1. L’ordinanza della quarta Sezione penale, dopo aver
ripercorso i tracciati interpretativi di questa Corte circa la natura della
decisione che applica la pena su richiesta delle parti, ravvisa una sorta di
antinomia latente tra le singole statuizioni giurisprudenziali e che pare emergere
solo assegnando rilievo esponenziale ora al c.d. profilo negoziale (vale a
dire, l’accordo tra le parti) ora al c.d. profilo giurisdizionale (vale a dire,
i poteri di verifica dell’accordo ad opera del giudice), indicando come proprio
dalla consapevolezza dell’esistenza di tale antinomia è possibile una scelta di
più ampio contesto che consenta di pervenire ad un assetto ermeneutico tale da
divenire coerente con lo
ius novum
introdotto dalla legge 134/03.
2. Per il momento il Collegio ritiene necessario soprassedere dall’esame di
simili approdi soprattutto considerando che il quesito al quale queste Su sono
chiamate a dare risposta riguarda esclusivamente – per di più, in presenza di
una vicenda contrassegnata dall’applicazione di una pena nei limiti infrabiennali
- l’operatività del regime della revoca della sospensione condizionale della
pena alla stregua del precetto dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp
Sotto tale profilo non possono queste Su omettere di constatare che ben tre
sentenze della Corte di cassazione nella sua composizione più ampia abbiano
risolto il problema in senso negativo.
Cosicché una rivisitazione dell’istituto che sia attenta a designare come punto
fermo – almeno nella sua ineludibilità, ma non per questo inaccessibile a
rilievi di ordine metodologico – la pregressa giurisprudenza, richiede che ad
essa si pervenga soprattutto (se non esclusivamente) sulla base dei decisivi
interventi normativi che hanno rimodellato il procedimento di cui all’articolo
444 e seguenti Cpp
3. Come si è già accennato, l’ordinanza di rimessione sembra richiedere, in
effetti, un revirement interpretativo in ordine alla natura della sentenza che
applica la pena su richiesta delle parti, anche alla luce del novum derivante
dal regime del c.d. “patteggiamento allargato” introdotto dalla legge 134/03.
Gli argomenti enucleati dal giudice a quo – pure utilizzando la ragionata
silloge giurisprudenziale riportata in narrativa - impongono a questa Corte una
accurata disamina sulla proposizione dialettica accordo delle parti-poteri di
controllo del giudice, alla luce della normativa antecedente alla “novella”,
per verificare poi l’incidenza dello
ius
novum nel sistema congegnato dalla legge 134/03.
Peraltro, una giurisprudenza ultradecennale circa la natura della decisione che
applica la pena su richiesta non esonera questa Corte – come si vedrà, anche
alla stregua dello
ius novum - da un
approfondito esame in proposito. Semmai, il nodo problematico da sciogliere è
l’individuazione dell’effettivo significato del precetto (olim) contenuto
nell’articolo 445, comma 1, ultima parte (ora nell’articolo 445, comma 1
bis), in base al quale “Salvo diverse
disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una sentenza di condanna”.
Il fatto stesso che il legislatore si esprima in termini di mera equiparazione,
omettendo, quindi, di istituire una vera e propria identificazione, tra
sentenza che applica la pena e sentenza di condanna rende necessario ricorrere
ad un modello interpretativo che non trascuri le applicazioni giurisprudenziali
che hanno coinvolto le conseguenze direttamente derivanti da una sentenza di
condanna e, di volta in volta, ritenute riferibili anche alla sentenza che
applica la pena su richiesta.
4. La prima decisione delle Su che affronta uno degli snodi cruciali della
tematica circa la natura della sentenza di patteggiamento, quella, cioè,
relativa al preciso ambito del dovere di motivazione al quale il giudice non
può sottrarsi allorché adotti una pronuncia a norma dell’articolo 444 e
seguenti Cpp, muove dal presupposto che una decisione di questo tipo contiene
un implicito accertamento di responsabilità; un accertamento che non va
espressamente motivato così come l’affermazione di responsabilità non deve
essere espressamente dichiarata; quel che è certo, però, è che una simile
decisione, non potendo qualificarsi una sentenza di condanna in senso proprio,
è solo equiparata ad una sentenza di condanna. Se si trascuri per un momento il
contrasto interpretativo che le Su erano state chiamate a comporre e ci si soffermi
sul reale contenuto della statuizione, si può verificare come l’inversione
della portata precettiva dell’ultima parte dell’articolo 445, comma 1 (ora,
ultima parte dell’articolo 445, comma 1
bis)
è più apparente che effettiva. Lo comprova la precisazione, contenuta nella
stessa sentenza, secondo cui l’ordine di demolizione delle opere edilizie
abusive, previsto dall’articolo 9, comma 9, della legge 47/1985, può essere
impartito anche con la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti,
atteso che detto provvedimento giurisdizionale è equiparato ad una sentenza di
condanna a tutti gli effetti diversi da quelli espressamente previsti
dall’articolo 445, comma 1, Cpp (Su, 27 marzo 1992, Di Benedetto).
Due proposizioni sembrano emergere con rassicurante perentorietà dalla
decisione adesso ricordata: la prima è che la sentenza che applica la pena su
richiesta delle parti non è una decisione di condanna, tanto è vero che non
sono ad essa applicabili disposizioni compatibili soltanto con una sentenza di
condanna, seguendo lo schema delineato, in negativo, dall’articolo 445, Cpp; la
seconda è che a tutti gli altri effetti la sentenza è equiparata ad una
sentenza di condanna. Un’equiparazione che non parrebbe dare adito a eccezioni
di sorta al di fuori di quelle espressamente indicate da tale precetto. Più in
particolare, conformemente al principio secondo cui la sentenza di
patteggiamento contiene un’implicita affermazione di responsabilità, non
sembrerebbe residuare spazio alcuno a limiti non derivanti espressamente dalla
legge: limiti, questi, in qualche misura, ontologici perché coessenzialmente
incompatibili con la nozione stessa di decisione di condanna e perciò tali da
designare l’equiparazione come corrispondente ad una vera e propria contradictio
in adiecto; l’incompatibilità, cioè, non consentirebbe ad altri effetti tipici
della sentenza di condanna di operare anche in riferimento alla decisione che
applica la pena. Il tutto pure considerando che le eccezioni stabilite
dall’articolo 445, comma 1, non sempre attengono ad ogni sentenza di condanna.
Lo comprova il regime dell’efficacia extra penale della decisione, una
efficacia da qualificare come simmetrica alla sentenza di condanna – ma, questa
volta, secondo un canone apprezzabile solo sul piano normativo - soltanto se
questa sia stata pronunciata a seguito di dibattimento. Una norma che, per la
parte non riguardante il patteggiamento “anomalo”, quello, cioè, in cui la
decisione viene adottata dopo la chiusura del dibattimento, sembrerebbe dettata
solo in funzione di tracciare un netto discrimine rispetto alla parallela
disciplina stabilita per gli effetti extra penali derivanti da una sentenza
pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.
Nonostante le
rationes decidendi
siano parzialmente diverse da quelle ricavabili dalla sentenza Di Benedetto, le
ulteriori decisioni delle Su sembrano informate al postulato ermeneutico alla
cui base è l’equiparazione della sentenza che applica la pena alla sentenza di
condanna, con la precisazione però che gli effetti equiparabili sono soltanto
quelli che non risultino incompatibili con l’assenza di una
plena cognitio da parte del giudice del
patteggiamento; ricollegando, dunque, ad un rapporto di non compatibilità
l’applicazione delle conseguenze derivanti da una sentenza di condanna.
Ciò si è verificato, però, trascurando che talune di quelle escluse
dall’articolo 445, comma 1, sono conseguenze che non possono derivare se non da
una sentenza di condanna. Cosicché, salva la necessità di affidare
all’interprete il compito di ricavare dalla legge (con una metodologia
tipicamente analitica) ogni sorta di esclusione “implicita”, è gioco forza
concludere che la natura della decisione di cui si discute non può essere
individuata richiamando quelle situazioni che presuppongono il pieno
accertamento di responsabilità o che espresse disposizioni di legge escludono
dalla equiparazione.
Quanto alle prime, è agevole ribattere che se la sentenza che applica la pena
implica un pieno accertamento di responsabilità ne potrebbe discendere non
un’equiparazione alla sentenza di condanna, ma una vera e propria
identificazione, diversificandosi le due sentenze solo per la fenomenologia
procedimentale che ne costituisce il presupposto e che va apprezzata secondo
rigorosi modelli normativi. Quanto alle seconde, se le “diverse disposizioni di
legge” vanno individuate al di fuori dell’articolo 445, comma 1, utilizzando
uno schema in grado di escludere che taluni effetti delle sentenze di condanna
possano trovare applicazione anche per la sentenza di patteggiamento,
l’operazione ermeneutica assume profili di estrema difficoltà ricostruttiva
proprio considerando il precetto di chiusura dell’articolo 445, comma 1.
5. Non è un caso che, chiamate a decidere circa l’applicabilità del regime di cui
all’articolo 168, 1° comma, n. 1, Cp, le Su (Su, 8 maggio 1996, Di Leo, la
prima decisione, che risolve lo specifico contrasto giurisprudenziale ora
riproposto), muovano dalla proposizione dilemmatica incentrata sul quesito se
la sentenza di patteggiamento abbia o no natura di sentenza di condanna.
Le progressioni interpretative sono, sul punto, estremamente significanti.
La Corte delinea l’esistenza di un triplice indirizzo giurisprudenziale alla
cui base è proprio il tentativo di individuazione della natura della sentenza
che applica la pena su richiesta.
Secondo un primo orientamento, il giudice avrebbe dovuto revocare, ai sensi
dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp, il beneficio della sospensione
precedentemente concesso, o perché la sentenza di patteggiamento presuppone
comunque un accertamento di responsabilità ed ha, dunque, natura di sentenza di
condanna, conseguendone l’effetto penale della revoca del beneficio o perché in
ogni caso, pure a prescindere dall’accertamento di responsabilità, la revoca
della sospensione si sostanzia in un effetto penale che consegue
automaticamente alla sentenza di patteggiamento, equiparata alla sentenza di
condanna e, quindi, produttiva di tutti gli effetti propri di una simile
pronuncia, senza che tali effetti possano essere neutralizzati dalla base
negoziale che costituisce il fondamento della decisione; stando ad un secondo
orientamento, la sentenza di patteggiamento non può contenere la statuizione
sulla revoca di diritto della sospensione precedentemente concessa, sia in
applicazione del principio della immodificabilità dell’accordo delle parti ad
opera del giudice (un principio in ordine al quale si avrà occasione più avanti
di soffermarsi), sia perché la detta sentenza non implica alcun accertamento
positivo e costitutivo di responsabilità dell’imputato, dal momento che si
fonda su un accertamento incompleto, che non comporta una piena verifica
cognitiva del fatto; un terzo orientamento, nel tentare una mediazione tra le
prime due linee interpretative, afferma la necessità che la revoca della
sospensione condizionale si conformi alla particolare natura del rito premiale,
con la conseguenza che si dovrebbero ritenere sospesi gli effetti della revoca
disposta con la sentenza di patteggiamento sino al compimento dei termini di
cui all’articolo 445, comma 2, Cpp, sino, cioè, alla scadenza dei termini per
l’estinzione, a date condizioni, del reato per il quale era intervenuta la
sentenza di patteggiamento.
In presenza di tali differenziate opzioni ermeneutiche, le Su dovettero
necessariamente incentrare ogni verifica su due profili, tra loro, peraltro,
complementari; vale a dire, la natura della sentenza ed i presupposti di
operatività della revoca della sospensione condizionale.
Sotto il secondo aspetto – si è affermato - la revoca di diritto della
sospensione non può prescindere dall’accertamento di una nuova responsabilità
penale, che fa venire meno la prognosi di ravvedimento ed implica un giudizio
di immeritevolezza rispetto al quale la revoca della sospensione assume una
funzione sanzionatoria. Una funzione che può essere concretamente perseguita
solo postulando un accertamento “completo” quanto alla commissione del reato
cui è connaturata l’esigenza che la colpevolezza sia affermata in esito ad un
giudizio designato da una
plena cognitio.
In altri termini, la revoca è coessenziale al venir in essere della fattispecie
che ne costituisce il presupposto e che si identifica nella pronuncia di una
sentenza di condanna all’esito di un accertamento, anche qui, “completo” della
responsabilità; senza, peraltro, definire, in presenza di riti differenziati
contrassegnati da modelli processuali alternativi, quando tale “completezza”
venga effettivamente a realizzarsi.
Quanto al primo profilo si è rimarcato come un simile evento non possa
realizzarsi in forza della sentenza di cui all’articolo 444 e seguenti Cpp che
non presuppone un accertamento pieno ed incondizionato sui fatti e sulle prove,
perché essa ha a fondamento l’applicazione di una pena senza giudizio, dato che
non v’è dichiarazione di colpevolezza e la sua struttura è connotata dal mero
riferimento all’accordo tra le parti sul merito dell’imputazione.
La conseguenza è, perciò, necessitata: dalla sentenza di patteggiamento può
derivare qualunque altro effetto penale che sia con essa compatibile; che cioè
non implichi l’ineludibilità dell’accertamento pieno della responsabilità
dell’imputato. Il giudice deve, pertanto, con la sentenza di cui all’articolo
445 Cpp, ad esempio, applicare quei provvedimenti sanzionatori di carattere
specifico previsti da leggi speciali, che, data la loro natura amministrativa
ed atipica (tra questi, l’ordine di demolizione della costruzione senza
concessione), non postulano un giudizio di responsabilità penale e seguono di
diritto alla sentenza di patteggiamento in virtù dell’equiparazione, nei limiti
di compatibilità, alla sentenza di condanna. L’effetto penale della revoca
della sospensione condizionale precedentemente concessa è un effetto
incompatibile con la sentenza che applica una pena concordata dalle parti,
perché essa non si fonda sull’accertamento pieno di responsabilità.
Anche a prescindere dalle argomentazioni critiche rivolte a tale sentenza dalla
dottrina, un dato ermeneutico – che subito si segnala, perché esso implica notevoli
perplessità - pare per la prima volta emergere dalla decisione in esame;
quello, cioè, secondo cui l’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla
sentenza di condanna è proposizione normativa non definibile in termini di
stretta interpretazione; nel senso che, pur avendo l’articolo 445, comma 1,
ultima parte, “equiparato”, salve “diverse disposizioni di legge”, la sentenza
che applica la pena su richiesta ad una sentenza di condanna, tale
equiparazione non è incondizionata dovendo confrontarsi con la compatibilità
degli effetti della sentenza di patteggiamento con quelli propri della sentenza
di condanna.
A ben vedere, però, l’argomento di fondo per pervenire all’effetto preclusivo è
uno di quelli che, pur penetrando davvero in medias res, sembra in gran parte
discostarsi dai principi affermati dalla sentenza Di Benedetto.
Presupposto per la revoca di diritto della sospensione condizionale è
l’accertamento della responsabilità che, facendo venir meno la prognosi di
ravvedimento a suo tempo espressa, comporta un giudizio di immeritevolezza
rispetto al quale la revoca della sospensione si pone come misura di tipo
sanzionatorio. Ma tale giudizio richiede necessariamente un accertamento di
responsabilità dotato di quelle caratteristiche di completezza conseguibili
solo a mezzo di una sentenza che sia pronunciata a conclusione di un “giudizio,
con plena cognitio del reato e della pena”.
La decisione richiama - per la verità, ribaltandolo, con riverberi ermeneutici
agevolmente intuibili - il regime della equiparazione, tanto da rendere
eccezionale quella che l’articolo 445, comma 1, definiva un assetto configurato
normativamente come immancabile, salvo diverse disposizioni di legge. Ed è
estremamente significativo riscontrare come la decisione in esame, lungi
dall’evocare trattamenti incompatibili con una pronuncia di condanna non
derivanti dal regime premiale delineato dall’articolo 445, comma 1, faccia
riferimento, per delimitare concettualmente l’equiparazione dalla
identificazione, proprio all’assenza di “alcuni effetti tipici della sentenza
di condanna, quali il pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle
pene accessorie e delle misure di sicurezza”.
Ciò senza contare i profili teleologici che attengono, nello specifico, al
precetto dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp che - come è stato osservato –
sono speculari alla dinamica della sospensione condizionale della pena. Tanto
che, così come la concessione del beneficio presuppone un giudizio di
“meritevolezza” derivante da una prognosi di non recidivanza, la revoca della
sospensione è, a sua volta, funzionale ad una prognosi di “non meritevolezza”
destinata a demolire il giudizio precedentemente formulato.
Cosicché è ancora all’elemento normativo che occorre riferirsi al fine di
pervenire a quel giudizio di valore sopra rammentato. L’equiparazione non può
essere diversamente intesa se non considerando che all’esito della procedura
speciale viene applicata una pena; con la conseguenza che – anche superando i
profili definitori incentrati sulla natura della sentenza – diviene
costituzionalmente necessitato il giudizio negativo insito nella decisione resa
sull’accordo delle parti, non foss’altro alla stregua del precetto
dell’articolo 27, secondo e comma 3, della Costituzione, secondo il modello già
disegnato dalla sentenza costituzionale 313/90.
6. Le medesime argomentazioni sono poste a base della immediatamente successiva
decisione, pronunciata in forza della rimessione, significativamente vicina nel
tempo, della medesima questione alle Su che ribadiscono – per di più
ampliandone la valenza interpretativa - i principi di diritto già espressi
nella precedente decisione (Su, 26 febbraio 1997, Bahrouni).
Proprio perché – si afferma - la sentenza di patteggiamento non è preceduta da
un accertamento pieno e completo sulla sussistenza del fatto reato e sulla
riconducibilità dello stesso all’imputato, essa non può giustificare la revoca
della sospensione condizionale che postula sempre, anche quando segue alla
doverosa ricognizione di una decadenza dal beneficio
ope legis, un accertamento completo in ordine alla colpevolezza.
Una sentenza che può intervenire in uno stadio iniziale delle indagini
preliminari, quando agli atti del fascicolo vi è poco più di una notizia di
reato o anche solo la semplice notizia di reato; e che, quindi, si fonda solo
su una “mera ipotesi”, con un’eccentricità evidente rispetto alle ordinarie
sentenze di condanna. Il giudice – è vero - dispone di poteri di controllo
sull’accordo delle parti, che non possono dirsi “notarili”, ma gli è comunque
precluso di indagare sulle determinazioni che hanno indotto l’imputato ad una
siffatta scelta.
Il controllo giudiziale è - si afferma - meramente estrinseco, limitato alle
risultanze disponibili e sempre condizionato dal contenuto dell’accordo. La
richiesta dell’imputato, o il suo consenso alla richiesta di pena formulata dal
pubblico ministero, non significano – anche qui - un riconoscimento, sia pure
implicito, di responsabilità, perché l’ammissione di non disporre, allo stato,
di elementi utili per dimostrare l’insussistenza del reato non equivale ad un
riconoscimento della colpevolezza, secondo un regime comprovato sia
dall’assenza di ogni effetto giuridico della richiesta di pena non condivisa
dall’altra parte o anche della congiunta richiesta poi non accolta dal giudice
sia dalla doverosità della verifica giudiziale dell’eventuale sussistenza delle
condizioni per un proscioglimento immediato, pur quando il giudice ritenga che
l’accordo tra le parti possa essere accolto. Nel vigente sistema processuale,
incentrato sul principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, la
dichiarazione confessoria non può mai sollevare il pubblico ministero
dall’onere della prova; né, ancora, può affermarsi, data l’attribuzione in via
esclusiva al giudice dei poteri di accertamento del reato, che la mancata
contestazione del reato stesso da parte dell’imputato tenga luogo
dell’accertamento della responsabilità.
L’equiparazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna
rileva soltanto nell’ambito degli aspetti positivi dell’affinità, e quindi
soltanto per l’applicazione della pena, dissolvendosi in riferimento all’altra
componente essenziale della sentenza di condanna, che è l’accertamento della
responsabilità. Non a caso, infatti, l’articolo 445, nell’indicare gli
incentivi premiali, escludendone altri in deroga alla disciplina generale degli
effetti penali della condanna, si riferisce soltanto a quelli che, correlati
all’applicazione della pena, sarebbero rientrati nell’ambito dell’equiparazione
della sentenza di patteggiamento alla sentenza di condanna, non potendo la
norma prendere in esame effetti che mai sarebbero potuti derivare per l’assenza
nella sentenza di patteggiamento della componente essenziale da cui promanano,
e cioè l’accertamento della responsabilità. La revoca della sospensione
condizionale della pena non poteva essere compresa tra gli effetti penali
esclusi, in funzione incentivante, in caso di patteggiamento, perché essa è un
effetto estraneo alla previsione della norma dell’articolo 445 Cpp, correlato
non già all’applicazione della pena ma all’accertamento di responsabilità.
Le Su, ricordato che l’articolo 445, comma 1, con l’indicare gli incentivi
premiali diretti a favorire l’accesso a quel tipo di procedimento, escludendo
alcuni di essi, “si riferisce soltanto a quelli che, per essere correlati
all’applicazione della pena e non già al riconoscimento di responsabilità
dell’indagato, non potevano che conferire, a pieno titolo, nell’ambito
operativo di quel rapporto di affinità che dalla stessa norma era stato
riconosciuto tra il provvedimento conclusivo di quel procedimento speciale e la
categoria della sentenza di condanna”, ne fanno derivare che “una deroga alla
disciplina generale concernente gli effetti di una pronuncia di condanna in
tanto poteva essere razionalmente ideata e organicamente disposta in quanto
quegli stessi effetti potessero avere una loro concreta possibilità di
attuazione e, quindi, potessero trarre origine dal contenuto del provvedimento
al quale si ricollegano”.
La conclusione è, dunque, nel senso che l’articolo 445, comma 1, non può che
riferirsi ad effetti che sarebbero potuti derivare dalla sentenza di
applicazione di pena; così, da un lato, enucleando il regime delle deroghe
rispetto alla disciplina comune delle sentenze di condanna, dall’altro lato,
inferendone che l’inserimento, quale norma di chiusura, del principio di
equiparazione è da intendere “pur sempre nell’ambito di quel rapporto di
equiparazione che in tanto era giustificato in quanto poggiava su una
componente costante della pronuncia di condanna, e cioè l’applicazione di una
sanzione penale”.
L’assetto così congegnato ha avuto il merito di chiarire il valore significante
del regime di equiparazione, se intimamente ricollegato alle identità piuttosto
che alle diversità di contenuto fra sentenza di applicazione della pena e
sentenza di condanna. Con corrispondente riduzione di tali effetti, pur
indicati in via esemplificativa, a quelli operanti nella fase esecutiva di una
sentenza di condanna.
D’altro canto, appare forse esorbitante una eccessiva concettualizzazione della
natura della pronuncia al fine di risolvere lo specifico quesito sottoposto
all’esame delle Su. Non va dimenticato che la regola stabilita dall’articolo
168, comma 1, n. 1, Cp sta a designare una revoca caratterizzata da profili
meramente formali perché tale norma prevede la “revoca di diritto” qualora nei
termini stabiliti il condannato (nel processo che si è concluso con
l’applicazione del benefici) commetta un delitto per il quale venga inflitta
una pena detentiva. Il che sta a significare che la pronuncia si sostanzia in
una decisione di mero accertamento di un decadenza che si è verificata di
diritto al momento stesso della formazione del giudicato della sentenza di
condanna per il reato commesso nel termine di esperimento. Il tutto in sintonia
con la costante giurisprudenza di questa Corte che annovera la revoca della
sospensione condizionale della pena tra gli effetti penali della condanna (cfr.
Su, 20 aprile 1994, Volpe) intesi come quegli effetti, dei quali il codice
penale non fornisce la nozione né indica il criterio generale che valga a
distinguerli dai diversi effetti di natura non penale che pure sono in rapporto
di effetto a causa con la pronuncia di condanna, si caratterizzano per essere
conseguenza soltanto di una sentenza irrevocabile di condanna e non pure di
altri provvedimenti come quelli discrezionali della pubblica amministrazione,
ancorché aventi nella condanna il necessario presupposto, per la natura
sanzionatoria dell’effetto, ancorché incidente in ambito diverso da quello del
diritto penale sostantivo o processuale; con la conseguenza che la revoca della
sospensione condizionale della pena ha per presupposto necessario la pronuncia
di una sentenza di condanna, non il mero accertamento di un fatto costituente
reato.
Ne deriva allora che sia la decisione Di Leo sia la decisione Bahrumi rischiano
di enfatizzare a dismisura la lettera dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp,
vale a dire l’accertamento della responsabilità penale che si ritiene insito
nell’espressione “commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa
indole per cui venga inflitta una pena detentiva”, così da trascurare che il
nodo cruciale da affrontare non è tanto l’accertamento di responsabilità quanto
il regime di equiparazione.
6. Le Su (Su, 22 novembre 2000, Sormani) sono intervenute, ancora una volta,
sulla medesima questione, specificamente nella prospettiva di una presunta
contraddizione tra l’affermazione della non revocabilità della sospensione
precedentemente concessa in caso di applicazione di pena patteggiata e
l’affermazione della non concedibilità della sospensione in caso di successiva
condanna una volta che lo stesso soggetto sia già stato destinatario della
sospensione di una pena applicata su richiesta, sempre che, ovviamente, siano
superati i limiti di pena previsti dall’articolo 163 per la concessione della
sospensione condizionale.
Si ribadisce che la denunciata contraddizione non appare esistente, pur potendo
discutersi (ed è la prima proposizione problematica riferibile alla specifica
materia) se la sentenza di patteggiamento sia o non sia una sentenza che
accerta e afferma la responsabilità. La natura della sentenza di patteggiamento
non incide, infatti, in alcun modo sul regime dell’impossibilità di
reiterazione del beneficio della sospensione, avendo tale impossibilità il suo
fondamento non nell’accertamento della responsabilità ma nell’applicazione
della pena, e quindi proprio nella pena.
La diversa prospettiva ermeneutica, che potrebbe divenire davvero dirimente,
non va peraltro fraintesa, perché essa viene a profilarsi solo successivamente
all’effettiva enucleazione delle
rationes
decidendi alla base della statuizione.
Ricordato che l’impossibilità di ottenere la sospensione condizionale in
conseguenza di una o più condanne precedenti costituisce un tipico effetto
penale della condanna, inteso come conseguenza negativa derivante
de iure, le Su precisano che la
previsione contenuta nell’articolo 445 Cpp, secondo cui in caso di estinzione
del reato si estingue ogni effetto penale, ivi compreso l’impedimento alla
concessione di una successiva sospensione se è stata applicata con la sentenza
di patteggiamento una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva - ripete il
contenuto dell’articolo 178 Cp in tema di riabilitazione, laddove prescrive che
la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale,
salvo che la legge disponga altrimenti. E la legge dispone altrimenti proprio
in tema di sospensione condizionale della pena, nel senso che, se con la
sentenza di patteggiamento è stata applicata una pena detentiva, di questa pena
deve tenersi conto ai fini di una successiva sospensione, anche nel caso di
estinzione del reato, così come si verifica in caso di riabilitazione.
Si ha così che l’effetto penale, per patteggiamento a pena detentiva,
dell’impedimento alla concessione della sospensione in caso di successiva
condanna non è attinto dall’eventuale estinzione del reato ed a maggior ragione
non può essere paralizzato prima dell’estinzione.
Dal momento poi che la sentenza di patteggiamento è equiparata dalla legge alle
sentenze di condanna, essa comporta la revoca della sospensione condizionale
nel caso regolato dall’articolo 168, 1° comma, n. 2, Cp, ossia quando è
riportata un’altra condanna per un delitto anteriormente commesso, con
irrogazione di una pena che, cumulata a quella precedentemente sospesa, supera
i limiti previsti dall’articolo 163 Cp In questo caso, infatti, presupposto
della revoca non è - come nell’ipotesi di cui all’articolo 168, 1° comma, n. 1,
Cp - l’accertamento e l’affermazione di responsabilità, ma il mero superamento,
per cumulo delle pene, del limite imposto dall’articolo 163 dello stesso
codice. La sospensione condizionale non muta natura e regime allorché sia
concessa con la sentenza di patteggiamento, tanto che potrà e dovrà essere
revocata quando, come nel caso contemplato dall’articolo 168, comma 1, n. 2,
Cp, non è in rilievo la natura della sentenza di patteggiamento, ma
esclusivamente la misura, la quantità, della pena inflitta.
Anche il contenuto della sentenza Sormani rivela una certa approssimazione nel
definire gli effetti derivanti dalla equiparazione rispetto a quelli derivanti
dall’identificazione; ciò che più importa, seguendo un modello ermeneutico
attento a valorizzare più le affinità che le differenze.
9. La conferma di una certa vischiosità interpretativa che contrassegna le
soluzioni ermeneutiche delle Su di questa Corte è riscontrabile solo alla luce
di quella giurisprudenza che, proprio dalla natura della decisione che applica
la pena su richiesta, ricava conclusioni, ancora una volta, in merito alla
interpretazione del precetto dell’articolo 445, comma 1, ultima parte.
Chiamate a dirimere il contrasto giurisprudenziale circa l’applicabilità, a
seguito di sentenza di patteggiamento, di sanzioni amministrative accessorie,
quale la sospensione della patente di guida, le Su, dopo aver ricordato che il
parametro per l’accertamento da cui consegue l’applicazione e la determinazione
della misura della sanzione, in concreto non possono essere diversi da quelli
previsti in generale per l’autorità amministrativa, hanno precisato che, poiché
la formula “accertamento del reato” adottata dalla legge per l’applicazione di
sanzioni amministrative accessorie in conseguenza di un reato deve intendersi
nel senso che è istituito un collegamento tra l’effetto automatico
dell’applicazione della sanzione accessoria ed un esito del procedimento penale
“che presuppone un fatto al quale accede la sanzione amministrativa”, ne hanno
tratto la conclusione che un simile accertamento non è escluso nella procedura
dell’applicazione di pena su richiesta solo considerando che il giudice è
tenuto a controllare la legalità dell’accordo tra le parti, con l’apprezzamento
nella verifica di corrispondenza del fatto alla fattispecie, degli aspetti che
“la norma speciale tiene in considerazione ai fini dell’applicazione della
sanzione amministrativa” (Su, 27 maggio 1998, Bosio).
Al di là del richiamo alla tipologia di accertamento, non è difficile
riscontrare come l’effettiva
ratio
decidendi che è a fondamento di tale pronuncia risulti accentrata proprio
sull’equiparazione alla sentenza di condanna della sentenza che applica la
pena. Secondo un canone, del resto, perseguito pure dalla statuizione stando
alla quale anche nel procedimento di applicazione della pena su richiesta, in
caso di connessione tra reato e violazione non costituente reato, il giudice
competente a conoscere del reato è competente a decidere sulla violazione non
costituente reato e ad applicare la sanzione per essa stabilita; in tale
procedimento, infatti, il giudice accerta l’intero fatto, pur nei limiti della
sua cognizione allo stato degli atti (Su, 21 giugno 2000, Cerboni).
Pare evidente che le statuizioni della sentenza Di Benedetto quanto
all’interpretazione da assegnare all’articolo 445, comma 1, ultima parte,
risultino decisamente sfumate da tali decisioni, a cui fondamento sembra
inserirsi l’endiadi sentenza di condanna-sentenza equiparabile ad una sentenza
di condanna, non tanto in relazione alla natura della decisione quanto con
riguardo alla tipologia di effetti compatibili con la
semiplena cognitio che contrassegna la sentenza di patteggiamento.
10. Entro la medesima prospettiva viene superato anche l’ostacolo derivante
dall’assenza di un contenuto di accertamento proprio della sentenza che applica
la pena rispetto alla dichiarazione di falsità di documenti
ex articolo 537 Cpp.
Questa Corte aveva pressoché costantemente statuito che con la sentenza di
applicazione della pena su richiesta delle parti il giudice è tenuto a
dichiarare la falsità di atti o documenti accertata nel corso del giudizio
(Sezione quinta, 22 aprile 1998, Chessa; Sezione quinta, 9 marzo 1993, Di
Russo; Sezione sesta, 4 luglio 1992, Cinque; Sezione sesta, 4 luglio 1992,
Cognoli; Sezione sesta, 4 luglio 1992, Lucaferri), trattandosi di sentenza
equiparata ad una sentenza di condanna; e ciò indipendentemente dalle
pattuizioni delle parti (Sezione quinta, 26 aprile 1999, Marciante; Sezione
quinta, 13 febbraio 1996, Strali) e dal riconoscimento della penale
responsabilità dell’imputato (Sezione quinta, 23 giugno 1998, Di Sarno; Sezione
quinta, 19 marzo 1992, Galoppo). Un simile orientamento interpretativo
costituiva, dunque, l’espressione di un vero e proprio diritto vivente,
nonostante i problemi di compatibilità con la giurisprudenza delle Su penali
sopra rammentata, secondo cui la sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444
Cpp non è una vera e propria sentenza di condanna.
In presenza di un virtuale contrasto giurisprudenziale e di profonde
perplessità da parte della dottrina, attenta a rimarcare come il patteggiamento
rappresenti comunque un giudizio allo stato degli atti, un modello del tutto
incompatibile con la decisione di cui all’articolo 537 Cpp che postula una
pronuncia – sia di condanna sia di proscioglimento - che accerti la falsità del
documento, le Su hanno enunciato il principio di diritto in base al quale con
la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, che è
decisione equiparata ad una sentenza di condanna, il giudice è tenuto a
dichiarare, ai sensi del comma 1 dell’articolo 537 Cpp, l’accertata falsità di
atti o di documenti, precisando che la dichiarazione di falsità prescinde
dall’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, essendo fondata
esclusivamente sull’accertamento - che si rende possibile anche nel giudizio
speciale di patteggiamento, pur nei limiti di una cognizione “allo stato degli
atti” - della non rispondenza al vero dell’atto o del documento (Su, 27 ottobre
1999, Fraccari).
La giurisprudenza di questa Corte fa, dunque, ritenere incontrastata la
possibilità di dichiarare la falsità di documenti anche in conseguenza di una
sentenza di applicazione di pena su richiesta delle parti, se e sempreché al
summatim conoscere che designa una
simile procedura faccia da riscontro l’avvenuto accertamento della falsità che
il giudice è – come per ogni altra statuizione – tenuto a motivare, così da
consentire il sindacato sulle sue statuizioni accessorie.
La decisione non consente alternative. Per un verso, infatti, la legge non
prevede strumenti che tendano a risolvere le (solo apparenti) antinomie
derivanti dalla statuizione del giudice investito della cognizione del reato
(in una logica assolutamente antitetica a quella corrispondente
all’accertamento della responsabilità, che presuppone comunque, in tema di
falso, proprio l’accertamento della non rispondenza al vero dell’atto o del
documento); per un altro verso, la soppressione dell’incidente di falso ha
relegato i compiti di accertamento della falsità ad un ruolo meramente
incidentale (cfr. articolo 241 Cpp) al di fuori dell’orbita dell’articolo 537
Cpp
Ma il richiamo all’assoluta compatibilità tra una sentenza che non pronuncia la
condanna dell’imputato e l’accertamento di non rispondenza al vero dell’atto o
del documento appare davvero dirimente; per di più, in un regime che consente
l’applicazione della norma adesso ricordata anche nel caso di proscioglimento.
La decisione sembra contenere, però, un ulteriore significativo argomento:
quello, cioè, relativo al potere attribuito al giudice, nell’ambito della
procedura di cui all’articolo 444 e seguenti Cpp di accertare i fatti e di valutare
il merito – sia pure, almeno così sembra di comprendere, non per la via del
mero accertamento incidentale – senza che ciò comporti la necessaria
finalizzazione all’affermazione di colpevolezza dell’imputato e alla pronuncia
di condanna (in tali termini, Su, 27 ottobre 1999, Fraccari).
10. Una difformità di indirizzi interpretativi si è registrata in merito alla
questione della sottoponibilità a revisione delle sentenze di patteggiamento,
ad ulteriore conferma di come l’eccentricità dell’istituto abbia generato non
pochi problemi alla ricerca di una difficile compatibilità con i principi di
fondo dell’ordinamento processuale.
Alla luce delle acquisizioni in punto di ontologica diversità tra la sentenza
di patteggiamento e la sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un
accertamento del reato e di un giudizio di colpevolezza, oltre che della
giurisprudenza costituzionale che le ha espressamente negato la natura di
sentenza di condanna, le Su (Su, 25 marzo 1998, Giangrasso) hanno escluso che
la sentenza con la quale viene applicata una pena su richiesta possa essere
assoggettata a revisione, sul presupposto che sono soggette a revisione solo le
pronunce di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e delle
prove.
È apparso allora ragionevole negare la revisione delle sentenze di
patteggiamento rispetto alle quali è strutturalmente impossibile. In assenza di
un conflitto di prove non può darsi luogo ad un raffronto tra un nuovo
significativo materiale probatorio e l’inesistente acquisizione probatoria che
ha preceduto l’adozione della sentenza di patteggiamento, pronunciata, per
espressa previsione di legge, sulla base degli atti, che appunto non sono
prove. Una volta che l’imputato rinuncia al diritto alla prova in cambio di un
vantaggioso trattamento penale, non è possibile che sia posto in condizione di
sottrarsi ai rischi della sua scelta con un indebito trattamento di favore
rispetto al pubblico ministero che, formato l’accordo sulla pena, non ha più
possibilità di articolare la prova per contrastare l’iniziativa di revisione.
Sarebbe poi fortemente contraddittorio che il sistema consentisse un giudizio,
con la revisione della sentenza, dopo avere con l’accordo delle parti impedito
il giudizio.
L’utilizzazione dell’endiadi sentenza equiparabile-sentenza non equiparabile a
una sentenza di condanna - e sotto tale profilo la
ratio decidendi si rivela solo in parte analoga a quella a base
della decisione in tema di revoca della sospensione condizionale della pena
ex articolo 178, comma 1, Cp – viene a
collocarsi in una posizione di diretta antinomia con la norma complementare che
prevede la revisione. Quel che è opportuno ricordare è che in tale caso il
criterio della “incompatibilità ontologica”, latente in numerose decisioni
delle Su che non hanno ravvisato nella disposizione dell’articolo 445, comma 1,
una norma di stretta interpretazione – viene utilizzato, questa volta in
malam partem, inibendo l’accesso al
mezzo straordinario di impugnazione per non potersi definire la sentenza che
applica la pena su richiesta una decisione di condanna. Per la verità, dalle
statuizioni delle Su emerge soprattutto la preoccupazione di rendere
compatibile il regime della revisione con una sentenza fondata sul
summatim conoscere che caratterizza la procedura
designandola di aspetti assolutamente peculiari, considerata l’assenza di una
plena cognitio condizionante ogni
possibilità di qualificare la sentenza ex articolo 444 e seguenti Cpp come una
sentenza di condanna. Sarebbe stata, forse, molto più agevole una lettura della
norma sulla base delle coordinate costituzionali che sono a base del giudizio
di revisione per pervenire ad una soluzione di diverso tipo, peraltro
corrispondente all’interpretazione seguita dalla giurisprudenza allora
prevalente. Ciò anche considerando che il modello procedimentale risulta in
gran parte ridimensionato ai fini sopra indicati solo riflettendo sulla
possibilità di accedere alla revisione nei confronti del decreto penale
divenuto esecutivo. Tanto da inferirne che solo apparentemente è il modello
procedimentale a precludere il ricorso alla revisione e ad individuare
l’effettiva
ratio decidendi a
fondamento della linea seguìta dalle Su e che può sintetizzarsi nella ravvisata
esistenza di una costruzione legislativa di un regime di equiparazione “a
determinati fini”, così assegnando una ridondante valenza ermeneutica al
modello ontologico pur in presenza del chiaro regime di equiparazione. Del
resto, la demolizione di quel che si è definito sistema di “incompatibilità
ontologica” (presupposto per la equiparazione circoscritta “a determinati
fini”) sarà destinata a rivelarsi la risultante di scelte normative – assunte,
per di più, nonostante il chiaro precetto dell’articolo 445 comma 1 – come è
dimostrato dall’introduzione della disciplina della revisione anche con
riferimento alla sentenza che applica la pena su richiesta, in forza
dell’articolo 3 della legge 134/03.
È evidente, allora, come la sentenza delle Su in tema di revisione assuma
valenza interpretativa ancor più significante rispetto alla decisioni della
Corte di cassazione nella sua più ampia composizione sulla problematica ora
all’esame della Corte. Le conseguenze afflittive (prima fra tutte
l’applicazione della pena) sono sottratte al mezzo straordinario di impugnazione,
nonostante l’attenzione da parte della dottrina e della giurisprudenza alla
necessità di plasmare l’istituto della revisione alla stregua delle peculiarità
del rito, contrassegnato da una verifica di procedibilità legata esclusivamente
al precetto dell’articolo 129 dello stesso codice.
Quel che, peraltro, occorre qui rimarcare è che in tema di revisione le Su
hanno esplicitato il rifiuto del principio di equiparazione, per giunta
direttamente ricollegandolo al profilo negoziale, quasi che il corredo di
incentivi premiali conseguenti alla “rinuncia a contestare l’accusa” implichi
la forzata rimozione all’accesso ad ogni strumento impugnatorio in grado di
restituite la verità dei fatti nella sua concreta effettività. Una soluzione di
davvero poco agevole comprensione e che si rivela doppiamente contrastante con
i principi costituzionalie sopra ricordati; per un verso, perché il regime
convenzionale non può, nell’ottica della Corte, costituire il presupposto per
una decisione “in ipotesi”, ontologicamente incompatibile con il mezzo
straordinario di impugnazione; per un altro verso, perché è l’assetto negoziale
a supplire – salvo i limiti derivanti dal controllo da parte del giudice della
cognizione – a verifiche postume rigororosamente procedimentalizzate in grado
di dissolvere il patto e di ricondurre il giudicato alla realtà probatoria
accertata nel postgiudicato.
12. Passando ad esaminare ora lo
ius
novum, va subito rammentato che le prime vere e proprie innovazioni del
quadro normativo riguardanti l’istituto dell’applicazione della pena su
richiesta si devono alla legge 479/99. E si tratta di interpolazioni
prescrittive di non trascurabile rilievo; pur dovendosi convenire che struttura
e funzione del patteggiamento restino, nel loro nucleo essenziale,
apparentemente indifferenziati rispetto alla precedente disciplina.
Nonostante le “novellazioni” derivino direttamente da statuizioni demolitorie
ultranovennali della Corte costituzionale (più in particolare dalle sentenze
313/90 e 443/90), è significativo rimarcare come le varianti apportate al testo
originario, che hanno rimodellato il precetto dell’articolo 444, comma 3, con
l’introduzione della previsione espressa del giudizio sulla “congruità della
pena” e della condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali in
favore della parte civile assumamo valenza molto più significante rispetto a
quanto la corrente interpretazione dell’istituto lasci intravedere. E ciò, non
tanto per il contenuto del detto rimodellamento, quanto perché esso viene in
essere in presenza di quel – più volte evidenziato – sincretismo interpretativo
che aveva contrassegnato, negli anni successivi al 1990, l’individuazione della
misura e dei limiti del controllo del giudice sull’assetto predisposto dalle
parti; così, quasi da ricondurre il punto di rilevanza ermeneutica – con
intuibili riverberi anche sulla natura della sentenza di applicazione della
pena – al contenuto delle affermazioni di principio incentrate sul “primato”
del controllo giurisdizionale rispetto alla regolamentazione negoziale che
costituisce il presupposto del procedimento. Una canonizzazione legislativa –
soprattutto quella riguardante la congruità della pena - che, per lo stesso
contesto in cui veniva ad assumere valenza esponenziale, rappresentava, proprio
per il momento in cui era stata introdotta, un dato ineludibile per il
legislatore futuro; un punto fermo in grado di condizionare ogni ulteriore
rimodulazione dell’istituto. Senza voler qui anticipare i complessi profili
problematici cui darà vita la “novella” del 2003, il “ritorno al passato” alla
base della legge 479/99 esprime una scelta assolutamente significante, rispetto
ad una giurisprudenza costituzionale ed ordinaria oscillante sulla prevalenza
del metodo interpretativo, assegnandola - quale condizione per la stessa
validità dell’accordo - ora all’assetto negoziale ora al momento
giurisdizionale. Il giudizio di congruità, divenuto da criterio eccezionale
operante solo in forza di un accertamento di responsabilità secondo lo schema
delineato dall’articolo 448 Cpp, diviene così lo specimen, legislativamente
predisposto, di ogni controllo del giudice, secondo un schema
costituzionalmente obbligato.
Si deve, inoltre, alla legge 479/99, attraverso l’interpolazione di alcune
disposizioni del titolo II del libro VI, in grado di imporre la definizione
consensuale del procedimento seguendo un disegno analogo a quello previsto per
il giudizio abbreviato, allo scopo di evitare tardivi mutamenti di rotta in
limine iudici, l’accentuazione dei
profili in grado di accomunare maggiormente il regime dei riti di risoluzione
anticipata. In più, le disposizioni, marcatamente deflattive cui si ispira
l’intervento del legislatore, hanno suggerito la contestuale predisposizione di
un meccanismo di recupero postumo dell’applicazione della pena proprio nella
fase introduttiva del giudizio dibattimentale per l’imputato che sia
intenzionato a rinnovare la richiesta di patteggiamento, anche diversamente
articolata, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. La peraltro
alquanto epidermica, rimodellazione del rito non ha prodotto gli effetti
sperati; tanto – sia detto per inciso - da far dubitare che il congegno così
predisposto sia in grado di attuare quella ragionevole durata del processo alla
base delle varianti adesso rammentate.
13. Come è noto, il testo originario dell’articolo 445, comma 2, Cpp prevedeva
che la sentenza di applicazione della pena, anche quando è pronunciata dopo la
chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi.
Un precetto interpretato ora come istitutivo di un premio-incentivo per la
scelta di un modello deflattivo ora come conseguenza “naturale” di tale tipo di
sentenza considerato che la decisione non contiene un’affermazione di
responsabiltà; pure se nell’ipotesi prevista dall’articolo 448 diviene
difficile giustificare la non identificazione di una simile pronuncia, adottata
all’esito del dibattimento, con una sentenza di condanna. Sennonché, il modello
prescelto dal legislatore sembrerebbe propendere per la ratio premiale, come
pare dimostrato dalla prescrizione secondo cui quando la sentenza è pronunciata
nel giudizio di impugnazione, il giudice decide sull’azione civile a norma
dell’articolo 578 Cpp.
D’altro canto, il regime previsto dall’articolo 651 Cpp ha riferimento alla
sola sentenza pronunciata in esito a dibattimento (o a giudizio abbreviato,
salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il giudizio
abbreviato); seguendo un modello che, peraltro, va valutato in chiave di esclusivo
diritto positivo, da non ricollegare necessariamente alla definizione del
procedimento in contraddittorio. Lo comprova la circostanza che il codice di
procedura penale del 1930 prevedeva l’efficacia del decreto penale di condanna
anche nei giudizi civili o amministrativi per le restituzioni o il risarcimento
del danno. Ne discende, dunque, che – così come per il decreto penale (articolo
460, comma 5) – la scelta del legislatore prescinde da dati sistematici (o,
addirittura, da profili ontologici) per predisporre, invece, una
disciplina-incentivo (come sembra desumersi dall’articolo 651, da interpretare,
sul punto, in stretta correlazione sia con l’articolo 445 sia con l’articolo
460).
A confermare univocamente le considerazioni che precedono diviene davvero
pertinente il richiamo alla legge 97/2001, che ha modificato il regime dei
rapporti tra giudizio penale e giudizio amministrativo disciplinare – per quel
che qui direttamente interessa – sotto un duplice ordine di profili. A parte
l’equiparazione della sentenza di assoluzione pronunciata a seguito di
dibattimento a quella pronunciata in esito a giudizio abbreviato o di non luogo
a procedere, nell’articolo 653 Cpp è stato inserito un comma 1
bis che sancisce l’efficacia di
giudicato delle sentenze penali irrevocabili di condanna nel giudizio per
responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto
all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e
all’affermazione che l’imputato l’abbia commesso. A sua volta, l’articolo 2
della legge 97/2001 aveva inserito nel secondo periodo dell’articolo 445, comma
1, riguardante gli effetti extra penali della sentenza di patteggiamento, le
parole “Salvo quanto previsto dall’articolo 653” (v., ora l’articolo 445, comma
1
bis).
Da ciò è dato rilevare, dunque, che – almeno ai fini disciplinari - il
combinato disposto dei precetti ora ricordate lascia ampi spazi di riflessione
sul tema della natura della sentenza di patteggiamento anche ai fini del
quesito ora al vaglio della Corte.
Si vuol dire, cioè, che l’efficacia extra moenia della sentenza che applica la
pena su richiesta (sia pure circoscritta all’ambito della sola responsabilità
disciplinare) travalica lo stesso ambito dell’efficacia extra penale della
sentenza penale, tradizionalmente limitata (v. articoli 3, 21, 27 e 28 Cpp del
1930) alla sentenza pronunciata in esito a dibattimento; con in più seguendo lo
schema corrispondente all’efficacia della sentenza penale di condanna nel
giudizio di danno derivante da reato. Il contenuto di “accertamento” ricavabile
dal precetto dell’articolo 653, comma 1
bis,
appositamente richiamato dall’articolo 445, comma 1-bis, non potrebbe mai
designare una decisione in ipotesi di responsabilità, rivelando invece
l’intento del legislatore di sottrarre dalla disciplina derogatoria (ma secondo
canoni che eccedono lo stesso ordinario assetto degli effetti extra penali
della sentenza di condanna, che avrebbe giustificato l’avverarsi dell’effetto
extra penale della sola sentenza “pronunciata dopo la chiusura del
dibattimento”) gli effetti della sentenza che applica la pena su richiesta
delle parti. Con ciò confermando la stretta interpretazione del precetto
dell’ultimo periodo dell’ora ricordato articolo 445, comma 1
bis ed il contenuto di accertamento che
contrassegna anche la decisione che applica la pena su richiesta.
Il valore innovativo della disposizione – che rappresenta, quali che possano
essere state le finalità perseguite dal legislatore, il vero punto di passaggio
verso una effettiva rimodulazione del patteggiamento – non pare in alcun modo
scalfito dalla sentenza costituzionale 394/02, che ha dichiarato
l’illegittimità dell’articolo 10, comma 1, della legge 97/2001, nella parte in
cui prevede che gli articoli 1 e 2 della stessa legge si riferiscono anche alle
sentenze di applicazione di pena su richiesta pronunciate anteriormente alla
sua entrata in vigore.
Tale decisione, infatti, nel suo riferirsi al solo regime intertemporale, già
resta designata da limiti intrinseci alla sua stessa valenza demolitoria; ma è
la
ratio decidendi che ne costituisce
la base argomentativa a rivelare come la Corte non abbia mancato di cogliere il
valore addirittura dirimente della innovazione; una caratteristica che, certo,
avrebbe – a regime – determinato, come è dato inferire dall’assetto complessivo
della statuizione, conclusioni di diverso tipo.
La Corte, infatti, pur insistendo sulla “componente negoziale” tipica del
patteggiamento, ha dichiarato illegittima la detta disposizione per avere
escluso il “beneficio” anche successivamente alla sentenza di patteggiamento,
tanto da modificare
in peius “effetti
salienti dell’accordo suggellato” dalla sentenza di applicazione di pena su
richiesta; così seguendo un modello che assegna valenza esponenziale al profilo
dell’accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito dell’imputazione.
L’imputato, cioè, è posto di fronte ad un’alternativa che investe
principalmente il suo diritto di difesa: concordare la pena ed uscire
rapidamente dal processo ovvero esercitare la facoltà di contestare l’accusa.
Cosicché, in forza della normativa denunciata, viene attribuito al consenso
prestato l’ulteriore significato “di una rinuncia alla difesa anche nel
successivo procedimento disciplinare”.
Una decisione, dunque, che pur accentuando ancora una volta il profilo
negoziale, sembra lasciare integra – anzi, pare rafforzare la percezione di un
mutamento di fondo del regime della sentenza che applica la pena su richiesta -
ogni riflessione sulla tipologia di accertamento giudiziale e sugli elementi,
di merito, cui si riferisce l’articolo 653, comma 1
bis, e sulle modalità attraverso le quali è possibile al
summatim cognoscere che circoscrive i
poteri di controllo del giudice del patteggiamento, una efficacia
extra moenia così penetrante. Senza
contare la natura esclusivamente “premiale” – quindi non intrinseca alla
tipologia del rito – da riconnettere all’assenza di efficacia della sentenza
che applica la pena nei giudizi civili e negli altri giudizi amministrativi.
14. Come è noto, in forza della legge 134/03, l’istituto dell’applicazione
della pena su richiesta delle parti ha decisamente cambiato pelle. Lo schema
negoziale rimasto apparentemente illeso, sembra però, in certo senso,
bilanciato dall’elevazione della pena massima per accedere al procedimento
nella misura di anni cinque di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria.
Dall’esame dell’assetto normativo una prima considerazione appare davvero
pertinente: se si vuole mantenere – come sembra necessario – una perfetta
simmetria fra patteggiamento minor e patteggiamento
maior, è necessario inferirne che è a quest’ultimo che occorre
riferirsi come lo specimen del patteggiamento, pure perché le novazioni più
significanti concernono entrambi gli istituti (si pensi al nuovo regime della
confisca e della revisione); cosicché non pare che il sistema degli incentivi
apprestati per il solo patteggiamento infrabiennale (si allude al regime delle
sanzioni sostitutive, all’esenzione dal pagamento delle spese processuali,
all’inapplicabilità delle pene accessorie e delle misure di sicurezza
personali, all’estinzione del reato) valgano a delineare un sistema in cui,
prevalendo le differenze sulle affinità, ci si trova in presenza di fenomeni
profondamente differenziati; al contrario, sono proprio le affinità che
designano i due istituti, non soltanto per il comune schema negoziale che ne è
alla base, ma per l’applicazione della riduzione di pena, per l’irrilevanza
della costituzione di parte civile salvo il pagamento delle spese di
costituzione e difesa della parte civile, per la non menzione della sentenza
nel certificato del casellario giudiziale, per l’inefficacia della sentenza nei
giudizi civili e amministrativi diversi dai giudizi disciplinari, per
l’azionabilità della revisione e per il regime più rigoroso riservato alla
confisca.
15. Fatte queste prime precisazioni, va – ancora una volta – ricordato come il
trasferimento dall’articolo 448 all’articolo 444, comma 2, del criterio di
congruità della misura della pena rappresenta un elemento che, per quanto
direttamente scaturente dalle statuizioni della sentenza costituzionale 313/90,
viene ad acquistare una valenza davvero designante proprio se preordinata a
collegarsi all’elevazione della pena condizionante l’accesso al procedimento in
esame.
L’apparente omogeneità del “nuovo” patteggiamento sembrerebbe restare subito
compromessa dalla previsione di talune esclusioni oggettive e soggettive perché
possa essere instaurata la procedura; il tutto se e sempreché la pena applicata
superi i due anni di reclusione.
L’elevazione del tetto di pena per l’introduzione del rito previsto
dall’articolo 444 e seguenti Cpp non sembrerebbe, infatti – come è stato
rilevato in dottrina – assumere una designazione meramente quantitativa se
posta in relazione con l’articolo 111, comma 4, della Costituzione, solo
osservando che l’elusione del principio del contraddittorio nella formazione
della prova rischia di ribaltare il rapporto regola-eccezione per una parte da
definire addirittura prevalente delle regiudicande penali. Una constatazione
che, peraltro, non inficia in modo decisivo la tenuta costituzionale
dell’istituto nel suo complesso. Non a caso, infatti, la Corte costituzionale,
chiamata a decidere della legittimità, in riferimento agli articoli 3 e 111 della
Costituzione, dell’articolo 444 Cpp ha dichiarato non fondata la relativa
questione, precisando come la sottrazione al giudizio ordinario della
cognizione di diversi reati di notevole gravità e la paventata riduzione del
sistema penale e processuale “a un luogo di negoziazione che svilisce la
funzione giurisdizionale”, non integra l’elusione del canone della formazione
della prova nel contraddittorio tra le parti, trasformando in principio
generale l’eccezione prevista dall’articolo 111, quinto comma, della
Costituzione. Ha osservato la Corte che il sistema protettivo predisposto dal
legislatore nel delineare la disciplina del nuovo patteggiamento, mediante la
predisposizione di preclusioni oggettive e soggettive in relazione alla gravità
dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata dell’imputato, oltre che in
considerazione della non operatività di importanti effetti premiali, consentono
di ritenere che la scelta di dilatare l’area di incidenza dell’istituto
rappresenta la risultante della discrezionalità del legislatore, certo non
esercitata in modo irragionevole (Corte costituzionale, sentenza 134/03).
16. Dalla lettura del complessivo sistema normativo risultante dalla legge
134/03 ne emerge comunque un assetto unitario, contrassegnato da talune varianti
non decisive per inferirne una sorta di asimmetria del rito, solo considerando
la prevalenza delle identità piuttosto che delle divergenze, secondo un modello
entro il quale il concomitante profilo teleologico costituisce la conferma
(pure al di là della significativa sistemazione topografica, non a caso
caratterizzata da un’accentuata unitarietà) dell’esigenza di una unitaria
qualificazione assiologica della procedura speciale dell’applicazione di pena
su richiesta.
Le varianti, in ogni caso, non incidendo né sulla struttura né sulla funzione
della pena patteggiata, non paiono dotate di valore così esponenziale da
comportare una
lectio strettamente
condizionata alla misura dei “benefici” apprestati dal legislatore. Del resto,
pur dovendosi assegnare all’innalzamento della pena “patteggiabile” una valenza
non esclusivamente quantitativa se rapportata alla normativa complementare che
costituisce parte di predominante rilevanza ermeneutica del
novum, la struttura negoziale ed i
modelli di controllo sono identici sia per
l’editio
minor (
olim, la sola
disciplinata) sia per l’
editio maior.
Né l’elevazione della pena patteggiabile può determinare decisivi squilibri
rispetto al patteggiamento delineato ante riforma salvo a cadere in suggestioni
interpretative, come tali sprovviste di effettiva forza ermeneutica,
utilizzando criteri di verifica basati esclusivamente sulla misura della pena;
anche se, proprio a tale elevazione – che pure non è in grado di rendere
disomogenee le due
editiones – non
può corrispondere una qualche presa di distanza da linee interpretative che
assegnano all’applicazione della pena un contenuto negoziale prevalente
rispetto alla funzione giurisdizionale in cui si concretizza l’opera di
controllo sulla “legalità” (intesa l’espressione in senso ampio) dell’accordo
pure alla stregua del precetto dell’articolo 27, terzo comma, della
Costituzione, al quale l’articolo 444 fa ora – sia pure implicito – richiamo.
17. Come si è accennato, il patteggiamento consta di un regime premiale comune
ad entrambi gli istituti e di un regime premiale conseguente al solo
patteggiamento da cui derivi l’applicazione di una pena non superiore a due
anni di reclusione soli o congiunti con pena pecuniaria.
Quanto al primo, gli snodi cruciali sono rappresentati dalla riduzione di un
terzo della pena indicata dalle parti, dall’irrilevanza della costituzione di
parte civile salvo il pagamento delle spese sostenute dalla parte civile
stessa, dall’inefficacia della sentenza nei giudizi civili o amministrativi,
con esclusione del giudizio disciplinare, a norma dell’articolo 653, comma 1
bis, Cpp.
Ferma, quindi, l’unitarietà dell’istituto e l’incidenza delle “novelle” del
1999 e del 2001, non può, in primo luogo, sfuggire come l’innalzamento della
pena patteggiabile ad anni cinque di reclusione (con in più, le preclusioni
della possibilità di accesso al rito cui si è or ora accennato) imponga una
verifica dell’effettiva portata precettiva dello
ius novum, proprio muovendo dal modello di equiparazione ora
trasferito nel precetto dell’articolo 445, comma, 1
bis. L’aspetto qualitativo sembra, infatti, precedere, secondo
l’opzione simmetrica cui queste Su ritengono di uniformarsi - in un panorama
entro il quale valore complementare assumono, da un lato, la disssoluzione
degli approdi giurisprudenziali in tema di accesso alla revisione e, dall’altro
lato, il nuovo regime della confisca, peraltro già introdotto da talune leggi
speciali – il profilo concernente il tetto di pena per accedere alla procedura.
Ma, per restare ad un tema del tutto intrinseco alla disciplina
dell’applicazione di pena su richiesta, assume subito rilievo dirimente la
prosecuzione dell’assetto normativo rimodellato già nel 1999, laddove ci si
riferisce alla pena “irrogata”; un’espressione che, tecnicamente intesa, lungi
dall’esprimere un mero dato nominalistico, sembra coordinarsi strettamente al
regime di equiparazione ed ai modelli complementari che rendono la sentenza di
applicazione della pena una sentenza di condanna, salvo il regime derogatorio
di cui all’articolo 445, comma 1
bis,
Cpp
Può dirsi così che mentre la pena “applicata” esprime il contrassegno della
specialità del rito, la pena “irrogata” designa la risultante del principio di
equiparazione reso palese – nell’ineludibile unitarietà dell’istituto -
dall’applicazione, nell’
editio maior,
di un regime che non può che conseguire da una sentenza di condanna, e che si
concentra nella condanna alle spese del procedimento e nell’applicazione delle
misure di sicurezza.
Il quadro che ne discende, anche in forza dell’elevazione della pena che
legittima l’accesso al rito, induce, dunque, ad assegnare valore esclusivamente
normativo al principio di equiparazione ed impone di ritenere la stretta
interpretazione delle varianti che compongono il regime derogatorio.
18. Nel nuovo sistema decisamente più consistenti sono gli incentivi che
rendono accattivante il ricorso all’
editio
minor, considerata l’applicabilità delle sanzioni sostitutive (secondo i
ritocchi apportati dall’articolo 4 della legge 134/03), l’esenzione dal
pagamento delle spese processuali, l’inapplicabilità delle pene accessorie e
delle misure di sicurezza con eccezione della confisca nei casi previsti
dall’articolo 240 Cp, l’estinzione del reato se nel termine di cinque anni,
quando la condanna concerne un delitto ovvero di due anni quando la condanna
concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole. Conseguendone l’estinzione di ogni effetto
penale e, se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva,
l’applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una sospensione
condizionale della pena.
Ne consegue che l’
editio maior comporta
l’obbligo del pagamento delle spese processuali, l’applicazione delle pene
accessorie (interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una professione o
da un’arte, interdizione legale, interdizione temporanea dagli uffici direttivi
delle persone giuridiche e delle imprese, l’incapacità a contrattare con la
pubblica amministrazione, la decadenza dalla potestà dei genitori e la
sospensione dall’esercizio di essa, la sospensione dall’esercizio di una
professione o di un’arte, la sospensione dall’esercizio degli uffici direttivi
delle persone giuridiche o delle imprese, la pubblicazione della sentenza di
condanna, secondo i modelli rispettivamente indicati dagli articoli 28, 30, 32,
32
bis, 32
ter, 34, 35, 35
bis, 36,
Cp oltre ad alcune ipotesi extravaganes) e delle misure di sicurezza, compresa
la confisca nei casi previsti dall’articolo 240 Cp.
19. Come si è già fatto cenno, tra le prescrizioni in peius derivanti dalla
“novellazione” (altri effetti dello stesso tipo saranno presi in esame
analizzando il complessivo assetto normativo derivante dalle innovazioni
introdotte dalla legge n. 134 del 2003) è l’eliminazione di ogni limite
all’applicazione della confisca (un effetto comune alla
editio minor ed all’
editio
maior) circoscritta, nel sistema originario del Cpp 1988 alle ipotesi
indicate nell’articolo 240, comma 2, Cpp. Cosicché al verificarsi del
presupposto per la confisca obbligatoria o di quella facoltativa il giudice è
tenuto ad applicarla, a prescindere dall’intervenuto accordo delle parti sul
punto; così uniformandosi la disciplina dell’ablazione della res a quella
stabilita per il giudizio ordinario e per gli altri giudizi speciali.
La soppressione dell’effetto premiale sancito dalla normativa abrogata in tema
di misure di sicurezza non può giustificarsi altrimenti che in funzione di una
più penetrante assimilazione della sentenza di patteggiamento alla sentenza di
condanna, tale comunque da imporre il regime di equiparazione in termini di
stretta interpretazione, solo considerando che il prodotto il profitto e il
prezzo del reato sul piano dell’accertamento sono assoggettati, per la
ontologica derivazione dal fatto commesso, ad una decisione dalla quale è, con
una qualche difficoltà, possibile intravedere una verifica corrispondente a
quella di una sentenza in ipotesi di responsabilità. Il tutto, peraltro, in
presenza di un diritto vivente decisamente contrario ad un’interpretazione
“estensiva” dell’articolo 445 ante riforma e di significativi approdi normativi
raggiunti – anche in materia di confisca disposta a seguito di sentenza di
applicazione della pena su richiesta – da leggi speciali.
20. Come si è già detto, le Su di questa Corte, sul presupposto della
ontologica diversità della sentenza che applica la pena su richiesta rispetto
alla sentenza di condanna, per l’assenza nella prima di un accertamento del
reato e di un giudizio di colpevolezza, hanno escluso che la pronuncia emessa a
norma dell’articolo 444 e seguenti Cpp sia assoggettabile al giudizio di
revisione, sul presupposto che sono soggette a tale mezzo di impugnazione solo
le sentenze di condanna con accertamento pieno ed incondizionato dei fatti e
delle prove (Su, 25 marzo 1998, Giangrasso).
Proprio alla stregua di tale pronuncia, la legge 134/03, ha interpolato
l’articolo 629, comma 1, Cpp assoggettando a revisione anche le sentenze di
applicazione della pena su richiesta delle parti.
Se l’inserimento nel “pacchetto” riformulatorio dell’istituto del
patteggiamento pare la risultante della elevazione della pena che può essere
oggetto di accordo e delle conseguenze derivanti dall’utilizzazione del modello
che si è denominato
editio maior, il
fatto, però, che il mezzo straordinario di impugnazione abbia coinvolto
l’intero istituto - una soluzione da ritenere necessitata non solo per
intuibili ragioni sistematiche, ma anche per mantenere un’intrinseca
razionalità all’istituto stesso - ha riproposto le problematiche circa la
natura della sentenza che applica la pena soprattutto considerando l’incidenza
sul postgiudicato della revisione.
Ed a tale stregua non può che concludersi nel senso che il ricorso a tale mezzo
straordinario di impugnazione – il cui effettivo perimetro di operatività non
ha ancora trovato un rassicurante assestamento - rappresenta il sintomo più
chiaro della necessità di un ritorno al regime della equiparazione in termini
di assoluto rigore ermeneutico.
Una tale conclusione, peraltro, non implica un processo di vera e propria
identificazione tra i due tipi di pronuncia, ma sta univocamente a significare
che il regime di equiparazione, ora codificato alla stregua della normativa
complementare più volte menzionata, non consente di rifuggire dall’applicazione
di tutte le conseguenze penali della sentenza di condanna che non siano
categoricamente escluse.
Già i primi apporti ermeneutici di questa Corte Suprema sembrano sottrarsi
dalla qualificazione della decisione che applica la pena come sentenza di
condanna, con conseguenti riverberi quanto alla motivazione, dovendosi ritenere
sul punto ancora pienamente operanti gli approdi interpretativi della sentenza
Di Benedetto. È chiaro che proprio l’accesso alla revisione costituisce, per i
casi previsti dall’articolo 630 Cpp e per meccanismi operanti soprattutto in
sede di ammissibilità dall’articolo 634 dello stesso codice, uno dei profili
che potrebbero indurre ad una soluzione debordante dai precedenti risultati
interpretativi di queste Su.
In proposito, una recente decisione, ha dichiarato la manifesta infondatezza
della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 629 Cpp (forse,
peraltro erroneamente chiamato in causa alla stregua del
petitum perseguito dal ricorrente) eccepita sul presupposto che la
sentenza che applica la pena su richiesta, in forza della novella normativa che
consente la revisione, va qualificata come vera e propria sentenza di condanna,
alla cui base deve, dunque sussistere un pieno accertamento di responsabilità.
La Corte ha considerato una forzatura l’intepretazione proposta evidenziando un
dato letterale esplicitato dalla disposizione dell’articolo 629 Cpp,
ritenendolo decisivo. Tale precetto disgiunge, in riferimento alla revisione,
le sentenze di condanna dalle sentenze emesse ai sensi dell’articolo 444, comma
2, perché le menziona raccordate dalla particella “o”, mostrando di avere ben
presente che la sentenza di applicazione della pena su richiesta non è una decisione
“di condanna”, ma è soltanto ad essa equiparata. L’equiparazione alle sentenze
di condanna giustifica l’assoggettamento alla revisione e non fa della sentenza
di patteggiamento una sentenza di condanna in senso proprio. Anche qui
l’affermazione che la sentenza di patteggiamento non afferma la responsabilità
in ragione della struttura negoziale del rito, nel quale l’imputato esonera
l’accusa dalla prova dei fatti addebitati nell’imputazione assume valore
dirimente, con la conseguenza che la motivazione è sufficientemente formata con
l’indicazione delle valutazioni sulla sussistenza del consenso delle parti,
sull’insussistenza delle condizioni in presenza delle quali deve essere
pronunciata sentenza di proscioglimento
ex
articolo 129 Cpp, sulla correttezza della qualificazione giuridica del fatto,
dell’applicazione e comparazione delle circostanze, e sulla congruità della
pena (Sezione settima, 4 marzo 2004, Anizi).
Una soluzione, quella ora ricordata, che sembra però trascurare le effettive
caratteristiche distintive della sentenza di patteggiamento rispetto alla
sentenza di condanna alla quale la prima è, pur sempre (soltanto) equiparata.
Cosicché il dato letterale, vale a dire, l’uso della disgiunzione “o” nella
giustapposizione delle sentenze di condanna alle sentenze di patteggiamento
all’interno della previsione dell’articolo 629 Cpp, è assolutamente irrilevante
sia perché la stessa particella disgiuntiva era utilizzata per legare la
sentenze di condanna al decreto penale che è anch’esso provvedimento di
condanna sia perché il legislatore del 2003, inserendo le più volte richiamate
innovazioni, tra le quali la revisione, sembra assegnare proprio a tale mezzo
di impugnazione una rilevanza davvero esponenziale. Così ancorando il disposto
dell’articolo 445, comma 1-bis alla sua effettiva valenza precettiva sia perché
l’interpolazione dell’articolo 629 Cpp viene a configurarsi come una sorta di
interpretazione autentica del previgente articolo 445, comma 1, ultimo periodo,
alla stregua delle conclusioni delle Su circa l’inapplicabilità al
patteggiamento dell’istituto della revisione sia perché l’accesso a tale mezzo
di impugnazione, rappresentando una vicenda costituzionalmente obbligata, si
giustifica solo alla stregua delle prese di posizione di questa Corte. Resta,
peraltro, aperta la problematica - in ordine alla quale il Collegio non è stato
chiamato a pronunciarsi - circa i criteri di adattamento della revisione ad un
regime che, almeno in sede cognitoria, mantiene quale regola di giudizio, ai
fini del proscioglimento, la disposizione dell’articolo 129 Cpp.
21. Le considerazioni che precedono conducono conseguentemente a ritenere che
il regime di equiparazione, ricondotto al suo rilievo letterale, oltre che alle
esigenze teleologiche perseguite dal legislatore, che ne costituiscono il
necessario momento complementare, impediscano a queste Su, per tornare al
quesito interpretativo sottoposto al vaglio della Corte, di proseguire nella
linea ermeneutica delineata dalle tre più volte richiamate decisioni, stando
alle quali la revoca di diritto della sospensione condizionale della pena,
nell’ipotesi in cui il condannato commetta un delitto ovvero una
contravvenzione della stessa indole per cui venga inflitta una pena detentiva,
non opera nel caso in cui al condannato stesso sia stata irrogata una pena in
forza di una sentenza pronunciata a norma dell’articolo 444, e seguenti, Cpp.
Ai sensi dell’articolo 173, comma 3, delle norme di attuazione del Cpp va,
dunque, enunciato il seguente principio di diritto: “la sentenza emessa
all’esito della procedura di cui agli articoli 444 e segg. Cpp poiché è, ai
sensi dell’articolo 445, comma 1-bis, equiparata, “salvo diverse disposizioni
di legge a una pronuncia di condanna” costituisce titolo idoneo per la revoca,
a norma dell’articolo 168, comma 1, n. 1, Cp, della sospensione condizionale
della pena precedentemente concessa”.
22. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato ed il ricorrente condannato al
pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento
delle spese processuali.