 274 del 1990.
Difatti, con tale pronuncia è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 589, terzo comma, del codice di procedura penale del 1930, norma che attribuiva al Ministro della giustizia (e non al Tribunale di sorveglianza) il potere di disporre il differimento della esecuzione della pena nel caso previsto dall’art. 147, primo comma, n. 1, del codice penale, quello, cioè, della presentazione della domanda di grazia da parte del condannato.
In particolare, osserva il ricorrente, la citata decisione «ha disatteso apertis verbis la tesi affermata nella Relazione ministeriale al progetto definitivo del codice di procedura penale» del 1930, secondo cui la prevista competenza ministeriale deriverebbe dalla necessità che la prognosi in ordine alla concessione del provvedimento di clemenza sia effettuata «soltanto dall’organo che nella prassi costituzionale esercita il relativo potere» di concessione. Così argomentando, pertanto, e nell’ulteriormente precisare che non esistono, per contro, «vincoli costituzionalmente determinati per l’esercizio del potere di grazia da parte del Presidente della Repubblica», questa Corte avrebbe dunque chiaramente escluso «l’esistenza di qualsivoglia potere decisionale da parte del Ministro della giustizia».
1.4.— Ciò premesso, il ricorrente evidenzia che nella materia de qua il Ministro della giustizia «è sicuramente titolare dei poteri istruttori», con la conseguenza che – in base al principio di leale collaborazione – il parere che esso esprime al Presidente della Repubblica consente al più «di pervenire a un provvedimento condiviso», fermo però restando che, «nel caso in cui tale condivisione non si verificasse», è innegabile che «la volontà prevalente e quindi la decisione finale non possono che essere quelle del titolare del potere costituzionale di grazia e cioè il Presidente della Repubblica».
Su tali basi, pertanto, il ricorrente ha concluso affinché la Corte dichiari «che non spetta al Ministro della giustizia il potere di rifiutare di dare corso alla determinazione, alla quale il Capo dello Stato è pervenuto, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi e che, conseguentemente, annulli l’atto di cui alla nota 24 novembre 2004 del Ministro della giustizia».
2.— Il presente conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con
ordinanza n. 354 del 2005, con cui è stato disposto che, a cura del ricorrente, il ricorso e la stessa ordinanza fossero notificati al Ministro della giustizia; notificazione avvenuta il 29 novembre 2005.
3.—Non si è costituito in giudizio il Ministro della giustizia.
Considerato in diritto
1.— Il presente conflitto è occasionato dal rifiuto opposto dal Ministro della giustizia di «dare corso alla determinazione, da parte del Presidente della Repubblica, di concedere la grazia ad Ovidio Bompressi», rifiuto risultante dalla nota del 24 novembre 2004 inviata dal medesimo Ministro al Capo dello Stato.
Con il ricorso – muovendosi dal presupposto che il potere di grazia sia riservato «espressamente e in via esclusiva al Capo dello Stato dall’art. 87 della Costituzione» – si lamenta che il Guardasigilli si sia rifiutato «di formulare la proposta di grazia» e di predisporre il relativo decreto di concessione, malgrado il Presidente della Repubblica, con nota dell’8 novembre 2004, avesse manifestato la propria determinazione di volere concedere a favore dell’interessato il provvedimento di clemenza. Da qui la dedotta violazione degli articoli 87 e 89 della Costituzione, atteso che la mancata «formulazione della proposta da parte del Ministro» si sostanzierebbe, di fatto, nella rivendicazione di una attribuzione costituzionalmente spettante al Capo dello Stato, laddove, invece, sia la predisposizione del decreto che la successiva controfirma da parte del Guardasigilli costituirebbero «atti dovuti».
In particolare, si sostiene nel ricorso che la ratio dell’istituto della grazia sia «umanitaria ed equitativa», assolvendo alla funzione di «attenuare l’applicazione della legge penale in tutte quelle ipotesi nelle quali essa viene a confliggere con il più alto sentimento della giustizia sostanziale». Da questa peculiare connotazione del potere di grazia, da cui esula ogni valutazione di «natura politica», deriverebbe la sua «naturale» attribuzione al Capo dello Stato «quale organo rappresentante dell’unità nazionale», nonché «garante super partes della Costituzione».
2.— Con
ordinanza n. 354 del 2005 questa Corte ha dichiarato,
prima facie, ammissibile il conflitto che ha dato origine al presente giudizio e, lasciando impregiudicata ogni diversa successiva determinazione in ordine alla sua stessa ammissibilità, ha disposto la notificazione del ricorso al Ministro Guardasigilli.
3.— Ciò premesso, sul piano processuale, ferma la legittimazione del Presidente della Repubblica a proporre il conflitto, deve essere confermata la legittimazione passiva del solo Ministro della giustizia, il quale – competente,
ratione materiae, ad effettuare l’istruttoria sulla grazia, a predisporre il relativo decreto di concessione, a controfirmarlo ed a curarne l’esecuzione – è il legittimo contradditore. È dal Ministro, infatti, che proviene l’atto, la nota datata 24 novembre 2004, con cui viene rivendicata una compartecipazione sostanziale nella determinazione di concedere o negare l’atto di clemenza e dunque, nello stesso tempo, viene implicitamente limitato l’ambito di autonomia decisionale del Capo dello Stato. La legittimazione passiva del Ministro della giustizia trova il suo fondamento direttamente nella previsione di cui all’art. 110 Cost., atteso che, delle attribuzioni contemplate da tale norma, la giurisprudenza costituzionale ha costantemente escluso la necessità di «un’interpretazione restrittiva» (
sentenze n. 142 del 1973 e
n. 168 del 1963). In tali attribuzioni devono essere inclusi tutti i compiti spettanti al suddetto Ministro in forza di precise disposizioni normative, purché essi siano in rapporto di strumentalità rispetto alle funzioni «afferenti all’organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia», comprese dunque quelle concernenti «l’organizzazione dei servizi relativi all’esecuzione delle pene e delle misure detentive» (
sentenza n. 383 del 1993), e così, per quel che qui specificamente interessa, anche l’attività di istruttoria delle domande di grazia e di esecuzione dei relativi provvedimenti secondo quanto previsto dall’art. 681 del codice di procedura penale.
Alla luce di tale premessa può, pertanto, ribadirsi quanto già affermato da questa Corte, sia pure in riferimento ad una diversa fattispecie, e cioè che il Ministro della giustizia deve ritenersi legittimato a resistere nei giudizi per conflitto quale «diretto titolare delle competenze determinate dall’art. 110 della Costituzione», il cui esercizio venga assunto come causa di menomazione delle attribuzioni di altri poteri dello Stato (
sentenza n. 379 del 1992).
4.— Così determinata la legittimazione a stare in giudizio delle parti, in relazione alla esatta individuazione del thema decidendum, deve preliminarmente osservarsi come la questione all’esame di questa Corte concerna non già la titolarità del potere di grazia, espressamente attribuita dalla Costituzione (art. 87, penultimo comma) al Presidente della Repubblica, bensì le concrete modalità del suo esercizio. Nel ricorso si assume, in particolare, che il ruolo del Ministro si risolverebbe in una doverosa collaborazione con il Capo dello Stato nelle varie fasi del procedimento. Il Ministro in tal modo sarebbe chiamato a contribuire, nel segno di una leale collaborazione tra poteri, alla formazione della volontà presidenziale mediante lo svolgimento di attività cui dovrebbe essere attribuita valenza essenzialmente “istruttoria”.
5.— Ciò precisato, il ricorso, nel merito, deve ritenersi fondato sulla base delle considerazioni che seguono.
5.1.— Prerogativa personale dei sovrani assoluti, la concessione della grazia ha sostanzialmente mantenuto tale carattere anche dopo l’avvento della Monarchia costituzionale, essendo quello di dispensare dalle pene il segno massimo del potere, che attribuiva particolare autorità e prestigio alla figura del Monarca.
È, dunque, in tale contesto storico – quanto all’esperienza italiana – che, dapprima, nell’art. 5 del Proclama dell’8 febbraio 1848 (atto con il quale veniva preannunciata da Carlo Alberto l’emanazione dello Statuto), e, successivamente, nell’art. 8 dello Statuto stesso, venne riconosciuto al Re il potere di «far grazia e commutare le pene». Prerogativa, evidentemente, concepita in stretta connessione con i caratteri della «inviolabilità» e «sacralità» della persona del Monarca. Non irrilevante, tuttavia, appare la circostanza che, mentre nel primo dei citati testi normativi l’esercizio del potere de quo veniva ascritto alla sfera del “giudiziario” (il predetto art. 5, difatti, recitava: «ogni giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo nome. Egli può far grazia e commutare le pene»), nel secondo, viceversa, si recideva tale legame. Alla previsione, difatti, dell’art. 8 dello Statuto («il Re può far grazia, e commutare le pene») corrispondeva quella autonomadell’art. 68 (secondo cui «la Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch’Egli istituisce»), e ciò quasi a sottolineare che l’adozione del provvedimento di clemenza si poneva, già allora, come l’esito di un giudizio equitativo del tutto diverso da quello riservato agli organi giurisdizionali; ciò che rendeva l’esercizio del potere di grazia non idoneo ad essere gestito dalla magistratura il cui compito è “fare giustizia” applicando la legge.
Non è quindi casuale, nella medesima prospettiva, che già il primo codice di rito penale del Regno d’Italia (quello del 1865) prevedesse – all’art. 826 – che le «suppliche per grazia di pene pronunziate» fossero «dirette al re, e presentate al Ministro di grazia e giustizia», dettando così una norma che, se non dirimeva la questione circa la natura della grazia (e la sua titolarità), indicava tuttavia il luogo opportuno della sua trattazione, distinto dalla sede giurisdizionale.
5.2.— Mutato il quadro istituzionale con il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, va ricordato il punto saliente del dibattito svoltosi nell’Assemblea costituente, che portò a riconfermare – nel testo della Costituzione del 1948 – il Capo dello Stato quale titolare di un potere intimamente connesso, almeno da un punto di vista storico, alla figura del Monarca. L’art. 87, undicesimo comma, della Costituzione, dettando una disposizione sostanzialmente identica all’art. 8 dello Statuto albertino, ha infatti stabilito che il Presidente della Repubblica «può concedere grazia e commutare le pene».
Si discusse, allora, in ordine alle implicazioni di tale scelta, ponendosi prevalentemente l’accento sull’evoluzione conosciuta – già nella prassi statutaria – dall’istituto in esame. In particolare, si sottolineò nella seduta assembleare del 22 ottobre del 1947 come il potere di concedere la grazia, rientrante in origine tra quelle «attribuzioni (…) ancora di natura personale, residui dei diritti propri dei monarchi, senza alcun concorso di altri organi costituzionali», avesse progressivamente mutato natura già sotto il vigore del regime monarchico. Dalla affermazione secondo cui, allorché «il re fa la grazia, la fa come persona, non la fa in quanto rappresenta lo Stato», si era progressivamente passati al riconoscimento che «il Capo dello Stato della monarchia, secondo lo Statuto albertino, non ha nessun potere personale; tutti i suoi poteri sono esercitati in quanto rappresentante dello Stato e tutti sottoposti al principio generale della responsabilità ministeriale».
Non casualmente, quindi, nel medesimo impianto costituzionale configurato nel 1948, venne ribadita la necessità che tutti gli atti del Presidente della Repubblica, a pena di invalidità, dovessero essere controfirmati dai Ministri «proponenti» (espressione equivalente, secondo l’interpretazione successivamente invalsa, a quella di Ministri «competenti»), respingendo l’Assemblea costituente la proposta – avanzata nel corso di quella stessa seduta del 22 ottobre 1947 – di escludere dall’obbligo della controfirma gli atti presidenziali adottati «in via di prerogativa».
6.— Inquadrato storicamente l’istituto, diventa rilevante stabilire – ai fini della risoluzione del presente conflitto – quale tipo di relazione intercorra tra il Capo dello Stato, titolare del potere di grazia, ed il Ministro della giustizia, il quale, responsabile dell’attività istruttoria e quindi a tale titolo partecipe del procedimento complesso in cui si snoda l’esercizio del potere in esame, è chiamato a predisporre il decreto che dà forma al provvedimento di clemenza, nonché a controfirmarlo e, successivamente, a curarne l’esecuzione.
Sul punto, come è noto, si è sviluppato un ampio dibattito nel corso del quale sono emersi diversi orientamenti che, sulla base di percorsi argomentativi anche molto diversificati, vanno dalla configurazione della grazia come atto costituente “prerogativa presidenziale” a quella di un “atto complesso”, alla cui formazione dovrebbero concorrere, in modo paritario, le due volontà del Presidente della Repubblica e del Ministro Guardasigilli, non senza passare attraverso altre distinte ed intermedie opzioni interpretative.
È, dunque, rilevante, per la soluzione della questione posta, individuare la funzione propria del potere di grazia, anche alla luce della prassi sviluppatasi, nel periodo repubblicano, nelle relazioni tra Capo dello Stato e Ministro Guardasigilli.
6.1.— Orbene, deve ritenersi, al riguardo, che l’esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannatoo comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l’adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull’esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall’ordinamento del processo penale.
La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell’art. 27 Cost., garantendo soprattutto il «senso di umanità», cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall’art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di «rieducazione» proprio della pena.
Questa peculiare connotazione funzionale del potere di grazia appare, del resto, coerente con quanto affermato dalla stessa giurisprudenza costituzionale. Questa Corte nello scrutinare, in particolare, l’istituto della grazia “condizionata”, ha osservato come esso assolva ad un compito «logicamente parallelo alla individualizzazione della pena, consacrata in linea di principio dall’art. 133 c.p.», tendendo «a temperare il rigorismo dell’applicazione pura e semplice della legge penale mediante un atto che non sia di mera clemenza, ma che, in armonia col vigente ordinamento costituzionale, e particolarmente con l’art. 27 Cost., favorisca in qualche modo l’emenda del reo ed il suo reinserimento nel tessuto sociale» (
sentenza n. 134 del 1976).
È evidente, altresì, come – determinando l’esercizio del potere di grazia una deroga al principio di legalità – il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria. Ciò vale a superare il dubbio – al quale ha sostanzialmente fatto riferimento lo stesso Guardasigilli nella nota 24 novembre 2004, che ha occasionato il conflitto – che il suo esercizio possa dare luogo ad una violazione del principio di eguaglianza consacrato nell’art. 3 della Costituzione.
6.2.— La stessa disamina della prassi formatasi sulla concessione della grazia dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, pone in evidenza, in base a dati statistici ministeriali, l’esistenza di una ulteriore evoluzione dell’istituto, o meglio della funzione assolta con il suo impiego.
Se infatti molto frequente, fino alla metà degli anni '80 del secolo appena concluso, si è presentato il ricorso a tale strumento, tanto da legittimare l’idea di un suo possibile uso a fini di politica penitenziaria, a partire dal 1986 – ed in coincidenza, non casualmente, con l’entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – si è assistito ad un ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a titolo esemplificativo, il raffronto tra i 1.003 provvedimenti di clemenza dell’anno 1966 e gli appena 104 adottati nel 1987, ma il dato numerico è ulteriormente diminuito negli anni successivi, riducendosi fino a poche decine.
Un’evenienza, quella appena indicata, da ascrivere – come si notava – all’introduzione di una apposita legislazione in tema di trattamento carcerario ed esecuzione della pena detentiva. Ciò nella convinzione che le ordinarie esigenze di adeguamento delle sanzioni applicate ai condannati alle peculiarità dei casi concreti – esigenze fino a quel momento soddisfatte in via pressoché esclusiva attraverso l’esercizio del potere di grazia – dovessero realizzarsi mediante l’impiego, certamente più appropriato anche per la loro riconduzione alla sfera giurisdizionale, degli strumenti tipici previsti dall’ordinamento penale, processual-penale e penitenziario (ad esempio, liberazione condizionale, detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali ed altri).
Ciò ha fatto sì, dunque, che l’istituto della grazia sia stato restituito – correggendo la prassi, per certi versi distorsiva, sviluppatasi nel corso dei primi decenni di applicazione della disposizione costituzionale di cui all’art. 87, undicesimo comma, Cost. – alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria.
7.— L’evoluzione legislativa e della prassi appena illustrata concorre a meglio definire i rispettivi ruoli esercitati dal Presidente della Repubblica e dal Ministro Guardasigilli nel procedimento complesso che culmina nell’emanazione del decreto di concessione della grazia o di commutazione della pena.
7.1.— In particolare, una volta recuperato l’atto di clemenza alla sua funzione di mitigare o elidere il trattamento sanzionatorio per eccezionali ragioni umanitarie, risulta evidente la necessità di riconoscere nell’esercizio di tale potere – conformemente anche alla lettera dell’art. 87, undicesimo comma, Cost. – una potestà decisionale del Capo dello Stato, quale organo super partes, «rappresentante dell’unità nazionale», estraneo a quello che viene definito il “circuito” dell’indirizzo politico-governativo, e che in modo imparziale è chiamato ad apprezzare la sussistenza in concreto dei presupposti umanitari che giustificano l’adozione del provvedimento di clemenza.
Infine, si deve rilevare come l’indicata conclusione risponda ad un’ulteriore esigenza, quella cioè di evitare che nella valutazione dei presupposti per l’adozione di un provvedimento avente efficacia “ablativa” di un giudicato penale possano assumere rilievo le determinazioni di organi appartenenti al potere esecutivo.
L’esame della giurisprudenza della Corte (
sentenze n. 274 del 1990,
n. 114 del 1979,
n. 192 del 1976,
n. 204 e
n. 110 del 1974) induce a ritenere ormai consolidato l’orientamento che, con implicito riferimento al principio di separazione dei poteri, esclude ogni coinvolgimento di esponenti del Governo nella fase dell’esecuzione delle sentenze penali di condanna, in ragione della sua giurisdizionalizzazione ed in ossequio al principio secondo il quale solo l’autorità giudiziaria può interloquire in materia di esecuzione penale.
Significativa, a tale proposito, è la già citata
sentenza n. 274 del 1990 con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 589, terzo comma, del codice di procedura penale del 1930, il quale stabiliva che «nel caso previsto dall’art. 147, primo comma, n. 1, del codice penale» (presentazione della domanda di grazia), spettasse «al Ministro di Grazia e Giustizia e non al Tribunale di sorveglianza il potere di differire l’esecuzione della pena». Alla declaratoria di illegittimità della norma censurata questa Corte perveniva in base al rilievo secondo cui l’ipotesi contemplata nell’art. 147, primo comma, n. 1, del codice penale è, unitamente ad altre analoghe, «espressione d’uno stesso principio, attinente all’ingerenza del potere esecutivo, dopo la pronuncia di sentenza definitiva di condanna, in decisioni riservate all’autorità giudiziaria», e dunque evidenziando la necessità «che i residui poteri ministeriali in tema di differimento dell’esecuzione della pena detentiva» venissero, invece, «rimessi alla competenza dell’autorità giudiziaria di sorveglianza».
7.2.— Detto ciò, rimane da chiarire – ai fini della risoluzione del presente conflitto – quali siano i compiti spettanti al Guardasigilli nell’ambito dell’attività finalizzata all’adozione del provvedimento di clemenza.
In via preliminare, occorre puntualizzare che il decreto di grazia è la risultante di un vero e proprio procedimento – così è qualificato nella stessa rubrica dell’abrogato art. 595 del codice di procedura penale del 1930 – che si snoda attraverso una pluralità di atti e di fasi. Tale procedimento è stato tenuto ben presente dallo stesso legislatore costituente nel momento in cui, con l’art. 87, undicesimo comma, Cost. ha annoverato tra i poteri del Capo dello Stato quello di concedere la grazia e commutare le pene.
7.2.1.— L’analisi di tale complessa procedura deve muovere dalla lettura dell’art. 681 cod. proc. pen., il quale prevede, innanzitutto, che l’“iniziativa” – salva l’ipotesi della «proposta» proveniente dal presidente del consiglio di disciplina (comma 3) – possa essere assunta dal condannato ovvero da un suo prossimo congiunto, dal convivente, dal tutore, dal curatore, da un avvocato, che sottoscrivono la «domanda» di grazia, «diretta al Presidente della Repubblica» e «presentata» al Ministro della giustizia (comma 1).
La medesima disposizione – con un’innovazione significativa rispetto alle previgenti discipline contenute nei codici di rito penale del 1865 (artt. da 826 a 829), del 1913 (art. 592), ed infine del 1930 (art. 595) – ha, peraltro, riconosciuto espressamente la possibilità che la grazia sia «concessa anche in assenza di domanda o proposta» (art. 681, comma 4, cod. proc. pen.). In ogni caso l’iniziativa potrà essere assunta direttamente dal Presidente della Repubblica al quale da tempo si è riconosciuto tale potere.
E si è anche chiarito quanto era dato per presupposto sotto il vigore della legislazione previgente, cioè nell’esperienza costituzionale statutaria: già da allora si riteneva, infatti, che la presentazione della domanda non fosse indispensabile affinché potesse esplicarsi la prerogativa regia prevista dall’art. 8 dello Statuto, giacché altrimenti, sarebbe stata introdotta, con legge ordinaria, una limitazione incompatibile con la natura dell’istituto.
7.2.2.— Instaurato, dunque, il procedimento, la prima fase è quella dell’“istruttoria”, che ai sensi dell’art. 681, comma 2, cod. proc. pen. prevede uno svolgimento differenziato a seconda che il condannato risulti, o meno, detenuto o internato.
Nel primo caso è il magistrato di sorveglianza che, acquisiti tutti gli elementi di giudizio utili e le osservazioni del Procuratore generale presso la competente Corte di appello, provvede alla loro trasmissione al Ministro della giustizia, unitamente ad un motivato parere.
Nella seconda ipotesi è, invece, direttamente il Procuratore generale a trasmettere al Guardasigilli le opportune informazioni con le proprie osservazioni.
La prassi delle relazioni tra il Ministro e gli organi giurisdizionali ha poi portato a meglio precisare quali siano le «informazioni» e gli «elementi di giudizio» da utilizzare ai fini della determinazione circa la concessione, o meno, della clemenza nei singoli casi.
Tra tali elementi vanno ricompresi – oltre ovviamente quelli desumibili dalla sentenza di condanna, dai precedenti dell’interessato e dai procedimenti in corso a suo carico – anche le dichiarazioni delle parti lese o dei prossimi congiunti della vittima, circa il risarcimento del danno e la concessione del perdono, nonché, in relazione alla valutazione della personalità del soggetto, le informazioni inerenti alle condizioni familiari e a quelle economiche, alla condotta dell’interessato, richiedendosi, infine, per i detenuti anche l’estratto della cartella personale ed il c.d. rapporto di condotta.
7.2.3.— La valutazione di suddetti elementi, ed in particolare dei pareri espressi dagli organi giurisdizionali, è effettuata in sede ministeriale. A conclusione della istruttoria il Ministro decide se formulare motivatamente la “proposta” di grazia al Presidente della Repubblica ovvero se adottare un provvedimento di archiviazione. E delle avvenute archiviazioni è da qualche tempo data notizia periodicamente al Capo dello Stato.
7.2.4.— Se il Guardasigilli formula la “proposta” motivata di grazia e predispone lo schema del provvedimento mostra ovviamente con ciòdi ritenere sussistenti i presupposti, sia di legittimità che di merito, per la concessione dell’atto di clemenza.
Spetterà, poi, al Presidente della Repubblica valutare autonomamente la ricorrenza, sulla base dell’insieme degli elementi trasmessi dal Guardasigilli, di quelle ragioni essenzialmente umanitarie che giustificano l’esercizio del potere in esame. In caso di valutazione positiva del Capo dello Stato seguirà la controfirma del decreto di grazia da parte del Ministro, che provvederà a curare anche gli adempimenti esecutivi.
Quanto, segnatamente, alla controfirma, pur necessaria per il completamento della fattispecie, è da rilevare – in via generale – come essa assuma un diverso valore a seconda del tipo di atto di cui rappresenta il completamento o, più esattamente, un requisito di validità. È chiaro, infatti, che alla controfirma va attribuito carattere sostanziale quando l’atto sottoposto alla firma del Capo dello Stato sia di tipo governativo e, dunque, espressione delle potestà che sono proprie dell’Esecutivo, mentre ad essa deve essere riconosciuto valore soltanto formale quando l’atto sia espressione di poteri propri del Presidente della Repubblica, quali – ad esempio – quelli di inviare messaggi alle Camere, di nomina di senatori a vita o dei giudici costituzionali. A tali atti deve essere equiparato quello di concessione della grazia, che solo al Capo dello Stato è riconosciuto dall’art. 87 della Costituzione.
7.2.5.— Qualora, invece, il Ministro valuti negativamente i risultati della istruttoria effettuata e ritenga non sussistenti i necessari requisiti di legittimità e/o di merito per la concessione della grazia, l’esito della procedura può conoscere talune varianti, dipendenti dalle peculiarità delle circostanze concrete.
Innanzitutto, come si è detto, può essere disposta l’archiviazione. Ma se il Capo dello Stato abbia, a seguito della comunicazione e/o conoscenza della decisione di archiviazione, sollecitato, previa eventuale acquisizione di una apposita informativa orale o scritta (c.d. “relazione obiettiva”), il compimento dell’attività istruttoria, il Ministro non ha il potere di impedire la prosecuzione del procedimento.
Qualora, invece, l’iniziativa sia direttamente presidenziale, il Capo dello Stato può chiedere al Ministro l’apertura della procedura di concessione della grazia; anche in questo caso il Guardasigilli ha l’obbligo di iniziare e concludere la richiesta attività istruttoria, formulando la relativa proposta.
Nelle suddette ipotesi, un eventuale rifiuto da parte del Ministro precluderebbe, sostanzialmente, l’esercizio del potere di grazia, con conseguente menomazione di una attribuzione che la Costituzione conferisce – quanto alla determinazione finale – al Capo dello Stato.
In definitiva, qualora il Presidente della Repubblica abbia sollecitato il compimento dell’attività istruttoria ovvero abbia assunto direttamente l’iniziativa di concedere la grazia, il Guardasigilli, non potendo rifiutarsi di dare corso all’istruttoria e di concluderla, determinando così un arresto procedimentale, può soltanto rendere note al Capo dello Stato le ragioni di legittimità o di merito che, a suo parere, si oppongono alla concessione del provvedimento.
Ammettere che il Ministro possa o rifiutarsi di compiere la necessaria istruttoria o tenere comunque un comportamento inerte, equivarrebbe ad affermare che egli disponga di un inammissibile potere inibitorio, una sorta di potere di veto, in ordine alla conclusione del procedimento volto all’adozione del decreto di concessione della grazia voluto dal Capo dello Stato.
Il Presidente della Repubblica, dal canto suo, nella delineata ipotesi in cui il Ministro Guardasigilli gli abbia fatto pervenire le sue motivate valutazioni contrarie all’adozione dell’atto di clemenza, ove non le condivida, adotta direttamente il decreto concessorio, esternando nell’atto le ragioni per le quali ritiene di dovere concedere ugualmente la grazia, malgrado il dissenso espresso dal Ministro.
Ciò significa che, a fronte della determinazione presidenziale favorevole alla adozione dell’atto di clemenza, la controfirma del decreto concessorio, da parte del Ministro della giustizia, costituisce l’atto con il quale il Ministro si limita ad attestare la completezza e la regolarità dell’istruttoria e del procedimento seguito.
Da ciò consegue anche che l’assunzione della responsabilità politica e giuridica del Ministro controfirmante, a norma dell’art. 89 della Costituzione, trova il suo naturale limite nel livello di partecipazione del medesimo al procedimento di concessione dell’atto di clemenza.
8.— Sulla base delle considerazioni che precedono, facendo applicazione di tali principi al caso di specie, deve concludersi per l’accoglimento del ricorso proposto dal Presidente della Repubblica.
Il Ministro della giustizia, difatti, ha omesso di dar corso alla procedura per la concessione della grazia ad Ovidio Bompressi, sebbene, con nota dell’8 novembre 2004, l’odierno ricorrente abbia manifestato la propria determinazione di volere concedere il provvedimento di clemenza.
Va, pertanto, dichiarato che non spettava al Ministro della giustizia impedire la prosecuzione del procedimento volto alla adozione della determinazione presidenziale relativa alla concessione della grazia, con la conseguenza che deve essere disposto l’annullamento della impugnata nota ministeriale del 24 novembre 2004.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara, in accoglimento del ricorso, che non spettava al Ministro della giustizia di impedire la prosecuzione del procedimento volto alla adozione della determinazione del Presidente della Repubblica relativa alla concessione della grazia ad Ovidio Bompressi e, pertanto, dispone l’annullamento della impugnata nota ministeriale del 24 novembre 2004.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 maggio 2006.
Annibale MARINI, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 18 maggio 2006.