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Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 513, comma 2, c.p.p., sollevata, in riferimento all'art. 111 Cost.
ORDINANZA N. 439
ANNO 2000
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare MIRABELLI Presidente
- Francesco GUIZZI Giudice
- Fernando SANTOSUOSSO "
- Massimo VARI "
- Cesare RUPERTO "
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art.513, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza emessa il 23 marzo 2000 dal Tribunale di Locri nel procedimento penale a carico di IELO Carmelo ed altri, iscritta al n.414 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n.29, prima serie speciale, dell’anno 2000.
Udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2000 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.
Ritenuto che il Tribunale di Locri, con ordinanza emessa il 23 marzo 2000, nel corso dell’udienza dibattimentale di un processo penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, cod. proc. pen., nel testo risultante a seguito della sentenza di questa Corte n. 361 del 1998, per contrasto con l’art. 111 della Costituzione, come modificato dall’art. 1 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2;
che il rimettente premette, in punto di fatto, che, in sede di esame dibattimentale di persona imputata in un procedimento connesso ex art. 210 cod. proc. pen., questa aveva dichiarato di volersi avvalere della facoltà di non rispondere;
che, in mancanza dell’accordo delle parti sulla lettura dei verbali delle dichiarazioni rese da detta persona nel corso delle indagini preliminari, il pubblico ministero aveva chiesto di contestare alla stessa il loro contenuto onde consentirne l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento, secondo quanto stabilito dalla norma denunciata;
che, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ripercorre preliminarmente l’articolato iter storico della disciplina dettata dalla disposizione impugnata, in ordine all’utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese dalle persone indicate nell’art. 210 cod. proc. pen. che si avvalgano della facoltà di non rispondere;
che il rimettente ricorda, in particolare, come — dopo le sentenze di questa Corte n. 254 del 1992 e n. 60 del 1995 e l’intervento del legislatore ordinario con legge 7 agosto 1997, n. 267 — la Corte si fosse nuovamente pronunciata, dichiarando, con sentenza n. 361 del 1998, l’illegittimità costituzionale del novellato art. 513, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva che, qualora il dichiarante rifiutasse o comunque omettesse in tutto o in parte di rispondere su fatti concernenti la responsabilità di altri già oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, si applicasse l’art. 500, commi 2-bis e 4, cod. proc. pen., in tema di contestazioni nell’esame testimoniale;
che tale quadro normativo risulta, peraltro, profondamente inciso dalla recente legge costituzionale n. 2 del 1999, volta ad inserire nella Carta fondamentale i principi del «giusto processo», la quale, modificando l’art. 111 della Costituzione, ha in particolare stabilito, da un lato, che «il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova», e, dall’altro, che «la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore» (nuovo quarto comma dell’art. 111 della Costituzione);
che, inoltre, il decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 35 — emanato in attuazione dell’art. 2 della citata legge costituzionale, che demandava alla legge ordinaria il compito di regolare l’applicazione dei nuovi principi nei procedimenti penali in corso alla sua entrata in vigore — ha sancito l’immediata operatività dei principi stessi in tali procedimenti, fatte salve alcune regole speciali, relative segnatamente alla valutazione a fini di prova delle dichiarazioni già acquisite al fascicolo per il dibattimento: ipotesi, questa, che peraltro non ricorre nel giudizio a quo, pure già in corso alla data di entrata in vigore della legge di modifica costituzionale;
che, pertanto, la norma processuale dell’art. 513, comma 2, cod. proc. pen. — rimasta immutata e tuttora in vigore, in quanto non «compresa» nella ricordata disciplina transitoria — dovrebbe misurarsi, anche nel giudizio a quo, con il nuovo parametro costituzionale, al quale non risulterebbe in effetti allineata;
che, infatti, il meccanismo delle contestazioni — introdotto dalla sentenza della Corte n. 361 del 1998, integrativa del testo della disposizione denunciata — consentendo l’acquisizione al fascicolo per il dibattimento e la conseguente utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese da persone che abbiano rifiutato di sottoporsi all’esame dibattimentale, vulnererebbe tanto il principio del contraddittorio nella formazione della prova, quanto il divieto di fondare l’affermazione della colpevolezza dell’imputato su dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore;
che, peraltro, onde rimuovere la norma dall’ordinamento — sottolinea conclusivamente il giudice a quo — si renderebbe necessario sollevare l’incidente di costituzionalità, giacché, per principio generale, la legge costituzionale sopravvenuta non abrogherebbe, travolgendole automaticamente, le leggi ordinarie che risultino in contrasto con essa, potendo la loro ablazione aver luogo solo in esito allo scrutinio di costituzionalità davanti a questa Corte;
che il rimettente osserva, infine, in punto di rilevanza, come l’accoglimento della questione eviterebbe ad esso giudice a quo di «prendere in considerazione» la richiesta del pubblico ministero e di valutare, quindi, se le dichiarazioni di che trattasi, acquisite mediante il meccanismo delle contestazioni, siano utili ai fini della prova della responsabilità dell’imputato;
che nel giudizio dinanzi alla Corte non si sono costituite le parti private, né è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri.
Considerato che il Tribunale rimettente dubita della legittimità costituzionale della norma contenuta nell’art. 513, comma 2, cod. proc. pen., quale risulta a seguito della sentenza di questa Corte n. 361 del 1998, per contrasto con il quarto comma dell’art. 111 della Costituzione, introdotto dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, il quale, nella cornice del più generale inserimento nella Carta fondamentale dei principi compendiati nella espressione del «giusto processo», li articola specificamente nell’ambito processuale penale, restando peraltro affidato al legislatore ordinario il compito — ad esso proprio — di definire l’architettura degli istituti processuali e di calibrarne dinamica e struttura;
che il rimettente, nel sollevare la questione, muove dalla premessa della perdurante vigenza della norma denunciata e della sua applicabilità nel giudizio a quo: assumendo, per un verso, che «la legge costituzionale sopravvenuta … non abroga, facendole decadere automaticamente, le norme processuali ordinarie che le si pongono in contrasto», così da rendere necessario, quale unico rimedio, il sindacato di costituzionalità demandato a questa Corte; e ritenendo, sotto altro profilo, che l’impugnato art. 513, comma 2, cod. proc. pen. non sarebbe intaccato neppure dal decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 35 — volto ad introdurre la disciplina intertemporale dei nuovi principi rispetto ai procedimenti penali in corso alla data di entrata in vigore della legge costituzionale n. 2 del 1999, secondo quanto specificamente previsto dall’art. 2 della legge stessa — in quanto «non compreso» nella relativa disciplina;
che, proprio nella prospettazione del giudice rimettente, sotto questo secondo profilo, la motivazione dell’ordinanza di rimessione appare peraltro manchevole: il giudice a quo si è limitato, infatti, nella sostanza, ad escludere l’avvenuta caducazione espressa della norma censurata ad opera di altra fonte di omologo rango, prendendo in esame solo il comma 2 dell’art.1 del d.l. n.2 del 2000; mentre ha omesso qualsiasi valutazione in ordine alla possibile abrogazione della norma stessa — almeno in riferimento ai procedimenti in corso, quale quello di cui è investito — per incompatibilità con il disposto del comma 1 dell’art. 1 del citato decreto-legge, come modificato in sede di conversione, che rende immediatamente applicabili in detti procedimenti «i principi di cui all’art. 111 della Costituzione», fatte salve le disposizioni dei successivi commi (disposizioni che non assumono rilievo nella specie, secondo quanto lo stesso rimettente puntualizza);
che, in tal modo, il problema della perdurante applicabilità della norma denunciata con riguardo ai processi in corso – problema che nasce a seguito della successiva disciplina della stessa materia - viene a porsi non già sul piano dei rapporti tra legge ordinaria e legge costituzionale posteriore — aspetto, quest’ultimo, che è l’unico ad essere stato delibato dal giudice a quo — bensì sul versante della successione fra norme dello stesso rango, fenomeno che resta senz’altro regolato dai principi generali stabiliti dall’art. 15 delle preleggi;
che l’esigenza di verifica, da parte del rimettente, circa l’effettiva applicabilità della norma impugnata nel giudizio a quo tanto più si impone, in quanto lo stesso rimettente ha posto a base del quesito di costituzionalità l’asserita incompatibilità tra tale norma ed il nuovo precetto costituzionale, poi «trasfuso», mediante espresso richiamo, in disposizione di legge ordinaria;
che, di conseguenza, risolvendosi l’omesso esame di tale aspetto in un difetto di motivazione sulla rilevanza, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 513, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 111 della Costituzione, dal Tribunale di Locri con l’ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 ottobre 2000.
Cesare MIRABELLI, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Depositata in cancelleria il 25 ottobre 2000.
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