Tribunale di Napoli – Sezione di Marano – ordinanza 15-20 febbraio 2006
Giudice Purcaro
Osserva
IlIl ricorso proposto nell’interesse di F. P. è infondato e, pertanto, non può trovare accoglimento.
Il giudice monocratico del Tribunale di Napoli, Sezione Distaccata di Marano, con sentenza pronunciata in data 13 febbraio 2004 ha condannato l’imputato F. P. alla pena di mesi tre di reclusione ed euro trecento di multa per i reati di cui agli articoli 171ter, I comma lettera c). legge 633/41 e succ. mod. e 648, cpv., Cp, con la concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla recidiva.
Tale sentenza è stata confermata in data 8 febbraio 2005 dalla Corte d’appello di Napoli ed è diventata definitiva il 14 aprile 2005.
La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli in data 11 gennaio 2006 ha emesso ordine d’esecuzione per la carcerazione di F. P. in relazione alla sentenza in esame. Nel provvedimento si è dato atto che a F. P. era stata contestata la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale.
Avverso tale provvedimento ha presentato incidente d’esecuzione il difensore di fiducia dell’imputato, il quale ha sostenuto la nullità dell’ordine di carcerazione perché emesso in violazione di legge. Secondo la tesi difensiva, infatti, contestualmente all’ordine d’esecuzione andava emesso il decreto di sospensione previsto dall’articolo 656, comma 5, Cpp, poiché il divieto di sospensione introdotto con la novella legislativa del 2005 non è applicabile alle sentenze passate in giudicato relative a fatti commessi in epoca antecedente all’entrata in vigore della legge 251/05.
Il legislatore del 2005, con l’articolo 9 della legge 251/05, ha sostituito l’intero comma 9 dell’articolo 656 Cpp, aggiungendo un terzo caso di divieto della sospensione dell’esecuzione di cui al precedente comma 5 dello stesso articolo ai due già previsti. In particolare, la sospensione dell’esecuzione non può essere disposta anche “nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, del Cp” (così articolo 656, comma 9 lettera c), Cpp).
La prima questione che questo giudice deve affrontare riguarda, pertanto, la natura sostanziale o processuale della disposizione in esame, alla quale è collegata quella della sua immediata applicazione.
In base alla costante e prevalente giurisprudenza di legittimità lo scrivente ritiene di potere affermare la natura processuale della disposizione in esame, la quale, quindi, deve trovare immediata applicazione agli ordini di carcerazione posti in esecuzione successivamente all’entrata in vigore della legge 251/05. Le norme che regolano l’esecuzione della pena, le misure alternative ad essa o altri benefici in favore del condannato, hanno, infatti, natura processuale. Tali norme, pertanto, sono regolate dal principio del “tempus regit actum” e non sono soggette al diverso principio dell’irretroattività della norma penale sfavorevole prevista dall’articolo 25, comma 2, Costituzione e dall’articolo 2, Cp, il quale si applica solamente alle norme contenenti la comminatoria delle sanzioni.
Tale principio è stato affermato dai giudici di legittimità in materia di misure alternative alla detenzione, poiché si è sostenuto che “la modificazione “in peius” delle norme sui benefici penitenziari, ove ne sia prevista l’applicazione ai detenuti per fatti commessi prima dell’entrata in vigore delle norme più restrittive, non viola il principio di cui agli articolo 25 Costituzione e 2 Cp, atteso che tale principio si riferisce unicamente alle norme penali sostanziali e non anche a quelle inerenti alle modalità di esecuzione della pena e all’applicazione dei suddetti benefici, la cui disciplina resta affidata ai poteri discrezionali del legislatore ordinario” (così Cassazione penale, Sezione prima, 1975/04 Cfr., tra le tante pronunce in senso conforme, Cassazione penale, Sezione prima, 6297/99, Brunello; Cassazione penale, Sezione prima, 21 gennaio 1996, Cerra e Cassazione penale, Sezione prima, 11 aprile 1994, Anania).
La Suprema Corte di Cassazione, poi, ha sostenuto la natura processuale anche delle norme che regolano l’esecuzione della pena, pronunciandosi proprio sulla prima delle due originarie ipotesi di divieto di sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 previsto dal successivo comma 9 dell’articolo 656 Cpp. In particolare, i giudici di legittimità hanno affermato che “come questa Sc ha già avuto più volte occasione di affermare (Cassazione, Sezione prima, 459/99, 949/99, 2755/99), alla normativa dettata dalla legge 165/98 in tema di sospensione dell’esecuzione della pena va riconosciuta efficacia operativa immediata e, quindi, si applica anche all’esecuzione di tutti gli ordini di carcerazione, compresi quelli che siano stati formati prima della sua entrata in vigore ma non abbiano avuto esecuzione durante la vigenza della precedente disciplina dell’articolo 656 Cpp. Ciò in quanto le norme che regolano l’esecuzione della pena e le misure ad essa alternative non hanno contenuto di diritto penale sostanziale e, come tali, non sono soggette al principio, di rango costituzionale, sancito dall’articolo 2 Cp, che fa divieto alla legge posteriore di operare con efficacia retroattiva. Si deve infatti ritenere che, stante la natura processuale delle regole relative all’esecuzione della pena, per esse trovi applicazione il principio del tempus regit actum. Con la conseguenza che dalla legge posteriore debbono essere disciplinati, in virtù del principio richiamato, sia gli atti compiuti o da compiersi nella sua vigenza (che è la situazione verificatasi nel caso in esame) sia quelli posti in essere antecedentemente, qualora da essi siano derivate conseguenze giuridiche perduranti o situazioni processuali non ancora definite alla data della sua entrata in vigore” (così Cassazione penale, Sezione prima, 999/00, Patì). Appare utile riportare, inoltre, un altro passaggio motivazionale della sentenza prima riportata, relativo al rigetto delle questioni di costituzionalità sollevate in sede di ricorso. I giudici di legittimità, infatti, in applicazione dei principi prima richiamati, hanno sostenuto che “deve considerarsi manifestamente infondata (al limite della irrilevanza) la dedotta questione di legittimità costituzionale dell’articolo 656 Cpp, novellato dalla l. n. 165 del 1998, in riferimento agli articoli 3, 24 e 25 della Costituzione. È del tutto evidente infatti che non sussistendo un problema di fattispecie, il richiamo all’articolo 25 Costituzione è del tutto inconferente. Essendo l’articolo 656 Cpp una norma di diritto penale processuale, non può trovare applicazione per essa la regola della irretroattività; della legge penale più sfavorevole, sancita dall’articolo 2 Cp per la sola normativa di carattere sostanziale (Cassazione, Sezione prima, 1469/92. Parimenti non v’è contrasto tra la nuova disciplina e il principio sancito dall’articolo 3 Costituzione, posto che la disparità di trattamento sarebbe ravvisabile solo se la nuova norma avesse disciplinato differentemente casi uguali, mentre qui si è in presenza di situazioni verificatesi sotto il vigore della nuova disciplina, disciplinate in modo diverso rispetto al passato. Come pure non si ravvisa alcun motivo di incompatibilità tra la nuova disciplina e l’articolo 24 Costituzione, dal momento che la scelta di adire i successivi gradi di giudizio non può dirsi limitata da una disposizione che regola solo le modalità di esecuzione di una sentenza di condanna definitiva e non anche l’esercizio del diritto di impugnazione” (così sentenza prima citata).
In conclusione, si deve ritenere che solo il legislatore, nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, poteva prevedere che il nuovo caso di divieto della sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 dell’articolo 656 Cpp, introdotto dall’articolo 9 legge 251/05, non trovasse immediata applicazione. Nella legge in esame, però, non si rinviene una disposizione in tale senso, poiché la disciplina transitoria prevista dall’articolo 10 riguarda esclusivamente le norme sulla prescrizione.
Nell’incidente di esecuzione proposto dalla difesa, però, si è sostenuta la natura sostanziale della disposizione in esame in virtù del richiamo operato ad un istituto sostanziale quale quello della recidiva. Si deve rilevare, in primo luogo, che anche l’ipotesi di cui all’articolo 656, comma 9 lettera a), Cpp richiama norme sostanziali (quelle relative ad una certa categoria di delitti), ma tale richiamo, però, non può certo fare mutare la natura processuale della disposizione in esame, come ritenuto dalla giurisprudenza prima citata.
Va osservato, inoltre, che il legislatore non ha introdotto una nuova disciplina sostanziale, ma ha semplicemente modificato alcuni aspetti dell’istituto della recidiva. Esula dal campo della presente decisione l’esame delle modifiche introdotte alla recidiva disciplinata dall’articolo 99 Cp. In estrema sintesi, per quanto rileva anche ai fini delle considerazioni che saranno esposte in seguito, le principali novità riguardano l’introduzione di un’ipotesi di recidiva obbligatoria, prevista dal comma 5 dell’articolo 99 Cp come introdotto dall’articolo 4 legge 251/05, e la maggiorazione dell’aumento della pena per ogni ipotesi di recidiva, previsto, inoltre, in maniera fissa e non più graduabile dal giudice per le ipotesi di recidiva semplice, pluriaggravata e reiterata. In relazione proprio alla recidiva reiterata prevista dal comma 4 dell’articolo 99 Cp si deve rilevare, poi, che non sussiste alcun divieto al giudizio di equivalenza delle circostanze attenuanti con la predetta recidiva, secondo la disciplina generale del concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti di cui all’articolo 69 Cp. L’articolo 3 della legge in esame, infatti, ha sostituito il quarto comma dell’articolo 69 Cp, introducendo il divieto della prevalenza delle circostanze attenuanti quando ricorrono, tra l’altro, i casi previsti dall’articolo 99, comma 4, Cp. In altri termini, sia nella precedente disciplina sia in quella introdotta con la novella del 2005 il giudice, in caso di recidiva reiterata, può sempre valutare le circostanze attenuanti equivalenti alla contestata recidiva, non procedendo, in tale modo, al previsto aumento di pena.
Le considerazioni svolte da ultimo consentono di affrontare l’altra questione rilevante per la decisione della presente procedura, vale a dire quella dell’esatto significato da attribuire all’espressione “condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, comma 4, del Cp” utilizzata dal legislatore.
Secondo la tesi difensiva, sostenuta nell’incidente di esecuzione, l’uso del termine “applicata” da parte del legislatore deve essere interpretato nel senso che il divieto di sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 può operare solamente nei casi nei quali il giudice, nella sentenza posta in esecuzione, ha proceduto all’aumento di pena previsto per la contestata recidiva, aumento non verificatosi nel caso in esame, atteso che il magistrato ha valutato le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale.
Si deve rilevare, in primo luogo, che i primi commentatori hanno criticato il legislatore per l’uso del termine “applicata”, considerato espressione di una terminologia alquanto approssimativa, tra l’altro impiegata anche in tema di modifica degli istituti del concorso formale e del reato continuato disciplinati dall’articolo 81 Cp, introdotta dall’articolo 5 legge 251/05. È stato aggiunto, infatti, un terzo comma all’articolo 81, prevedendo che “fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, comma 4, l’aumento della quantità della pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave”. Secondo un’interpretazione che questo giudice ritiene di condividere, il calcolo dell’aumento per la continuazione in caso di recidiva reiterata opera anche quando la stessa non è stata riconosciuta nella stessa sentenza, ma risulta da una precedente condanna.
Ad avviso dello scrivente proprio il riferimento all’identica espressione utilizzata dal legislatore a proposito del calcolo di aumento per la continuazione in caso di recidiva reiterata consente di ritenere che il termine “applicata” deve essere inteso nel senso che la recidiva reiterata è stata “riconosciuta” dal giudice in sentenza. La recidiva è riconosciuta quando, dopo essere stata correttamente contestata dalla pubblica accusa, è valutata dal giudice in sentenza, sia nel caso in cui si operi il previsto aumento di pena sia nel caso in cui il giudice effettui il bilanciamento tra una circostanza attenuante e la recidiva. In tale ultimo caso, infatti, la riconosciuta equivalenza tra una qualsiasi circostanza attenuante e la recidiva impedisce a queste ultime di dispiegare il loro tipico effetto riduttivo sulla pena. Si deve rilevare, del resto, che se il legislatore avesse voluto limitare il divieto di sospensione della esecuzione previsto dall’articolo 656, comma 5, alla sola ipotesi in cui ai condannati sia stato applicato l’aumento di pena previsto dalla recidiva di cui all’articolo 99, comma 4, Cp lo avrebbe dovuto prevedere espressamente.
Ad avviso di questo giudice, però, il termine “applicata” utilizzato dal legislatore potrebbe non essere casuale ed improprio. Non è la prima volta, infatti, che il legislatore ha utilizzato tale espressione, poiché la stessa si ritrova nel Dpr 394/90, relativo alla concessione dell’indulto. In particolare, l’articolo 3 del citato provvedimento legislativo, nel prevede le esclusioni oggettive dall’indulto, ha ricompreso i “delitti previsti dai seguenti articoli della legge 685/75, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, nel testo in vigore precedentemente alle modifiche di cui alla L. 26 giug. 1990, n. 162: 1) 71, commi 1, 2 e 3 (attività illecite), ove applicate le circostanze aggravanti specifiche di cui all’articolo 74” (così articolo 3, comma 1 lettera b), Dpr 394/90).
Tale esclusione è stata interpretata dalla prevalente giurisprudenza di legittimità nel senso che l’indulto poteva essere applicato alle pene per i delitti previsti dall’articolo 71, comma 1, 2 e 3 della legge in materia di sostanze stupefacenti solamente quando le circostanze attenuanti erano state riconosciute prevalenti sulle aggravanti specifiche previste dall’articolo 74, mentre nei casi in cui il giudice aveva operato un giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti e le predette aggravanti l’indulto era escluso. Tale tesi, maggioritaria, ha ricevuto l’autorevole conferma da parte delle Su della Suprema corte di cassazione, per le quali “una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga, ai sensi dell’articolo 69 Cp, un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece non è da ritenere applicata l’aggravante solo allorquando, ancorché riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante, la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà, in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta “tamquam non esset” (così Cassazione penale, Su, 18 giugno 1991, Grassi), concludendo che “l’indulto elargito con Dpr 394/90 è applicabile ai delitti di cui all’articolo 71 legge 685/75, aggravati ai sensi del successivo articolo 74 solo in caso di concessione di circostanze attenuanti ritenute prevalenti sulle aggravanti contestate” (così sentenza prima riportata).
La tesi seguita da questo giudice, poi, trova ulteriore conferma nella costante giurisprudenza di legittimità che ha riguardato altre ipotesi di effetti giuridici minori della recidiva previsti dal Cp, nei quali il legislatore ha utilizzato genericamente il termine “recidivo”. Assumono rilievo le disposizioni in tema di estinzione della pena di cui al libro I, titolo VI, capo II del Cp e, in particolare, quelle previste dagli articoli 172, 176 e 179 Cp.
I giudici di legittimità, in tema di estinzione delle pene della reclusione e della multa per decorso del tempo, hanno, infatti, affermato che “la recidiva, sia in quanto costituisce uno “status” personale dell’imputato (o dell’interessato), sia in quanto rappresenta una circostanza aggravante del reato, può essere presa in considerazione, ad ogni effetto giuridico, solo se dichiarata dal giudice di merito. Tale principio vale anche in tema di estinzione della pena a seguito di decorso del tempo, che necessita di una dichiarazione giudiziale, sicché non è consentito al giudice della esecuzione, ai fini dell’articolo 172 comma 7 Cp, desumere la recidiva dall’esame del certificato penale, in mancanza di una dichiarazione giudiziale emessa in sede cognitiva” (così Cassazione penale, Sezione prima, 12 luglio 1989, Zuliani).
Principi analoghi si possono ricavare anche per quanto riguarda la liberazione anticipata, per la quale è stato sostenuto che “nell’ipotesi in cui la recidiva venga sottoposta a giudizio di bilanciamento con circostanze attenuanti, possono venir meno soltanto gli effetti connessi alla pena e non quelli che la legge ricollega allo status del soggetto, come dato di fatto o entità ontologica” (così Cassazione penale, Sezione prima, 2 gennaio 1987, Prestipino, nella quale è stato ritenuto che ai fini della liberazione condizionale debba sempre tenersi conto della recidiva).
Una conferma alla tesi seguita da questo giudice si rinviene, infine, a proposito del maggior termine per la riabilitazione previsto per i recidivi, avendo i giudici di legittimità chiarito che “in tema di riabilitazione il maggior termine previsto dal comma 2 dell’articolo 179 Cp opera soltanto quando la recidiva sia stata regolarmente contestata e accertata dal giudice della cognizione, indipendentemente dall’esito del giudizio di comparazione o dall’applicazione dell’aumento di pena corrispondente. Ne consegue che, ove la recidiva non sia stata contestata o il giudice della cognizione l’abbia esclusa, il termine per la riabilitazione è sempre quello di cinque anni, anche quando il richiedente abbia riportato altre condanne passate in giudicato prima della commissione del reato” (così Cassazione penale, Sezione prima, 10 dicembre 1990, Pedron).
In conclusione, si può ritenere che il legislatore del 2005, per evitare il riproporsi dei dubbi interpretativi sorti proprio in relazione agli istituti prima evidenziati, ha utilizzato il termine “applicata” per limitare il divieto di sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5 dell’articolo 656 alle sole ipotesi in cui la recidiva reiterata sia stata espressamente contestata nella condanna da eseguire e sia stata riconosciuta dal giudice con effetti sul trattamento sanzionatorio (con un giudizio di prevalenza o equivalenza sulle circostanze attenuanti).
Va, pertanto, rigettato l’incidente di esecuzione proposto nell’interesse di F. P..
PQM
Rigetta l’incidente di esecuzione proposto nell’interesse di F. P. avverso l’ordine di esecuzione emesso in data 11 gennaio 2006 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.