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Alessia Sorgato, Legge Pecorella: prime note. Tre autorevoli punti di vista
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Legge Pecorella: primi commenti

Entrata in vigore il 9 marzo 2006, la legge n. 46, in breve c.d. Legge Pecorella, sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, ha destato svariati dibattiti e dato spunto per incontri di approfondimento. Di due di questi si intende qui, molto succintamente, dare conto, onde offrire agli iscritti alcuni punti di vista, certamente molto autorevoli, utili per le loro riflessioni ed eventualmente l’approntamento delle loro strategie processuali.

Si tratta qui di dare atto dell’opinione manifestata, a proposito dei passaggi salienti della nuova disciplina, da parte rispettivamente del legislatore, di un professore di diritto processuale penale e di un Procuratore Generale.

In data 13 marzo, anzi tutto, la Camera Penale di Milano ha invitato l’on. Gaetano Pecorella ad illustrare quelli che ritenesse i punti cruciali, o comunque forieri di maggiori problematiche applicative della normativa che porta il suo nome, e questi, presentato dal nostro Collega di lista Avv. Vinicio Nardo, si è confrontato con l’avv. Giuliano Spazzali e tutti gli intervenuti, ivi compresi alcuni rappresentanti della Procura Generale locale.

L’on. Pecorella si è soffermato in particolare:

1 – sull’avvenuta eliminazione del potere, in capo al pubblico ministero, di impugnare le sentenze di proscioglimento,

2 – sull’obbligo di richiedere l’archiviazione, quando la Cassazione abbia confermato l’inesistenza di gravi indizi in sede cautelare,

3 – sulla modifica dell’art. 606 c.p.p.,

4 – sul principio per cui la condanna deve fondarsi su una prova di colpevolezza che superi ogni ragionevole dubbio.

Ha ricordato, in incipit, come il procedimento accusatorio sia impregnato di presunzione di innocenza, e come il Pubblico Ministero sia impegnato a superarla: l’intera riforma è ispirata al principio per cui, qualora non vi riesca in primo grado, detta presunzione divenga assoluta.

E ancora, che la prova si forma in contraddittorio avanti al giudice che deve assumere una decisione, e detta prova riveste un valore tale da non essere superabile mediante una mera rilettura delle carte, cui è corollario armonico l’eccezione inerente le nuove prove, su cui è fondabile l’appello.

All’obiezione – che ha riferito aver ricevuto – sulla eventuale “occasione mancata” di riformare altresì le norme sulla impugnazione delle sentenze di condanna, l’on. Pecorella ha risposto come, almeno allo stato, il sistema sia apparso sufficientemente garantito, anche e soprattutto a livello costituzionale e trans-nazionale (basti riferirsi all’art. 14 comma 5 del Patto internazionale).

Tornando ai principi ispiratori, ha ricordato il legame sussistente tra la presunzione di innocenza e la necessità che essa, se superata, lo sia in maniera particolarmente pregnante (espressione tradotta dall’angloamericano “beyond any reasonable doubt”, ossia ).

Quanto al punto di partenza, per cui è stato ridimensionato il potere di impugnazione in capo al pubblico ministero, il relatore ha accennato alle due sentenze di Corte Costituzionale, rispettivamente pronunziate nel 1991 e nel 1994, quando si è affermato, intanto, che il principio di parità delle parti a quello non si estenda, ed è quindi tornata ad sostenerlo, tre anni più tardi, occupandosi di una questione inerente la preclusione, per l’organo dell’Accusa, di appellare le sentenze rese in giudizio abbreviato.

Quali le prime obiezioni? Il diritto di parità delle armi – per l’appunto – garantito alle parti processuali dall’art. 11 Costituzione. Ma, e questa è la sua contro-obiezione, il principio costituzionale è dedicato alla formazione della prova, e solo a quella, e non può essere traslato tout court in altri ambiti, quale quello delle impugnazioni, se non altro perché andrebbe espressamente previsto. Del resto, le parti processuali non sono pari in svariate altre materie, dai poteri investigativi a quelli coercitivi. Nulla quaestio, in definitiva, che quell’assunto sia limitato al contraddittorio.

Facendo poi un breve accenno ai punti nodali della recente questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte d’Appello di Venezia, che – alla ricerca di qualche base per sostenere, al contrario, il dovere di parità di armi tra le parti, ha ravvisato a fondamento del potere di impugnazione in mano alla difesa l’art. 24 Cost. e, quanto al P.m., nell’obbligatorietà dell’azione penale-, l’on. Pecorella ha obiettato che quest’ultima si esprime, e si esaurisce, nell’esercizio della suddetta, e quindi nella predisposizione della richiesta di rinvio a giudizio, e non possa essere stirato, allungato, fino ai successivi gradi di giudizio, tanto meno per adirli.

Quando invece il p.m. potrà appellare una sentenza di proscioglimento? A proposito di questo, il legislatore ha ricordato brevemente le definizioni di prova “nuova” e prova “decisiva”, laddove la prima richiama la distinzione tra prova “sconosciuta in precedenza” e prova “inesistente in precedenza”. La formula legislativa adottata propende per la limitazione alle prove che nascano successivamente alla sentenza di primo grado: diversamente avrebbero aggiunto la locuzione “ o emersa successivamente”.

Quanto poi al connotato della “decisività”, ha affermato che esso è stato mutuato direttamente dalle formule della Revisione, e quindi che si possa ravvisare qualora, in presenza di detta prova, il giudizio di primo grado avrebbe potuto essere svolto diversamente ed il giudice di primo grado di essa avrebbe senza dubbio tenuto conto.

Quando la Corte d’appello potrà dichiarare inammissibile un appello del p.m., presentato sulla scorta della norma eccezionale? L’interpretazione autentica deve propendere per una pronunzia preliminare, ma adottata comunque nel contraddittorio delle parti, che verterà quindi sui criteri della novità e della decisività della prova.

Se la Corte dovesse dichiarare inammissibile l’appello del Pubblico Ministero, questo non si convertirà automaticamente in ricorso in Cassazione, ma ambedue le parti saranno rimesse in termini per adire la Suprema Corte sia contro l’ordinanza della Corte d’Appello che contro la sentenza di primo grado.

Alla domanda se il p.m., già eccezionalmente appellante, possa addurre la prova nuova con “motivi nuovi”, ossia quelli più correntemente detti “aggiunti”, l’on. Pecorella ha precisato che saranno ammissibili soltanto quelli collegati a detta prova nuova, quindi già accennati con il gravame principale, oppure relativi ad una seconda, o comunque ulteriore, prova nuova.

La conversione dell’appello in ricorso per Cassazione, sancita nei casi di connessione ex art. 12 c.p.p., non è estesa al caso dell’eventuale appello della parte civile. Intanto perchè ciò non è stato espressamente stabilito dalla legge, e ancora perché il potere d’appello di detta parte è configurato, ma esclusivamente sul danno, quindi è sganciato dal processo penale.

La conversione in parola non recupera il diritto d’appello del p.m.: i suoi motivi di ricorso in Cassazione sono valutati dalla Corte d’Appello.

Sullo spinosissimo argomento del potere d’appello della parte civile, il legislatore ha esordito come si sostenga che essa detenga solo il potere di ricorrere in Cassazione, ma che non sia così: ora la sua impugnazione è sganciata da quella del p.m.. L’intenzione della riforma era proprio quella di sdoganarla proprio per consentirle di appellare laddove il P.m. venga invece privato di quel diritto.

Quanto alla norma transitoria, ossia fino a che fase dell’appello si possa dichiararne l’inammissibilità, è stato indicato l’usuale momento dell’inizio del dibattimento – evidentemente di secondo grado – tant’è vero che si parla di ordinanza. E se si è verificato l’annullamento della sentenza di appello in Cassazione, è rilevante nella parte in cui non ha riguardato l’applicazione della pena, mentre sul resto è sceso il giudicato.

Quanto alla riforma del giudizio in Cassazione, ed alla critica per cui esso possa trasformarsi in una fase di merito in contrasto con l’art. 111 Cost., è stato brevemente riassunto come, precedentemente alla novella, la Corte potesse valutare se, alla luce di quanto scritto in sentenza, la motivazione fosse logica o illogica.

Nel caso in cui il giudice estensore avesse ignorato una prova, e la motivazione apparisse comunque logica, la sentenza restava esente da censure.

Ma tutto ciò che non era espressamente considerato in sentenza non poteva essere oggetto di esame da parte della Cassazione, il che appariva francamente ingiusto.

Questa è l’innovazione: la motivazione può essere ricavata internamente dalla sentenza, ma la sua congruità va valutata dall’esterno, ossia dal complesso delle risultanze del processo.

Oggi quindi, nei motivi di doglianza, vanno indicate le prove “ignorate”.

Si profila il rischio di una interpretazione abrogatrice. La sentenza Andreotti aveva affermato che se il difensore, in Appello, presenta altre prove oltre a quelle esaminate in primo grado, e la Corte d’Appello non le considera, si verifica un caso di carenza di motivazione.

Contra, sussiste giurisprudenza che consente al giudicante di non rispondere a tutti i temi profilati dall’imputato.

Ma, alla luce della riforma, ben si può precisare come – in quel caso – si parlasse di memorie della difesa, che son cosa ben diversa dalle istanze.

Se le prove nuove vengono indicate in memorie, e la corte d’appello le travisa o le oblitera, si torna al caso pre-vigente.

Tutto considerato, attesa una formulazione della norma non chiarissima, il consiglio è di indicare già nei motivi di appello le prove diverse, ulteriori e decisive, e fare istanza di acquisizione, onde poi potersi dolere in Cassazione in caso di rifiuto. Da qui le conclusioni saranno le seguenti: se la difesa chiede una prova decisiva e questa non viene assunta dalla corte d’appello, se ne farà motivo di ricorso in Cassazione. Altrettanto se, una volta assunta, la prova verrà travisata o pretermessa.

Questa disposizione è stata introdotta ad ulteriore rafforzamento del principio accusatorio ed al primato della formazione dibattimentale della prova. 

 

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La settimana successiva, lunedì 20 marzo, nell’ambito dell’incontro organizzato dalla Formazione Decentrata del CSM, sono convenuti la prof. Novella Galantini, ordinario di procedura penale all’Università Statale di Milano, e il dott. Fontana della Procura Generale.

Questi i loro contributi.

Intanto una considerazione di massima da parte della prof. Galantini: la tecnica legislativa utilizzata per questa legge “rasenta la trascuratezza”: ciò si deve probabilmente alla stratificazione sovrappostale a seguito dell’intervento presidenziale, ben emersa nello svolgimento delle questioni di legittimità costituzionale già proposte.

Esse hanno preso a parametro 4 norme della Costituzione: il principio di parità (art. 3), ded contraddittorio (art. 111), di obbligatorietà di esercizio dell’azione penale (art. 112), di durata

ragionevole del processo (ancora art. 111) e infine di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97) sotto l’aspetto dell’efficienza del lavoro della corte di Cassazione, frustrata dall’eccessivo carico che il principio di conversione – dettato dalla norma transitoria – le immetterebbe.

A parere della prof. Galantini, è lecito dubitare del successo di dette questioni di legittimità costituzionale sotto il profilo soggettivo: fisiologico infatti, e connaturato al sistema, è che sussistano differenze tra parti processuali, e comunque che il principio di parità non configge con quello di non identità di poteri (vedasi da ultimo Corte Cost. 2004), ed ancora che i piani tra esercizio dell’azione penale ed esercizio del diritto di impugnazione sono diversi.

Paradossalmente il problema della disparità pare eliminato dalla stessa legge Pecorella, laddove condiziona l’appellabilità anche in capo all’imputato, il quale potrà impugnare la sentenza di proscioglimento in base a prove insufficienti o contraddittorie (prima della riforma veniva considerato appello inammissibile per carenza di interesse).

E’ molto più percorribile quindi la via delle questioni di legittimità fondate su motivazioni oggettivanti, intanto perché è ragionevole distinguere tra sentenze di proscioglimento e di assoluzione e quindi verificare se sia parimenti fondato rendere inappellabili sentenze che, pur formalmente di proscioglimento, contengano profili di merito (per esempio sulla non imputabilità e quindi sull’applicazione di misure di sicurezza. L’art. 680 c.p.p. si può considerare ancora operante?).

Ed ancora, ci si potrà interrogare se sia ragionevole questa inappellabilità, introdotta dalla Riforma, a confronto con altre, già previste dal codice – quali quella della sentenza di patteggiamento, da ricorrere in Cassazione se si eccepisce un’ipotesi ex art. 129 c.p.p., o quella di proscioglimento pronunziata in giudizio abbreviato – le quali sono certamente basate sul principio di economia processuale, trattandosi di processi a prova contratta.

O ancora, raffrontarla con le sentenze del giudice di pace, inappellabili in quanto dedicate a reati di minore offensività, e comunque non portatrici di limitazioni alla libertà personale, con espresso riferimento al Protocollo n. 7 del Patto sui Diritti dell’Uomo; ed infine con le sentenze predibattimentali di proscioglimento, che sono fondate su di una sorta di consenso delle parti.

Quanto ai nuovi limiti all’appellabilità della sentenza di non luogo a procedere in udienza preliminare, hanno ridotto il ruolo soggettivo dell’imputato, che perde questa qualifica, per riprenderla eventualmente in caso di richiesta di revoca da parte del p.m..

Le ragioni sottese a questa previsione si comprendono meno: 

-  nel giudizio ordinario, la prova non è contratta ma pienamente a disposizione delle parti, quindi un’eventuale condanna in appello, basata su di una mera rilettura, di fatto priva l’imputato di un intero grado processuale: contro questo assunto militano norme pattizie ed il già citato Protocollo;

-  la presunzione di non colpevolezza, di cui all’art. 27 Cost., lascia spazio alle c.d. prove nuove: quella presunzione è diversa da quella di innocenza di origine americana, utilizzata a base del verdetto della giuria. Contro di essa può accennarsi al sistema francese, che ha recepito a livello costituzionale una norma comunitaria, per cui sussiste la presunzione di innocenza, fino a legale accertamento, laddove non è stato parimenti limitato il potere del Parquet – la pubblica accusa – anzi, si è esteso l’appello alle sentenze della Corte d’Assise, prima escluso;

-  il superamento del ragionevole dubbio, se è regola di giudizio, ha parimenti ampliato l’onere probatorio in capo al p.m., per cui – si dice – forse tanto valeva precludergli totalmente il diritto di appello.

In merito alla domanda se sia sopravvissuto l’appello della parte civile, la prof. Galantini invita a far riferimento ai lavori preparatori, in particolare alla Relazione Bertolini, dove si accenna ad un diritto non più legato al mezzo ed alla iniziativa del p.m.. Giova, a questo proposito, leggere la questione di legittimità costituzionale avanzata dal P.g. di Milano, dott.ssa Pugliese, che conferma il mantenimento del diritto di appello in capo alla parte civile, e lo ricava dall’esistenza di due norme: l’art. 600 comma 1 c.p.p., sulla istanza di apposizione della formula di provvisoria esecuzione, che detta parte può avanzare alla Corte d’appello mediante impugnazione della sentenza di primo grado, nonché la norma transitoria di cui all’art. 10 L. Pecorella, che non menziona l’appello della parte civile bensì regola la sorte di quello del P.m..

Quanto alla questione di legittimità sollevata dalla Corte di Appello di Brescia, quella fa riferimento all’art. 576 c.p.p., ed in particolare all’intervenuta eliminazione della locuzione “col mezzo previsto per il p.m.”, che ha certamente sdoganato la parte civile dalla Pubblica Accusa, ma ha lasciato molti dubbi sugli spazi residui. Se quell’inciso fosse rimasto, ora sarebbe chiaro che la parte civile possieda un generale potere d’appello, introdotto dal legislatore del 1988, e prima inesistente, mentre ora, con la cancellazione del riferimento, pare che detta parte non abbia più una fonte normativa del suo potere d’appello, perfino nei casi di condanna, e ciò in considerazione del principio di tassatività delle impugnazioni.

Il tutto senza dimenticare che la conversione dell’eventuale ricorso in Cassazione del Pm opererà solo nei casi e nei limiti dell’art. 12 c.p.p..

E soprattutto con l’appunto dell’avvenuta abrogazione dell’art. 577 c.p.p, che attribuiva autonomo potere di impugnazione, anche agli effetti penali, contro sentenze di condanna e proscioglimento relative ai reati di ingiuria e diffamazione: oggi invece vige anche in tali ipotesi la regola generale del riformato art. 576 c.p.p., per cui la parte civile potrà appellare solo i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e ai soli effetti della responsabilità civile.

Non pare seguire le medesime ragioni sistematiche l’inserimento di un inedito potere di ricorso in Cassazione avverso la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata in udienza preliminare: lo scrupolo legislativo di protezione della vittima si è spinto fino a creare tale potere di impugnazione perfino per vizi formali (quali la nullità derivante dalla violazione dell’art. 419 c. 1 e 4 c.p.p. circa gli avvisi alla parte offesa) o in relazione alla condanna alle spese inflitta al c.d. querelante temerario: il contesto non riguardo gli interessi civili e non incide sul ristoro delle pretese risarcitorie, perché detta sentenza è soggetta a revoca.

Quanto poi al nuovo regime dei casi di ricorso in Cassazione, modificato dall’art. 8, leggendo il nuovo volto dell’art. 606, alle lettere d) ed e) ci si può spingere fino a domandare se sia mutato l’intero ruolo ed il sindacato della Corte. Qualche appunto sui due casi:

a)- mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta “anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’art. 495 c. 2 c.p.p.”: ergo rectius mancata assunzione di una controprova, stante il richiamo alla norma che sancisce il diritto all’ammissione delle prove indicate a discarico.

L’unico cambiamento qui è l’avvenuta estensione del motivo di ricorso alle prove richieste durante l’istruzione dibattimentale. Il vizio era già considerato error in procedendo, e dava alla Cassazione diritto di accesso agli atti per verifica. Mancata assunzione era equivalente a mancata ammissione.

Ora può riguardare elementi chiesti a controprova in dibattimento, anche ex art. 507 c.p.p.. A quest’ultimo proposito, giova il collegamento alla sentenza delle Sezioni Unite del 1992 sull’art. 507, interpretato estensivamente, nel senso che – pur potendo il giudice operare le c.d. acquisizioni ufficiose, doveva comunque consentire le controprove.

La nuova formula dell’art. 606 lett. d) impone il carattere di decisività alla prova, e per essa si intende l’idoneità a contrastare circostanze acquisite che portino a decisione diversa (concetto da collegare a quello di prova neutra, che ingloba confronti e perizie).

Il vero interrogativo resta quello sull’identificazione del referente per mutuare la richiesta decisività: sarà la motivazione della sentenza oppure l’imputazione? L’importante è che sia idonea in astratto a sovvertire gli altri elementi probatori.

b) quanto ai vizi di motivazione, ricorribili ai sensi dell’art. 606 lett. e), si rilevi come in origine era stato tolto il limite che dovessero risultare dal testo del provvedimento impugnato, mentre nel testo definitivo della legge è rimasto, e ad esso si è aggiunta l’alternativa che possano emergere da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

Rispetto al testo previgente, è stata aggiunta anche la contraddittorietà della motivazione, espressamente prevista come vizio, nonostante fosse già ricompresa nella manifesta illogicità: la specificazione ha lo scopo plausibile di acuire la necessità di raffronto con gli atti indicati, ed è in linea con l’altra innovazione, ossia la necessità di superamento di ogni ragionevole dubbio, che deve avere come conseguenza la congruenza logica della motivazione.

In relazione al c.d. appello condizionato, ora regolato dall’art. 593 c.p.p. che impone l’emergenza di una nuova prova decisiva, il sindacato della Cassazione potrà così atteggiarsi:

1)- travisamento del fatto: casi in cui la sentenza di merito ammette un fatto manifestamente escluso dagli atti o ne esclude uno manifestamente emergente.

Prima questa era un’ipotesi di nullità di mancanza di motivazione e doveva risultare dal testo del provvedimento impugnato.

Ora si potrà sindacarlo con riferimento all’intero compendio processuale, però a patto di aver già mostrato alla Corte d’Appello l’elemento da cui dedurre il travisamento. A questa conclusione porta la lettera della nuova norma, che utilizza la locuzione “gravame”, e per essa si intende “controllo nel merito”, quindi giudizio di secondo grado e non di legittimità.

La soluzione opposta, ossia una azionabilità direttamente in Cassazione porterebbe effettivamente a ridisegnare i poteri della Corte, salvo – come già accaduto e di cui vi è traccia in una pronuncia a Sezioni Unite del 2000 – il caso di una sua futura prassi di auto-limitazione;

2)- omessa valutazione di una prova: la dottrina riconduceva il vizio tra gli error in procedendo, mentre la Corte l’ha sempre considerato un vizio di motivazione.

Qui bisognerà osservare come si atteggerà la giurisprudenza a venire;

3)- travisamento della prova: l’ipotesi è infrequente e riguarda i casi di prova inesistente – ossia che non risulta dagli atti, o non verbalizzata o ancora di prova inventata (cioè acquisita non legittimamente) di cui è vietato l’uso dall’art. 526 c.p.p.. In queste ipotesi l’esame è e resta un esame sulla sentenza e non snatura il tutto ad un esame sul processo.

Conclusioni.

Il ruolo della Corte d’appello è stato rivisitato con aumento di poteri sul vaglio di ammissibilità, che condiziona poi lo stesso ricorso in Cassazione, ma altresì è stato ridisegnato il compito del giudice di merito, che potrà condannare solo in caso di superamento del ragionevole dubbio. Interessante sarà assistere all’implementazione della prassi su questo punto, domandandosi fin d’ora se il principio arrivi ad investire le cause di estinzione del reato, le condizioni di procedibilità, l’attendibilità dei testi, se faccia superare la diffidenza per le prove scientifiche e di c.d. intelligenza artificiale, se influenzi la perizia, ed infine – per mutuare i principi già noti dalla sentenza Franzese delle Sezioni Unite - se sia corollario o sovrapposizione ai criteri della assoluzione per insufficienza o contraddittorietà della prova con la formula del comma 2 dell’art. 530 c.p.p..

Anche il ruolo del Pm muta radicalmente: il suo onere probatorio si estende fino ad un obbligo di incidere sulla “sicura responsabilità” dell’imputato, con una netta anticipazione temporale fino alla sede cautelare. L’avvenuta introduzione di una nuova causa di archiviazione, basata sulla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, apre scenari interessanti sulla compatibilità, per esempio, con l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, nonché sul rapporto con l’art. 125 disp.att.c.p.p., che fonda la richiesta di archiviazione sulla inidoneità degli elementi raccolti a sostenere l’accusa in giudizio.

Una cosa pare però già assodata: è stato codificato il principio, di origine giurisprudenziale, del c.d. giudicato cautelare extra ordinem, ribaltandone però la portata. Dove prima giustificava il rigetto delle richieste di modifica o revoca delle misure cautelari, ora inibisce la reiterazione della domanda di loro applicazione, e si spinge fino a precludere l’azione penale. Mentre il sindacato della Cassazione, in sede di riesame, è rimasto inalterato, ossia vertente solo sulla sussistenza di indizi, e non sulla loro consistenza fattuale. 

 

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Al Procuratore Generale dott. Fontana il compito di una carrellata di chiusura sulla legge, a chiarimento dei punti fermi della Novella.

-l’appello contro le condanne, rectius, contro i capi della sentenza (cfr. artt. 581 lett. a) e 597 comma 1 c.p.p.).

Il nuovo articolo 593 comma 1 c.p.p. lascia validità alle seguenti regole:

-il P.m. non può appellare la sentenza di condanna in abbreviato, salvo il caso che abbia modificato il titolo di reato (art. 443 comma 3 c.p.p.): da notare che il riferimento ora è limitato al solo terzo comma, mentre prima era esteso a tutto l’art. 443 c.p.p.;

-Il P.m. non può appellare la sentenza di patteggiamento, salvo il caso in cui abbia manifestato dissenso (art. 448 comma 2 c.p.p.): questa è l’ipotesi del recupero post-dibattimentale della richiesta dell’imputato;

-Il P.m., l’interessato e il difensore possono appellare avanti al tribunale di sorveglianza le sentenze di proscioglimento e condanna in relazione alle disposizioni dedicate alle misure di sicurezza. Questo è un caso molto particolare di appello, che conferisce competenza al tribunale di sorveglianza, aggiuntiva rispetto all’esame, che opera in altra sede, sulla pericolosità sociale, che va rivalutata.

-Inappellabili restano altresì le sentenze di condanna che applicano la sola pena dell’ammenda (art. 593 comma 3 c.p.p.).

Coerentemente è stato eliminato il richiamo all’art. 469, sul proscioglimento predibattimentale, perché il primo comma dell’art. 593 c.p.p. ora è dedicato all’appello contro le sentenze di condanna. Dalla sentenza delle Sezioni Unite, imputato Angelucci, in poi, quel proscioglimento è ricorribile in Cassazione.

Appello contro le sentenze di proscioglimento, e per esse tutte: assoluzioni, non doversi procedere ed estinzioni. Imputato e P.m. possono appellarle chiedendo la rinnovazione istruttoria nel caso in cui la nuova prova sia decisiva. Questo limite non è previsto nei casi in cui sia stata applicata la misura di sicurezza, già prevista dal primo comma (che ha raggruppato tutte le ipotesi di sentenze in qualche modo predative della libertà personale).

Lo spunto più interessante sul punto pare derivare dall’intervenuta interpretazione estensiva del concetto di novità, operata in materia di revisione dalla giurisprudenza che, dalla sentenza Pisano del 2001 in poi, ha allargato il campo ricomprendendo anche prove acquisite e non valutate e prove non acquisite.

L’interpretazione letterale, che esclude tale estensione in materia di appello, pare preferibile: intanto sussiste la previsione di un apposito motivo di ricorso in cassazione, e in secondo luogo l’art. 593 fa espresso riferimento al 603 comma 3, quindi a prove da acquisire.

Totalmente inappellabili sono divenute le sentenze di proscioglimento del giudice di pace, e appellabili quelle di condanna solo se se applicano una pena diversa da quella pecuniaria.

Queste nuove norme non sono state estese ai casi di proscioglimento previste avanti al Tribunale dei Minori: irrilevanza del fatto e perdono giudiziale.

La Corte d’appello quindi ora si atteggerà in questo modo: fissata udienza, verrà controllata la regolare costituzione delle parti, quindi svolta una relazione minima, e le parti verranno poi invitate a concludere a proposito della richiesta rinnovazione istruttoria. A questo punto la corte dovrà optare se rigettarla, in tal caso dichiarerà inammissibile l’appello, e provvederà alle notifiche di questo provvedimento, che entro 45 giorni tutte le parti potranno ricorrere in cassazione (anche se non impugnanti: trattasi di ipotesi di rimessione in termini), in uno eventualmente con la sentenza, oppure accoglierla disponendo quanto richiesto.

Conversione del ricorso in appello: quando sussista connessione ai sensi dell’art. 12 c.p.p.. La regola dettata dal nuovo art. 580 c.p.p. porta a numerose incongruenze nel sistema, non essendo applicabile in tutti i casi di sentenze mono-imputato e mono-imputazione, nei casi di ingiuria e diffamazione, nei casi in cui per un reato, legato dal vincolo della continuazione, vi sia stata assoluzione, ecc..

Conclusioni

Qualche numero: a Milano, all’entrata in vigore della legge Pecorella, pendono 5700 appelli, di cui 369 del p.m., e di questi casi 39 hanno correlato l’appello della parte civile e 120 quello dell’imputato. Mancano ancora da assegnare 2000 appelli. La procura generale si sta atteggiando per la proposizione della questione di legittimità costituzionale, nei casi in cui il decreto di citazione sia stato già spedito e l’udienza fissata: ogni Sezione della Corte poi decide autonomamente. Non viene sollevata la questione nei casi in cui l’appello già vertesse su motivi di legittimità, senza toccare il merito.

- avv. Alessia Sorgato - Milano

 

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