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Un primo commento sulle modifiche apportate dalla "Pecorella-bis"
In merito alle innovazioni codicistiche riguardanti l’appello negato al PM in caso di assoluzione dell’imputato in primo grado (c.d. Legge Pecorella), un argomento che non è posto - almeno a nostra conoscenza - nel dovuto rilievo è quello della “funzione” dell’appello. L’argomento di perplessità verso detta novella parte da un dato preliminare: Quale è la “funzione” del secondo grado di giudizio? Perchè un ordinamento pone a repentaglio la credibilità del proprio apparato giudiziario, rischiando di vedere contraddetta una decisioine dei propri giudici? Nella Repubblica di Venezia, ad esempio, la domanda di appellazione era sottoposta ad un previo esame politico-costituzionale volto proprio a valutare le immancabili conseguenze negative di immagine che due sentenze contrastanti dei giudici lagunari avrebbero apportato alla Repubblica.
Orbene, sembra si possa correttamentre affermare che l’appello ha la funzione di “correggere” gli eventuali “errori” del giudice di primo grado. Anche nella pratica giudiziaria, i motivi dell’appello vengono infatti articolati nelle formule “Ha errato il primo giudice... ecc.”.
In altri termini, il punto fondamentale dell’osservazione è il seguente: “l’appello non esiste per favorire l’imputato o l’accusa”. Esso esiste per garantire, per quanto possibile, la “giustizia” o la “giustezza” della decisione, insomma per garantire l’inesistenza di errori nella giurisdizione, come preminente interesse della Comunità.
Ciò posto, è evidente che “l’errore” del primo giudice può condurre ad una condanna ingiusta e illegittima ma egualmente ad una assoluzione ingiusta e illegittima. E qui si pone il rilievo che si richiama all’attenzione degli studiosi: Come si può ragionevolmente, prima ancora che giuridicamente, giustificare la possibilità che l’imputato ingiustamente condannato per un errore del primo giudice possa fare ricorso al secondo grado di giudizio per vedersi riconosciuta la corretta applicazione della legge, mentre il PM, a fronte di un imputato ingiustamente assolto per un errore del primo giudice non possa fare ricorso al secondo grado di giudizio per vedersi riconosciuta la corretta applicazione della legge? E’ interesse dello Stato sia che un innocente non venga erroneamente condannato, ma anche che un colpevole non venga erroneamente prosciolto.
Non si riesce a vedere la “ragione” di un trattamente favorevole per uno solo dei due soggetti, entrambi estranei all’errore ravvisato, che è solo errore del primo giudice. La situazione può anche così esprimersi: se il giudice di primo grado condanna, può aver “errato” nella decisione; se il giudice di primo grado assolve, per definizione egli non ha errato.
Si ritiene che in questo caso la presunzione di innocenza costituzionalmente riconosciuta non sia richiamata a proposito e che anzi essa non abbia nulla a che vedere con la problematica che si analizza. Sembra essersi invece introdotta una strana “presunzione assoluta” di “giustizia” in tutti i casi di assoluzione in primo grado.
Nè il divieto di appello da parte del PM può far pensare ad una sanzione processuale verso un possibile comportamento professionalmente insufficiente dell’accusa (non si parla qui di prove “nuove” non cercate o non trovate in sede istruttoria), atteso che, come è pacifico, non è l’accusa ad aver “errato” (attività professionale insufficiente) bensì, in ipotesi, il giudice; mentre le conseguenze dell’errore di un soggetto del processo vanno a danno di una sola delle altre due parti. La situazione insomma non può non lasciare interdetti. Sembra a noi che dubbi di costituzionalità possono essere ravvisati anche sotto questo profilo che meriterebbe un maggiore approfondimento.
- dott. Giuseppe Alù - aprile 2006 (riproduzione riservata)
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