Penale.it

Google  

Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 14 dicembre 2005 (dep. 16 gennaio 2006), n. 1414/2006 (2314/2006)

 La newsletter
   gratis via e-mail

 Annunci Legali




Corte di Cassazione, Sezione III Penale, Sentenza 14 dicembre 2005 (dep. 16 gennaio 2006), n. 1414/2006 (2314/2006)
Condividi su Facebook

Versione per la stampa

Concetto di "rifiuti": stato dell'arte con questione di legittimità costituzionale

                            REPUBBLICA ITALIANA
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                        SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MAIO Guido - Presidente
Dott. ONORATO Pierluigi - Consigliere est.
Dott. MANCINI Franco - Consigliere
Dott. FIALE Aldo - Consigliere
Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
                              ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) R.U., nato a ... il ...;
2) R.V., nato a ... il ...;
avverso la sentenza resa il 10.12.2004 dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sez. Dist. di Carinola.
Vista la sentenza denunciata e il ricorso;
Udita la relazione svolta in udienza dal Consigliere Dott. Pierluigi Onorato;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Passacantando Guglielmo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
Osserva:
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1 - Con sentenza del 10/12/2004 il Tribunale monocratico di S. Maria Capua Vetere, Sezione Distaccata di Carinola, dichiarava i fratelli U. e R.V. colpevoli del reato continuato di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 1, perche', il  primo quale legale rappresentante del caseificio "...", e il secondo quale titolare dell'omonima azienda zootecnica, avevano smaltito e trasportato, in tempi diversi, rifiuti non pericolosi senza la prescritta autorizzazione; in Riardo sino al 14/11/2000.
Per l'effetto il Tribunale condannava gli imputati alla pena di 5.000 Euro di ammenda ciascuno, col beneficio della   sospensione condizionale.
In linea di fatto il giudice accertava che il suddetto caseificio aveva venduto piu' volte il siero di latte derivante dalla  propria attivita' produttiva all'azienda zootecnica di R.V., il quale lo destinava ad alimento per le bufale.
In linea di diritto osservava in sostanza:
- che il siero di latte in questione era qualificabile come rifiuto, in quanto residuo del processo di lavorazione dei prodotti caseari;
- che la norma interpretativa di cui alla L. n. 178 del 2002, art. 14, laddove restringe la nozione comunitaria di rifiuto, recepita nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, espungendone i residui di produzione riutilizzabili, senza pregiudicare l'ambiente, nello stesso o in diverso ciclo produttivo senza trattamento preventivo o con trattamento preventivo non recuperatorio, doveva essere disapplicata, appunto perche' contraria al diritto comunitario, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea (in particolare con la sentenza Niselli dell'11/11/2004);
- che pertanto la condotta contestata agli imputati era penalmente rilevante in base alla normativa di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, anche dopo l'entrata in vigore del predetto art.14, che doveva considerarsi tamquam non esset dopo  l'emanazione della suddetta sentenza 11/11/2004 della Corte di Giustizia.
2 - Avverso la condanna ha proposto ricorso per cassazione il difensore di entrambi gli imputati, deducendo due motivi a sostegno.
2.1 - Col primo lamenta in sostanza erronea applicazione del D.Lgs. n.22 del 1997, art. 51, nonche' mancanza o manifesta illogicita' di motivazione sul punto, giacche' i cd. scarti alimentari - come il siero di latte - devono considerarsi materie prime destinate all'alimentazione animale e non rifiuti.
Chiede comunque la declaratoria di prescrizione del reato.
2.2 - Col secondo motivo denuncia difetto di motivazione in ordine alla quantificazione della pena.
                       MOTIVI DELLA DECISIONE
3 - Va anzitutto precisato che la fattispecie de qua non e' sussumibile nella disciplina di cui al D.Lgs. 14 dicembre  1992, n.508 (che ha attuato la direttiva 90/667/CEE in materia di norme sanitarie per la eliminazione, la trasformazione e l'immissione sul mercato di rifiuti di origine animale) e al Reg. CE 03/10/2002 n. 1774 (recante norme sanitarie relative ai sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano), che ha espressamente abrogato la predetta direttiva CEE 90/667.
Infatti la condotta contestata agli imputati consisteva nel trasporto e nello smaltimento del siero di latte derivante dal  processo produttivo di un caseificio, mentre entrambe le normative succitate prevedono norme di polizia sanitaria e veterinaria per il trasporto, la trasformazione, l'uso o l'eliminazione di rifiuti (D.Lgs. n.508 del 1992, art. 1) o sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano (art.1 Reg. CE 1774/2002).
E' chiaro che il latte cessa di essere un sottoprodotto di origine animale quando viene impiegato come materia prima nella produzione casearia, e che il siero di latte che residua da questa produzione va qualificato come rifiuto speciale D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, ex art. 7, senza che possa (piu') definirsi di origine animale.
Manca quindi qualsiasi presupposto ex art.8 D.Lgs. n. 22/1997 per escludere dal regime generale dei rifiuti il siero di  latte derivante dalla produzione casearia, non soltanto perche' la polizia sanitaria e veterinaria, oggetto del D.Lgs. n. 508 del 1992 e del Reg. CE 1774/2002, e' eterogenea, e non speciale, rispetto alla disciplina ambientale della gestione dei rifiuti (come ritiene Cass. Sez. 3^, n. 8520 del 04/03/2002, Leuci), quanto piuttosto perche' l'oggetto della disciplina (il citato siero di latte) non rientra in nessuna delle categorie che il predetto art.8 esclude dalla disciplina  generale dei rifiuti (e in particolare non rientra nella categoria delle carogne o dei rifiuti di origine animale).
Va pertanto disatteso il primo motivo di ricorso (n. 2.1).
4 - Va anche respinta la richiesta di dichiararsi estinto il reato per prescrizione.
Infatti, al periodo prescrizionale stabilito dagli artt. 157 e 160 c.p., va aggiunto il periodo in cui il processo e' rimasto  sospeso per impedimento dell'imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta, sempre che questa non sia dettata da esigenze istruttorie o di termine a difesa (Cass. Sez. Un. n.1021 dell'11/01/2002, Cremonese, rv. 220509).
Nel caso di specie, al periodo di quattro anni e mezzo (che scadeva il 14/05/2005) va aggiunto il periodo di sette mesi e nove giorni per la sospensione del processo (dal 25/09/2003 al 28/04/2004 e dal 03/12/2004 al 10/12/2004), sicche' la prescrizione maturera' solo il 23/12/2005.
Nella materia e' recentemente intervenuta la L. 5 dicembre 2005, n. 251 (entrata in vigore l'08/12/2005), la quale, con l'art. 6:
a) modificando l'art. 157 c.p., ha aumentato a quattro anni il tempo di prescrizione ordinaria per tutte le contravvenzioni;
b) modificando l'art. 159 c.p., ha codificato il principio stabilito dalla suddetta sentenza Cremonese in tema di sospensione processuale per impedimento delle parti o dei difensori, stabilendo pero' che la sospensione non puo' durare piu' di sessanta giorni oltre la cessazione dell'impedimento;
c) modificando gli artt. 160 e 161 c.p., ha stabilito che in caso di interruzione della prescrizione, i termini prescrizionali non possono essere prolungati oltre il quarto per gli imputati che non siano recidivi specifici o infraquinquennali, delinquenti abituali o professionali.
Alla stregua della novella, nel caso di specie, il periodo prescrizionale ordinario sarebbe scaduto il 14/11/2005, ma si sarebbe dovuto prolungare di almeno 67 giorni per le succitate sospensioni processuali intervenute, arrivando cosi' al 20/01/2006.
Tuttavia, per effetto della norma transitoria di cui all'art.10 c.p., comma 2, la disciplina del predetto art. 6 cit., non si applica ai processi in corso, trattandosi di un reato e di una vicenda processuale per cui i termini di prescrizione risultano piu'  lunghi di quelli previgenti.
5.1 - In ordine alla qualificazione giuridica del fatto, la sentenza impugnata ha colto nel segno laddove ha ritenuto che  il siero di latte residuato dal processo produttivo del caseificio di U.R. rientrava nella categoria dei rifiuti speciali, di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6 e 7, e che la cessione e il trasporto del siero, senza alcuna autorizzazione, dal predetto  caseificio all'azienda zootecnica di R.V., integrava il reato di cui all'art.51 dello stesso decreto legislativo (in senso conforme v. Cass. sez. 3^, n. 33295 del 02/08/2004, Cioffi, rv. 229011).
La sentenza e' incorsa invece in errore giuridico laddove ha ritenuto che la norma interpretativa di cui al D.L. 8 luglio 2002, n.138, art. 14, convertito in L. 8 agosto 2002, n. 178, in quanto restringe indebitamente la nozione comunitaria  di rifiuto, debba essere direttamente disapplicata (rectius non applicata) dal giudice nazionale.
5.2 - Che la norma dell'art. 14 c.p., pur autoqualificandosi come interpretativa, modifichi in senso restrittivo la nozione di rifiuto precisata dal D.Lgs. n.22 del 1997, art. 6, e quindi sia incompatibile con la nozione di rifiuto stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, di cui la disposizione nazionale e' sostanzialmente la riproduzione, e' indubbio, ed e' riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza pressoche' unanimi.
Invero, per il D.Lgs. n.22 del 1997, art. 6 e per l'art.1 della direttiva 75/442/CEE costituisce rifiuto qualsiasi sostanza   od oggetto che rientra in una delle sedici categorie elencate in allegato di cui il detentore "si disfi" o abbia deciso o abbia l'obbligo di "disfarsi". 
L'elenco delle categorie, di cui all'allegato A, e' un elenco "aperto", perche' la prima categoria (Q1) comprende tutti i residui di produzione o di consumo in appresso non specificati, e la sedicesima (Q16) qualunque sostanza, materia o
prodotto che non rientri nelle altre categorie.
La L. n.178 del 2002, art.14, invece, nel suo comma 1, identifica il concetto di "disfarsi" con quello di smaltimento o di recupero, stabilendo che le parole "si disfi" devono essere interpretate come qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo diretto o indiretto una sostanza, un  materiale o un bene sono avviati o sottoposti ad attivita' di smaltimento o di recupero, secondo gli allegati B e C del D.Lgs. n. 22 del 1997.
Attraverso questa identificazione, pero', la norma sedicente interpretativa restringe la nozione comunitaria di rifiuto,
escludendone ogni sostanza o materiale di cui il detentore "si disfi" mediante semplice "abbandono", posto che nella direttiva comunitaria e nel D.Lgs. n. 22 del 1997 l'abbandono e' nettamente distinto dallo smaltimento e a maggior ragione dal recupero (per il diritto nazionale v. D.Lgs. n.22 del 1997, art. 14, su cui Cass. Sez. 3^, sent. n. 21024 del 05/04/2004, Eoli, rv. 229225-6; per il diritto comunitario v. art.4, comma 2, direttiva 75/442/CEE, su cui C. Giustizia,  Sez. 2^, dell'11/11/2004, causa C-457/02, Niselli, par. 38, 39 e 40). 
In sostanza, secondo il diritto comunitario e il legislatore nazionale del 1997, ci si puo' disfare di un rifiuto, con l'obbligo di sottostare alla relativa disciplina, non solo avviandolo allo smaltimento o al recupero, ma anche semplicemente abbandonandolo; secondo il legislatore nazionale del 2002, invece, chi abbandona una sostanza rientrante nelle anzidette categorie di rifiuti e' esente dalla disciplina imposta in materia per assicurare la tutela della salute pubblica e della qualita' ambientale.
Ma dove la norma dell'art. 14 cit. assume una portata ancor piu' socialmente innovativa e' nel comma 2, in forza del  quale non ricorrono le fattispecie della decisione di "disfarsi" e dell'obbligo di "disfarsi" ove si tratti di sostanze e materiali residuali di produzione o di consumo che "possono essere e sono effettivamente e oggettivamente utilizzati nel medesimo o in analogo ciclo  produttivo o di consumo": a) "senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare pregiudizio all'ambiente"; ovvero b) "dopo aver subito un trattamento preventivo senza che si renda  necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle individuate nell'allegato C del D.Lgs. n. 22".
Invero, secondo la definizione comunitaria di rifiuto, letteralmente trasfusa del D.Lgs. n.22 del 1997, art. 6, un residuo di produzione o di consumo di cui il detentore abbia deciso o abbia l'obbligo di "disfarsi" costituisce sempre rifiuto. Per l'art. 14 cit., invece, questo residuo perde la qualita' di rifiuto se e' o puo' essere oggettivamente utilizzato tal quale nel medesimo o in analogo ciclo di produzione o di consumo, o piu' esattamente se e' riutilizzato senza trattamenti preventivi e senza pregiudizio per l'ambiente ovvero con trattamenti preventivi che non comportino operazioni di recupero (per esempio attraverso atti di prelievo, cernita, separazione, compattamento, frantumazione, vagliatura o  macinatura, che non implicano una trasformazione merceologica o chimica dei materiali).
E' quindi innegabile che anche sotto questo profilo l'art. 14 cit. restringe la nozione comunitaria di rifiuto, giacche' per il diritto comunitario la volonta' o l'obbligo di "disfarsi" di un residuo di produzione o di consumo costituisce quest'ultimo come rifiuto, mentre per la norma nazionale sedicente interpretativa quel residuo diventa semplice materia prima ove ricorra la condizione della sua attuale o potenziale riutilizzazione.
Concludendo, l'art.14 cit. ha introdotto una doppia deroga alla definizione comunitaria di rifiuto, sia laddove ha identificato l'attivita' di "disfarsi" della sostanza con quella di smaltimento o di recupero della medesima (escludendo  cosi' l'attivita' di abbandono), sia laddove ha escluso la volonta' o l'obbligo di "disfarsi" di residui di produzione o di consumo quando questi sono o possono essere riutilizzati tal quali senza trattamenti recuperatori e senza pregiudizio per l'ambiente. In tal modo ha esonerato dal controllo amministrativo e dalla disciplina sui rifiuti attivita' con
cui il detentore si disfa di residui di produzione o di consumo, creando pericolo per l'ambiente.
Il produttore ha inteso "disfarsi" del residuo per commercializzarlo o comunque cederlo ai terzi per la riutilizzazione.
6.2 - La sentenza Niselli e' stata emessa ai sensi dell'art. 234 (ex art.177) del Trattato CE e quindi si e' limitata a interpretare la norma del diritto comunitario che definisce la nozione di rifiuto; mentre solo procedendo ex art. 226 c.p. (ex art. 169 c.p.), in esito alla procedura di infrazione attivata dalla Commissione, avrebbe potuto direttamente interpretare la norma nazionale denunciata come lesiva degli obblighi comunitari.
I diversi poteri della Corte di Giustizia nell'ambito delle diverse procedure sono chiaramente enunciati dalla stessa Corte, che ha avuto modo di chiarire il principio secondo cui essa "non puo', ai sensi dell'art. 177 ora art. 234 del Trattato, statuire sulla validita' di una norma di diritto interno con riguardo al diritto comunitario, come le sarebbe consentito fare nell'ambito di un ricorso ex art. 169 (ora art.226) del trattato CE"; peraltro "essa e' tuttavia competente a fornire al giudice nazionale tutti gli elementi di interpretazione, che rientrano nel diritto comunitario, atti a  consentirgli di pronunciarsi su tale compatibilita" (sentenza Tombesi citata del 25/06/1997, par. 36).
Si puo' quindi concludere che la sentenza Niselli, pur non interpretando direttamente il D.L. 8 luglio 2002, n. 138,  art.  14, offre al giudice italiano elementi ermeneutici precisi per ritenere tale norma indiscutibilmente incompatibile col diritto comunitario.
7.1 - Resta ora da esaminare quale strumento giuridico sia esperibile per rimediare a questo innegabile vulnus che il D.L. 8 luglio  2002, n.138, art. 14, ha recato al diritto comunitario.
Al riguardo, la sentenza impugnata e alcune pronunce di questa Corte hanno sostenuto la necessita' della disapplicazione (rectius non applicazione) della norma nazionale in forza della prevalenza e immediata applicabilita' del diritto comunitario (Sez. 3^, n.2125 del 17/01/2003, Ferretti, rv. 223291; Sez. 3^, n.14762 del 09/04/2002, Amadori, rv.221573; Sez. 3^, n. 17656  del 15/04/2003, Gonzales e altro, rv. 224716).
Un altro orientamento, che appare prevalente, sostiene invece che l'art.14 cit. e' vincolante per il giudice italiano  giacche' la direttiva comunitaria sui rifiuti non e' autoapplicativa (self- executing) in quanto necessita di atto di recepimento da parte dello Stato nazionale (Sez. 3^, n. 4052 del 29/01/2003, Passerotti, rv. 223532; Sez. 3^, n. 4051 del 29.1.2003, Ronco, rv. 223604; Sez. 3^, 9057 del 26.2.2003, Costa, rv. 224172; Sez. 3^, n. 13114 del 24.3.2003,  Mortellaro, rv. 224721; Sez. 3^, n. 32235 del  31.7.2003, Agogliati e altri, rv. 226156; Sez. 3^, n. 38567 del 19.10.2003,  De Fronzo, rv. 226574).
7.2 - Le succitate sentenze Ferretti e Amadori, stilate peraltro dallo stesso relatore, riconoscono che la direttiva 75/442/CEE, come modificata dalla direttiva 91/156/CEE, non ha efficacia diretta nell'ordinamento nazionale, ma  sostengono ugualmente la diretta applicabilita' della nozione comunitaria di rifiuti, in base al fatto che essa e' stata richiamata dal regolamento comunitario n.259/1993, che ha indubbiamente carattere self-executing.
Ma tale singolare argomento, benche' condiviso da qualche autore, non puo' accettarsi. 
Invero, il Reg. CEE del 1.2.1993 n.259/1993, "relativo alla sorveglianza e al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno della Comunita' Europea, nonche' in entrata e in uscita dal suo territorio", all'art. 2, lett. a) stabilisce che "ai
sensi del presente regolamento" si intendono per rifiuti "i rifiuti quali definiti nell'art. 1 lettera a) della direttiva  75/442/CEE".
Orbene, e' sufficiente osservare come la norma del regolamento, che come tale e' direttamente applicabile nell'ordinamento italiano, recepisca la nozione di rifiuto definita dalla direttiva 75/442/CEE soltanto ai fini della specifica materia disciplinata dal regolamento, ovverosia limitatamente alle spedizioni di rifiuti, che a scopo di sorveglianza devono essere previamente notificate e munite di un documento di accompagnamento.
Questa nozione "regolamentare" quindi non e' direttamente applicabile ne' per l'attivita' di abbandono ne' per tutte le  attivita' di gestione dei rifiuti elencate nel D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6, lett. g), che sono ben diverse dall'attivita' di spedizione: e cioe' raccolta, trasporto, recupero e smaltimento.
Anche una risalente sentenza della Corte di Giustizia ha avuto modo di stabilire che la nozione "regolamentare" di rifiuti, "che e' stata istituita al fine di garantire che i sistemi nazionali di sorveglianza e controllo delle spedizioni di rifiuti rispettino criteri minimi, si applica direttamente anche alle spedizioni di rifiuti all'interno di qualsiasi Stato membro"; ma non ha affatto esteso la diretta applicabilita' della nozione alle altre tradizionali attivita' di gestione o all'attivita' di abbandono, comunque diverse dalla spedizione (C.G., 6^ Sez., sent. del 25.6.1997, Tombesi e altri, v. mass. e parr. 44. 45 e 46).
Non si puo' quindi parlare a tale riguardo di una novazione della fonte del diritto comunitario (da direttiva a regolamento) in senso generale e illimitato.
Inoltre, come e' stato opportunamente sottolineato in dottrina, l'argomento da una parte non e' stato mai considerato  dalla stessa Corte lussemburghese, che, chiamata piu' volte a interpretare in via pregiudiziale la nozione comunitaria di rifiuto, ha sempre focalizzato il suo esame solo sulla direttiva 75/442, come modificata dalla direttiva 91/156; dall'altra non e' stato utilizzato neppure dalla Commissione UE nella menzionata procedura di infrazione aperta contro lo Stato italiano, quanto meno per informare il nostro Governo che il tentativo di restringere la nozione di rifiuto era del tutto
velleitario, attesa la immediata applicabilita' nell'ordinamento nazionale del Reg. 259/93/CEE.
In conclusione, si tratta di argomento che appare ormai abbandonato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, le quali non mettono piu' in discussione la inapplicabilita' diretta della nozione comunitaria di rifiuto (al di fuori della materia delle spedizioni disciplinata dal menzionato regolamento).
7.3 - L'orientamento giurisprudenziale minoritario, pur dando per scontato il carattere non autoapplicativo della direttiva 75/444/CEE, modificata dalla direttiva 91/156/CEE, giunge ugualmente a non applicare il D.L. n. 138 del 2002, art.14, in base all'argomento che, in ossequio al principio della prevalenza del diritto comunitario, sia originario, sia derivato, il giudice nazionale deve comunque dare applicazione alle sentenze della Corte di Giustizia Europea, che a piu' riprese hanno offerto una interpretazione della nozione comunitaria di rifiuto contrastante con quella risultante dall'art.14 cit.: in particolare devono dare attuazione alla citata sentenza Niselli, che espressamente ha statuito la  incompatibilita' comunitaria di quest'ultima norma.
Ma anche questo argomento, apparentemente convincente, non e' accoglibile. 
A rigore, la pronuncia della Corte di Giustizia che precisa o integra il significato di una norma comunitaria ha la stessa   efficacia di quest'ultima, sicche' la pronuncia e' direttamente ed immediatamente efficace nell'ordinamento nazionale se
e in quanto lo sia anche la norma interpretata.
In tal senso e' l'insegnamento costante della Corte Costituzionale.
Basti ricordare la sentenza 11.7.1989 n. 389 in cui la Consulta, trattando del principio di applicazione diretta di norme comunitarie immediatamente efficaci nel diritto interno, ha avuto modo di precisare che "quando questo principio viene riferito ad una norma comunitaria avente effetti diretti (...) non v'e' dubbio che la precisazione o l'integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa immediata efficacia delle disposizioni interpretate".
Invero, nei casi in cui la Corte lussemburghese ha interpretato il significato di una norma comunitaria direttamente efficace in modo tale che una norma del diritto nazionale risulti incompatibile con essa, il giudice nazionale non deve piu' applicare la norma interna per la definizione dalla controversia al suo esame (senza poter sollevare questione di costituzionalita': v. Corte Cost. n. 94/1995).
Nei casi invece in cui la Corte lussemburghese ha interpretato una norma comunitaria priva di efficacia diretta in modo  tale che una norma interna risulti incompatibile con la prima, il giudice italiano non ha altra scelta che applicare la norma interna o sollevare sulla stessa l'eccezione di illegittimita' costituzionale per violazione degli obblighi dello Stato italiano di conformarsi al diritto comunitario, consacrati negli artt. 11 e 117 Cost. (e' implicitamente in tal senso anche la recente sentenza n. 85/2002 Corte Cost.).
7.4 - Piu' di recente, un'altra pronuncia di legittimita', seguendo il principio indicato dalla Corte costituzionale con sent. 190/2000, ha correttamente sostenuto la necessita' per il giudice italiano di interpretare la normativa nazionale in termini tali che essa non risulti in contrasto con la normativa comunitaria (Cass. Sez. 3^, n.746 del 1.6.2005, Colli).
A questa stregua, ha ritenuto, sulla scia della citata sentenza Niselli, che l'art. 14 cit. in questione non contrasta con la nozione comunitaria di rifiuto solo laddove esclude dall'ambito della relativa disciplina i cd. sottoprodotti, cioe' quei
residui di produzione (esclusi i residui di consumo) dei quali il produttore non abbia intenzione di disfarsi e che siano riutilizzati in modo certo, senza previa trasformazione, nell'ambito dello stesso processo produttivo.  
I "sottoprodotti", infatti, in quanto riutilizzati nello stesso ciclo produttivo come materie  prime, non presentano rischi  per l'ambiente, sicche' per essi non ha ragion d'essere applicare la disciplina dei rifiuti.
La fattispecie dedotta nel presente processo, pero', esula da ogni possibile interpretazione adeguatrice, giacche' il  siero di latte residuato dalla produzione casearia veniva trasportato e ceduto a un'altra azienda, esercente attivita' zootecnica, che lo destinava ad alimento per gli animali.
Alla luce del diritto comunitario, come autoritativamente interpretato dalla Corte di Giustizia Europea, non poteva  quindi classificarsi come "sottoprodotto", ma era invece un vero e proprio rifiuto di cui il produttore si disfaceva perche'
fosse riutilizzato tal quale in altro processo produttivo.
Per la norma nazionale di cui si discute, invece, il siero di latte prodotto nel caseificio e riutilizzato in diversa azienda zootecnica resta indiscutibilmente escluso dalla nozione di rifiuto, e non vi puo' rientrare in forza di una interpretazione adeguatrice. 
Esso resta percio' sottratto alla disciplina sui rifiuti, in palese contrasto col diritto comunitario.
8 - L'unico rimedio possibile per rimediare al vulnus perpetrato da una legge nazionale contro una direttiva comunitaria non direttamente applicabile e', quindi, il ricorso al giudice delle leggi.
Invero, la norma in questione, escludendo dalla categoria dei rifiuti i residui di produzione o di consumo che siano  semplicemente abbandonati dal produttore o dal detentore, ovvero che siano riutilizzati in qualsiasi ciclo produttivo o di consumo senza trattamento recuperatorio, si pone in insanabile contrasto con la nozione di rifiuti stabilita dalla direttiva comunitaria 75/442/CE, modificata dalla direttiva 91/156/CE e dalla decisione della Commissione 96/350/CE.
Nel caso di specie, quindi, va sollevata d'ufficio questione di legittimita' costituzionale del D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art.14, convertito in L. 8 agosto 2002, n. 178, perche' in contrasto:
a) con l'art.  11  Cost., laddove questo stabilisce  che lo Stato italiano deve osservare la limitazione di sovranita' derivante dalla sua partecipazione a ordinamenti internazionali, quale quello della Comunita' Europea;
b) nonche', ancor piu' esplicitamente, con il novellato art. 117 Cost., che nel suo primo comma impone allo Stato di esercitare la sua potesta' legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario.
L'ipotizzato vulnus comunitario e costituzionale appare tanto piu' grave in quanto, dopo che la Commissione di Bruxelles aveva aperto la menzionata procedura di infrazione, e poco dopo che la Corte di Giustizia Europea aveva emanato la citata sentenza Niselli, il legislatore nazionale, con la L. 15 dicembre 2004, n. 308 (delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione),
ha ribadito la sua volonta' normativa al riguardo, stabilendo all'art. 1 c.p., comma 26: "Fermo restando quanto disposto dal D.L. 8 luglio 2002, n. 138, art. 14, convertito, con modificazioni, dalla L. 8 agosto 2002, n. 178...".
La non manifesta infondatezza della questione risulta dalle considerazioni svolte in precedenza, secondo le quali la norma denunciata e' incompatibile (nei limiti anzidetti) con il diritto comunitario e per conseguenza lede gli obblighi costituzionali di adeguamento all'ordinamento comunitario stesso.
9.1 - Dalle considerazioni precedenti risulta altresi' evidente la rilevanza della questione, atteso che il processo non  puo' essere definito prescindendo dall'applicabilita' del denunciato art. 14 cit. e quindi dalla risoluzione della relativa eccezione di illegittimita' costituzionale.
Se la norma resistesse al vaglio di costituzionalita', infatti, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio perche' il fatto non e' piu' previsto dalla legge come reato, avendo l'art. 14 cit. sottratto alla disciplina dei rifiuti il siero di latte riutilizzato senza trattamenti preventivi in altro ciclo produttivo.
Se invece la norma fosse dichiarata costituzionalmente illegittima e quindi inapplicabile al caso di specie, al giudice a quo si aprirebbe la  duplice  possibilita' di rigettare il ricorso, con la conferma della condanna degli imputati, o di annullare senza rinvio la sentenza impugnata per difetto dell'elemento soggettivo della contravvenzione contestata, avendo gli imputati fatto affidamento incolpevole sulla portata normativa di una disposizione (l'art.14 cit.) successivamente caducata dall'ordinamento.
Nella prima, ma - sia pur in misura minore - anche nella seconda ipotesi, la sentenza di accoglimento della Corte Costituzionale avrebbe un effetto in malam partem.
Emerge qui il noto problema del sindacato di costituzionalita' sulle norme penali di favore, cioe' delle norme che, per  determinati soggetti o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo precedenti disposizioni incriminatrici.
Tale appare indubbiamente la norma dell'art. 14 cit., giacche' essa si configura come disposizione extrapenale integratrice della fattispecie penale di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, artt.6 e 51, che, "restringendo" l'ampiezza dell'oggetto materiale del reato (i rifiuti), finisce per derogare o abrogare parzialmente, ovvero modificare in senso  favorevole al reo, la precedente norma incriminatrice.
9.2 - Com'e' noto, muovendo dalla considerazione che l'eventuale accoglimento della eccezione di illegittimita' costituzionale della norma penale piu' favorevole non potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio di irretroattivita' di cui all'art. 25  Cost., comma 2, e all'art. 2 cod. pen., comma 1, si e' tratta in passato la conclusione che le eccezioni di incostituzionalita' delle norme penali di favore sono "tipicamente" irrilevanti, con la conseguenza   che dette norme restano sottratte al controllo costituzionale.
Peraltro, occorre al riguardo precisare che nel caso di specie il fatto contestato e' stato commesso sino al 14.11.2000, cioe' sotto il vigore della norma incriminatrice di cui al D.Lgs. n.22 del 1997, artt.6 e 51, sicuramente conformi al diritto comunitario, e prima dell'entrata in vigore del D.L. n.138 del 2002, art.14, che, escludendo alcune categorie di rifiuti, ha ridotto l'area del penalmente illecito, in contrasto col diritto comunitario.
Orbene, e' doveroso osservare che in un caso siffatto, se la Corte dichiarasse costituzionalmente illegittima la norma piu' favorevole di cui all'art.14 cit., la conferma della responsabilita' degli imputati in base alle norma piu' sfavorevole di cui ai suddetti artt. 6 e 51:
a) non violerebbe il principio di irretroattivita' di cui al secondo comma dell'art. 25 Cost., posto che la norma dell'art. 51 era entrata in vigore prima del fatto contestato;
b) non violerebbe neppure il principio di retroattivita' dell'abolitio criminis di cui all'art.2 cod. pen., comma 2, giacche' la norma dell'art.14 cit., entrata in vigore dopo il fatto, con l'effetto di depenalizzarlo attraverso l'abrogazione parziale dell'art.6 D.Lgs. n. 22 del 1997, non potrebbe essere applicata proprio in quanto resa inefficace dalla pronuncia di
illegittimita' costituzionale: in altri termini, la retroattivita' della norma parzialmente depenalizzatrice non potrebbe operare per la caducazione della norma stessa dall'ordinamento.
Questa conclusione e' indubbiamente in linea con la nota sentenza 51/1985 della Consulta, che ha dichiarato la illegittimita' costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 2 cod. pen., nella parte in cui prevedeva la retroattivita' ai fatti pregressi della norma penale favorevole contenuta in un decreto legge non convertito, per contrasto con l'art.77 Cost., ultimo comma, (secondo cui i decreti legge non  convertiti perdono efficacia sin dall'inizio).
Esaminando il  problema se il principio di irretroattivita' della norma penale sfavorevole fosse d'ostacolo al risultato  normativo derivante dalla pronuncia di illegittimita' costituzionale, la Corte ha precisato che detto principio sarebbe  applicabile soltanto per i fatti "concomitanti", commessi cioe' sotto il vigore del decreto legge non convertito, ma non  per i fatti "pregressi", commessi cioe' prima che il decreto legge entrasse in vigore.
Anche nel presente processo il fatto e'  "pregresso"  e non gia' "concomitante" rispetto al periodo di vigenza della norma penale di favore.
9.3 - Comunque, il problema e' ora risolto dalla sentenza 148/1983, che ha argomentato la rilevanza e l'ammissibilita' delle questioni di illegittimita' costituzionale sulle norme penali di favore in base al
duplice argomento secondo cui l'accoglimento  della  questione: 
a) verrebbe comunque a incidere sulle formule di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e si rifletterebbe sullo schema argomentativo della relativa motivazione;
b) avrebbe comunque un "effetto di sistema" la cui valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale. E cio' perche', senza vanificare la garanzia dell'art. 25 Cost., anche le norme penali di favore devono sottostare al sindacato di costituzionalita', "a pena  di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione, all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile".
Questo approdo ermeneutico non e' scalfito dalle numerose statuizioni della Consulta che hanno ribadito l'inammissibilita' delle sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25 Cost., comma 2, stante la strutturale diversita' delle due ipotesi.
Infatti, quando e' dedotta la questione di costituzionalita' di una norma penale di favore, la sentenza di accoglimento  ha carattere ablativo della deroga oggettiva o soggettiva introdotta, con l'effetto di ripristinare la piena portata normativa di una norma incriminatrice preesistente.
Al contrario, la sentenza additiva di accoglimento (che dichiara incostituzionale la norma sospettata "nella parte in cui non prevede" etc.) ha l'effetto di creare ex novo una norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie penale esistente, usurpando in entrambi i casi una prerogativa spettante alla discrezionalita' del legislatore. (Diverso sembra il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un  meccanismo di tipo ablatorio, il giudice delle leggi, in forza del  principio di uguaglianza, ha esteso il reato di bestemmia della divinita' anche a tutela delle religioni non cattoliche, creando cosi' una nuova figura di reato, che pero' non era applicabile al fatto contestato nel processo a quo).
Per diversa ragione l'approdo della sentenza 148/1983 non appare intaccato neppure dalla recente sent. 161/2004 Corte Cost., la quale ha escluso la possibilita' di estendere l'ambito  di applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 2621 cod. civ. (false comunicazioni sociali), come sostituito dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n.61, art. 1 attraverso la rimozione delle soglie minime di punibilita' ivi  previste. 
Qui infatti la Corte ha escluso la  possibilita' di ampliare o aggravare la figura di un reato gia' esistente attraverso la  "demolizione" delle soglie di punibilita', sul rilievo che queste soglie integrano requisiti essenziali di tipicita' del fatto  ovvero condizioni di punibilita', e cioe' sono comunque "un elemento che "delimita" l'area d'intervento della sanzione prevista dalla norma incriminatrice, e non gia' "sottrae" determinati fatti all'ambito di applicazione di altra norma, piu' generale".
Tale essendo la ratio decidendi, essa non puo' essere applicata ai casi - come quello presente - in cui la norma denunciata per incostituzionalita' e' una norma  penale di favore, la quale "sottrae" determinate ipotesi (nel caso  specifico, la gestione dei residui di produzione utilizzati in altri cicli produttivi) a una norma incriminatrice generale (gli
artt.6 e 51 D.Lgs.). 
In altri termini, facendo cadere per incostituzionalita' l'art.14 cit. si ripristinerebbe la portata originaria di una norma   incriminatrice gia' presente nell'ordinamento, che l'art.14 cit. aveva parzialmente derogato; facendo cadere le soglie di punibilita' previste nell'art. 2621 c.p., invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al di la' dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.
9.4 - Analogo problema si e' presentato alla Corte di Giustizia Europea, chiamata a interpretare la nozione comunitaria  di rifiuto dal giudice del processo Niselli, posto che la sua ricostruzione ermeneutica poteva avere effetti tali da entrare in rotta di collisione con il principio di legalita' e irretroattivita' dei reati e delle pene, che e' ritenuto parte integrante anche del diritto comunitario.
Al riguardo la sentenza Niselli, premesso che "una direttiva non puo' avere l'effetto, di per se' e indipendentemente da  una norma giuridica di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o di aggravare la responsabilita' penale di coloro che agiscono in violazione delle sue disposizioni", preso atto che il fatto contestato all'imputato era stato commesso sotto il vigore delle disposizioni incriminatrici di cui al D.Lgs n. 22 del 1997, e prima  dell'entrata in vigore del D.L. n. 138 del 2002, art. 14, ha concluso che non vi era "motivo di esaminare le conseguenze  che potrebbero discendere dal principio di legalita' delle pene per l'applicazione della direttiva 75/442" (parr. 29 e 30).
Non occorre qui sottolineare l'analogia fattuale tra il caso Niselli e il caso presente riguardo al rapporto tra tempus commissi delicti e successione delle leggi penali nel tempo. 
Diverso e' il caso affrontato piu' di recente dalla stessa Corte Europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la questione se il trattamento  sanzionatorio  piu' favorevole previsto dai novellati artt.2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori) cod. civ. fosse o meno
adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
La sentenza ha osservato che il principio dell'applicazione retroattiva della pena piu' mite fa parte integrante delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e dei principi generali del diritto comunitario (parr. 68 e 69); e ha concluso che "la prima direttiva sul diritto societario non puo' essere invocata in quanto tale dalle autorita' di uno Stato membro nei confronti di imputati nell'ambito di procedimenti penali, poiche' una direttiva non puo' avere come effetto, di per se' e indipendentemente da una legge interna di uno Stato membro adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilita' penale degli imputati" (par.78 e dispositivo).
Basti rilevare in  proposito che, nel caso esaminato dalla Corte Europea, ne' gli originari artt. 2621 e 2622 cod. civ., che
prevedevano un trattamento sanzionatorio piu' severo, e sotto la vigenza dei quali erano stati commessi i reati contestati, ne' i nuovi artt.2621 e 2622 cod. civ., che hanno introdotto un trattamento penale piu' mite, costituiscono attuazione di direttive comunitarie; sicche' si comprende l'affermazione secondo cui una direttiva comunitaria, per se stessa e senza la mediazione di leggi nazionali di attuazione, non possa determinare o aggravare una responsabilita' penale nella soggetta materia.
Mentre nel caso della disciplina sui rifiuti, la direttiva comunitaria e' stata trasposta nell'ordinamento nazionale attraverso il D.Lgs. n. 22 del  1997, che ha previsto in aggiunta un sistema sanzionatorio a presidio della disciplina  stessa, sicche' ne' la previsione della responsabilita' penale, ne' la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva
comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dal D.Lgs. n.22 del 1997, art. 51, e la seconda dal D.L. n. 138 del 2002, art.14. 
Nella presente  vicenda processuale, quindi, non puo' farsi ricorso al principio statuito nella suddetta sentenza comunitaria del 3.5.2005, proprio perche' presupposto di questo principio e' la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva comunitaria.
9.5 - Per tutte queste ragioni non sembra dubitabile la rilevanza della dedotta questione. 
A conforto di questa tesi, peraltro, militano le numerose sentenze di questa Corte, che, proprio in materia di rifiuti, hanno dichiarato la illegittimita' costituzionale di varie leggi regionali che avevano depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato di rifiuti tossici e nocivi (n.306/1992; n.437/1992; n.194/1993) o l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o che avevano escluso dagli impianti di smaltimento di rifiuti gli impianti di depurazione per conto terzi di rifiuti liquidi, cosi' esonerando la loro gestione dall'obbligo di autorizzazione (sent. 173/1998).
Qui la  caducazione delle norme legislative regionali per contrasto con fonti normative gerarchicamente superiori,  costituzionali e comunitarie, e' perfettamente sovrapponibile alla richiesta caducazione del D.L. n.138 del 2002, art. 14; ed ha gli stessi effetti sul trattamento penale degli imputati nell'ambito dei processi principali.
                               P.Q.M.
la Corte di Cassazione, Terza Sezione Penale, visto l'art.134 Cost. e L. 11 marzo 1953, n.87, art. 23 solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art.14 D.L. 8 luglio 2002, convertito in L. 8 agosto 2002, n.178, per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., dichiarandola rilevante e non manifestamente infondata;
sospende il giudizio in corso e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale; ordina che, a cura  della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata agli imputati e al loro difensore, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri; dà altresi' mandato alla cancelleria di comunicare la presente ordinanza ai Presidenti della Camera  dei Deputati e del Senato della Repubblica.
Cosi' deciso in Roma, il 14 dicembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2006
 
© Copyright Penale.it - SLM 1999-2012. Tutti i diritti riservati salva diversa licenza. Note legali  Privacy policy