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Linee generali, struttura e finalità della riforma che ha attribuito competenza penale al Giudice di pace.
Relazione al Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274 - Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468
I - PREMESSA
1.
Linee generali della riforma
II - GIURISDIZIONE E COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE
2.
Disposizioni sui soggetti e principi generali del procedimento
2.1. Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace
2.2. Competenza per territorio
2.3. Connessione nel procedimento davanti al giudice di pace
2.4. Limiti alla rilevanza della connessione sulla competenza per materia
2.5. Casi di connessione davanti al giudice di pace
2.6. Competenza per territorio determinata dalla connessione
2.7. Riunione e separazione dei processi
2.8. Astensione e ricusazione del giudice di pace
III - DISCIPLINA DEL PROCESSO
3.
Indagini preliminari
3.1. Attività di indagine della polizia giudiziaria
3.2. Notizie di reato ricevute dal pubblico ministero
3.3. Iscrizione della notizia di reato
3.4. Chiusura delle indagini preliminari
3.5. Archiviazione
3.6. Assunzione di prove non rinviabili
3.7. Intervento del giudice di pace nella fase delle indagini preliminari
4.
Atti introduttivi del giudizio: la citazione ad opera della polizia giudiziaria
4.1. Citazione su istanza della persona offesa
4.2. Ambito applicativo del ricorso
4.3. Presentazione del ricorso
4.4. Costituzione di parte civile nel ricorso
4.5. Casi di inammissibilità del ricorso
4.6. Richieste del pubblico ministero
4.7. Provvedimenti del giudice
4.8. Decreto di convocazione delle parti
4.9. Pluralità di persone offese
5.
Giudizio
5.1. Udienza di comparizione e fase conciliativa
5.2. Udienza di comparizione a seguito di citazione della persona offesa
5.3. Dibattimento
5.4. Sentenza di condanna alla permanenza domiciliare
6.
Definizioni alternative del procedimento: particolare tenuità del fatto come causa di improcedibilità
6.1. Casi di estinzione del reato per condotte riparatorie
7.
Impugnazioni
7.1. Impugnazione del pubblico ministero e del ricorrente
7.2. Impugnazione dell'imputato
7.3. Disciplina del giudizio di appello
8.
Disciplina dell'esecuzione
8.1. Procedimento di esecuzione dei provvedimenti del giudice di pace
8.2. Esecuzione delle pene pecuniarie
8.3. Esecuzione delle pene paradetentive
8.4. Disposizioni sul casellario giudiziale
9.
Norme di coordinamento e di attuazione
IV - DISCIPLINA SANZIONATORIA
10.
Sanzioni applicabili dal giudice di pace
10.1. Problemi posti dalla legge delega
10.2. Soluzione accolta
10.3. Obbligo di permanenza domiciliare
10.4. Lavoro di pubblica utilità
10.5. Altre disposizioni
10.6. L'esclusione della sospensione condizionale della pena
V - DISPOSIZIONI FINALI E TRANSITORIE
11.
Norme applicabili da parte di giudici diversi
11.1. Disposizioni transitorie
I. Premessa.
I. Premessa.
1. Linee generali della riforma. - Il presente decreto legislativo, che attua la delega contenuta nella legge 24 novembre 1999, n. 468, recepisce, quasi integralmente, il lavoro svolto dalla Commissione di studio, insediata dal Ministro della Giustizia per l'attuazione della delega, presieduta dal prof. Tullio Padovani. Inoltre, come sarà precisato in seguito, sono state adeguatamente considerate le osservazioni formulate dalle Commissioni parlamentari in sede di parere sullo schema preliminare.
La legge delega in materia di competenza penale del giudice di pace e il presente decreto legislativo introducono nell'ordinamento importanti novità, delineando un modello di giustizia penale affatto diverso da quello tradizionale, destinato ad affiancarsi a quest'ultimo in funzione ancillare, ma suscettibile di assumere in futuro più ampia diffusione, previa la sua positiva "sperimentazione" sul campo della prassi.
Alla nuova disciplina non è estraneo infatti un intento di tipo deflattivo. Il giudice di pace si vedrà investito della conoscenza di un numero non trascurabile di reati, molti dei quali segnati da una considerevole ricorrenza statistica; con ciò alleggerirà il carico dei tribunali di compiti spesso relegati ai margini dell'attività giurisdizionale, a causa dell'eccessiva mole di lavoro. Nell'assumere la cognizione di tali reati, vedrà peraltro accrescere la sua vicinanza al corpo sociale.
E' risaputo, infatti, che la risposta penale - da troppo tempo cristallizzata sul binomio pena detentiva/pena pecuniaria - è sempre più lontana dalle domande di giustizia dei cittadini. Il ricorso frequente al diritto penale ha condotto ad una situazione in cui l'entità, complessivamente alta, degli editti non trova riscontro in un altrettanto rigorosa applicazione delle sanzioni.
Per altro verso, lo strumento penalistico ha invaso settori distanti dal suo "naturale" campo di elezione: è stato posto a presidio di interessi diffusi ovvero sovraindividuali, anche di rilievo prioritario, ma non di rado lontani dalle esperienze e dal vissuto quotidiano del singolo. Questo processo, in parte inevitabile, di ampliamento dell'area penalmente rilevante ha così comportato una progressiva divaricazione tra le ragioni della giustizia e le esigenze del cittadino comune, che lamenta una lentezza intollerabile, quando non addirittura un deficit nella risposta dello Stato.
In questo contesto, la dislocazione sul territorio del giudice di pace, in uno con la sua caratterizzazione professionale consentiranno un riavvicinamento della collettività all'amministrazione della giustizia anche nel delicato settore del diritto penale. Ma, soprattutto, la competenza penale del giudice di pace reca con sé la nascita di un diritto penale più "leggero", dal "volto mite" e che punta dichiaratamente a valorizzare la "conciliazione" tra le parti come strumento privilegiato di risoluzione dei conflitti (emblematica risulta in proposito la norma dell'art. 2, comma 2, che individua nella conciliazione il compito e la finalità primari della giurisdizione penale del giudice di pace: v. infra sub II, §. 2) .
Il primo dato di interesse risiede nella scomparsa della pena detentiva che, in relazione alla tipologia di reati attribuiti alla conoscenza del giudice di pace, ha vissuto una graduale sconfessione nelle sue funzioni di prevenzione generale e speciale. Vi si sostituiscono nuovi protocolli sanzionatori che scommettono prevalentemente sulla pena pecuniaria, in conformità con gli orientamenti affermatisi in molte esperienze straniere. Alla pena pecuniaria si accostano poi le sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità.
Sebbene già note nella loro fisionomia sostanziale, tali misure si atteggiano qui in modo originale per il fatto di essere previste come pene principali. Così, con riguardo specifico al lavoro di pubblica utilità, attestano lo sforzo legislativo di recuperare la dimensione rieducativa della pena, come noto, fino ad ora praticamente frustrata; anticipano inoltre la predilezione legislativa (che sorregge l'intera riforma) per soluzioni che muovono verso la reintegrazione dell'offesa, piuttosto che verso una mera afflittività.
Più in generale, le nuove sanzioni costituiscono l'indice non equivoco di una progressiva trasformazione della natura e dell'essenza stessa del diritto penale.
E' infatti noto come l'incidenza di questo strumento di tutela sulla libertà personale del reo abbia giustificato la sedimentazione nel tempo di un livello crescente di garanzie, sul piano sostanziale come sul piano processuale: con la conseguenza, rivelatasi paradossale, di una loro estensione indifferenziata a fatti di gravità non assimilabile. Se è così, la metamorfosi della risposta punitiva giustifica (a rigore, imporrebbe) la nascita di un micro-sistema (integrato, nei rapporti tra disciplina sostanziale e processuale) che si calibra sulle nuove premesse.
Sul versante sostanziale, ciò si riflette nella selezione di fattispecie dotate di schemi probatori semplificati e di gravità non particolare; soprattutto, implica l'esaltazione delle funzioni conciliative del giudice di pace, e consente dunque la sperimentazione, su un terreno particolarmente propizio, degli emergenti schemi di mediazione penale. A riprova della mitezza del diritto penale in questo settore, si pensi infine alla disciplina delle iscrizioni nel casellario giudiziale, volta ad attenuare lo stigma della condanna.
Sul versante processuale, le novità sanzionatorie hanno condotto verso il potenziamento delle funzioni della polizia giudiziaria, la mancata previsione della figura del giudice delle indagini preliminari e una disciplina del giudizio nella quale si coniugano esigenze di semplificazione con la garanzia del contraddittorio.
Non si tratta peraltro soltanto della promessa di una maggiore duttilità.
La scomparsa della pena detentiva (anche) a livello di previsioni edittali costituisce la spia di un'attenuazione della pretesa punitiva di matrice pubblicistica. Tuttavia, essa reca con sé, in uno sforzo apprezzabile di compensazione, una rinnovato interesse per la vittima, che attraversa l'impianto dello schema di decreto legislativo sorreggendone le scelte più qualificanti, in omaggio alle moderne tendenze alla negoziazione dei conflitti sociali
Ci si riferisce in prima battuta al potenziamento di meccanismi di tipo risarcitorio o riparatorio, tradizionalmente estranei allo schema classico del diritto penale. In proposito, si richiama l'attenzione sul contenuto degli istituti previsti dagli articoli 34 e 35: in uno, l'opposizione della parte offesa condiziona la dichiarazione di improcedibilità per un reato oggettivamente di scarsa offensività, e in definitiva l'azione penale statale ovvero il suo esito processuale; nell'altro, il soddisfacimento effettivo delle pretese della vittima funge da causa di estinzione del reato, sortendo effetti sul piano sostanziale, dove prevale sul ius puniendi statale.
Ma la valorizzazione della figura della vittima trova uno dei riscontri più significativi anche nella disciplina processuale.
L'accentuazione del ruolo conciliativo del giudice e la conseguente disciplina processuale è funzionale a pervenire ad una soluzione del conflitto che possa anzitutto soddisfare la persona offesa.
Inoltre, attraverso il ricorso diretto (art. 21 ss.), la persona offesa, in relazione ai procedimenti per reati perseguibili a querela, si emancipa dal ruolo statico e tutto sommato marginale tradizionalmente rivestito, per diventare protagonista del processo, di cui segna l'incipit e scandisce le fasi successive.
II. Giurisdizione e competenza del giudice di pace
2. Disposizioni sui soggetti e principi generali del procedimento – L'articolo 1, avente funzione ricognitiva, individua gli organi giudiziari che svolgono funzioni nel procedimento penale avanti al giudice di pace: essi sono, oltre al giudice di pace, il procuratore della Repubblica presso il tribunale, in ossequio al preciso criterio di delega.
L'articolo 2 fissa i principi generali del procedimento dinanzi al giudice di pace.
Aderendo alle osservazioni contenute nel parere reso dalla Commissione Giustizia del Senato, la collocazione della norma in oggetto (art. 45 dello schema) è stata anticipata nella parte iniziale del decreto, dedicato alle disposizioni di carattere generale.
Il comma 1 integra la specifica disciplina processuale del decreto, attraverso il richiamo delle disposizioni contenute nel codice di procedura penale e nelle relative norme di attuazione e coordinamento, in quanto applicabili. Inoltre, viene espressamente esclusa l'applicabilità di una serie di istituti ritenuti incompatibili con il processo davanti al giudice di pace.
Si tratta di istituti la cui esclusione è immediatamente desumibile dalla legge delega, in quanto estranei alla natura del processo, come ad esempio l'arresto in flagranza e il fermo di indiziato di delitto, le misure cautelari personali e il giudizio direttissimo, che presuppongono la possibilità di misure personali limitative della libertà della persona. In altri casi, l'espressa esclusione si fonda sulla differente disciplina che il decreto ha delineato in relazione ad istituti analoghi (incidente probatorio, proroga del termine per le indagini). Infine, il rispetto del criterio generale della massima semplificazione del processo e la vocazione conciliativa del giudice di pace hanno reso inapplicabili i riti alternativi e l'udienza preliminare.
Per quanto riguarda questi ultimi, la modesta gravità dei reati devoluti al giudice di pace, nonché la natura delle relative sanzioni, sembra deporre nel senso di non prevedere riti alternativi al giudizio, al di fuori dei meccanismi di conciliazione e di improcedibilità per tenuità del fatto, nonché di estinzione del reato, conseguente a condotte riparatorie, e all'oblazione.
Inoltre, la stessa natura del giudice di pace impone di favorire il contatto delle parti con l'organo giudicante, esigenza questa che sarebbe frustrata dalla previsione di procedimenti monitori inaudita altera parte, come il decreto penale di condanna.
Ugualmente, l'esclusione nel procedimento dinanzi al giudice di pace dell'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, sembra imposta dalla necessità di assicurare comunque un'adeguata tutela delle ragioni della persona offesa (e ciò in special modo nel ricorso diretto al giudice), tutela incompatibile con la natura del patteggiamento, che per di più non produce effetti nel giudizio civile; peraltro, l'introduzione dell'istituto del "patteggiamento" avrebbe potuto determinare un aumento del contenzioso civile per la conseguente duplicazione dei giudizi.
La disposizione contenuta nel comma 2 dell'articolo 2 sintetizza, nella parte iniziale del decreto, le connotazioni eminentemente conciliative proprie del giudice di pace, anche in materia penale.
Proprio la finalità conciliativa costituisce l'obbiettivo principale della giurisdizione penale affidata al giudice di pace. Invero, la conciliazione deve per quanto possibile costituire l'esito fisiologico di questo tipo di giustizia più vicina agli interessi quotidiani del cittadino. D'altro canto, la norma anticipa, e sintetizza, la fitta rete di disposizioni che consentono di pervenire ad una definizione anticipata del procedimento quando il conflitto tra le parti abbia trovato un'adeguata composizione. La traduzione operativa della prevalenza accordata all'istanza conciliativa si impernierà sul ruolo attivo, di mediatore, del giudice di pace: ben lungi dall'assumere un atteggiamento di burocratico distacco dalle parti o di formalistico attaccamento alle scansioni della procedura, egli dovrà sempre valorizzare la composizione del conflitto attraverso una continua ricerca di equilibrate soluzioni compensative.
L'articolo 3 precisa il momento in cui nel procedimento penale innanzi al giudice di pace si viene ad assumere la qualità di imputato.
Nel procedimento ordinario ciò si verifica all'atto della citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, ai sensi dell'articolo 20 del decreto legislativo.
Nel caso di ricorso immediato al giudice tale qualità viene acquisita con il decreto di convocazione del soggetto dinanzi a sé da parte del giudice di pace, ai sensi dell'articolo 27. Vale appena specificare che, in quest'ultima ipotesi, la convocazione delle parti dinanzi al giudice rappresenta il primo momento in cui la persona interessata prende conoscenza del fatto che contro di lei è stata esercitata l'azione penale; e ciò in un sistema che ha respinto l'opzione a favore di una vera e propria azione penale privata, ed in luogo ha recepito una soluzione "di compromesso", che non rinuncia al controllo sulla notitia da parte dell'organo pubblico d'accusa.
2.1. Reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. – Come anticipato nel § 1, la riforma sulla competenza penale del giudice di pace si lascia apprezzare perché valorizza le funzioni conciliative nel processo e dunque, in ultima analisi, la figura stessa di questo giudice.
Questa impronta ideale si trova immediatamente riflessa già nella scelta dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace. In proposito, occorre peraltro distinguere.
L'articolo 15 della legge delega (legge 24 novembre 1999, n. 468), nel primo comma, attribuisce al giudice di pace la competenza a conoscere di alcuni delitti - specificamente individuati - del codice penale. Tali delitti sono di agevole accertamento (l'unica eccezione è rappresentata dalle lesioni colpose con violazione della normativa antinfortunistica, la cui levità non consentirà sempre di compensare quel surplus di normatività che spesso emerge nell'accertamento del rapporto di causalità e della violazione della regola di condotta nell'elemento soggettivo; le perplessità appaiono tuttavia mitigate dall'operatività del regime di connessione con i reati in materia di infortunistica, che finirà con l'attrarre questo reato nella competenza del giudice ordinario).
Essi costituiscono, poi, l'espressione tipica ed immediata di situazioni di microconflittualità individuale (ingiurie, diffamazioni, minacce, furti punibili a querela, danneggiamenti ecc.) e, in quanto tali, sembrano perfettamente ritagliati sulle caratteristiche del giudice onorario deputato a conoscerle.
Si discostano invece in parte da questo modello le contravvenzioni codicistiche, anch'esse nominativamente indicate dall'articolo 15 (comma 2) e pure assimilabili ai delitti attribuiti al giudice di pace in relazione alla semplicità dello schema legale (con ovvie, analoghe ripercussioni in termini di agevolazione probatoria). Sebbene difficilmente ascrivibili al protocollo criminologico della microconflittualità interindividuale, questi reati sembrano tuttavia ancora modellati sulla caratterizzazione del giudice di pace come "compositore di controversie individuali": in massima parte rispondono allo schema del reato di pericolo, e dunque tollerano condotte di tipo lato sensu riparatorio.
Dove invece si potrebbe delineare una frizione tra la competenza del giudice di pace e quella che dovrebbe essere la sua naturale vocazione al riavvicinamento tra le parti, è in rapporto alle fattispecie di reato desunte dalla legislazione penale accessoria, ed indicate nel comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo sulla base dei criteri tracciati dall'ultimo comma del citato articolo 15 della legge delega.
In proposito, premesso che i criteri richiesti (in via cumulativa) dalla delega sono talmente stringenti da ritagliare al giudice di pace uno spettro di cognizione alquanto ristretto, le fattispecie individuate all'esito della selezione, risultano spesso preposte alla tutela di interessi diffusi e comunque sovraindividuali, quando addirittura non rispondano allo schema del reato formale: siano cioè volte a tutelare pubbliche funzioni e dunque, in ultima analisi, oggetti giuridici la cui titolarità appare squisitamente statale.
Per gradi.
Innanzitutto, è bene premettere che il dato testuale della legge delega è stato interpretato nella sua massima latitudine, e ciò nel preciso intento di valorizzare la professionalità del giudice di pace, assicurando, sin dall'esordio, alla sua nuova competenza il più ampio spazio di operatività
Così, laddove la legge si riferiva ai reati puniti con la pena pecuniaria (articolo 15, lettera a), non sono state ammesse limitazione verso l'alto. Specificamente, si è esclusa l'opportunità di fissare un tetto corrispondente ai quattro mesi (sbarramento previsto invece per i reati puniti con la pena detentiva), operazione pure astrattamente ipotizzabile invocando il meccanismo di ragguaglio dell'articolo 135 c.p. Peraltro, non sono state annoverate fattispecie (per lo più di conio recente) oggi punite con una pena pecuniaria particolarmente alta; si sarebbero infatti prodotta un'irragionevole disparità di trattamento rispetto a reati in origine puniti con pena detentiva (ed assai più gravi) per i quali la legge delega invece non consente di eccedere il limite dei cinque milioni di lire (essendo dubbio inoltre che tale disparità possa essere colmata dalla previsione in via alternativa delle sanzioni paradetentive (sul punto, v. § 10 ss.).
Si è fatto ricorso ad una lettura "estensiva" anche in relazione alla lett. c) del medesimo comma 3 dell'articolo 15, a mente del quale i reati da devolvere al giudice di pace non devono rientrare "in taluna delle materie indicate nell'articolo 34 della legge 24 novembre 1981". Il richiamo ad intere "materie" è stato però ritenuto esorbitante nelle ipotesi in cui il citato articolo 34 indichi, piuttosto, specifiche disposizioni legislative, così da privilegiare - nell'equivocità della lettera - l'interpretazione che restringe il meno possibile l'area del criterio di delega (ad esempio, la lettera d richiama il solo articolo 221 T.U. delle leggi sanitarie; essa non avrebbe precluso in astratto la considerazione delle restanti disposizioni in materia sanitaria, escluse piuttosto per i non lievi problemi interpretativi che genera la loro applicazione). Naturalmente, ove particolari corpi normativi siano stati abrogati da altre leggi che disciplinano per intero la materia, il riferimento legislativo ai primi è stato inteso come relativo alle seconde (per esempio, in tema di inquinamento delle acque).
Nella cernita dei reati, si è poi ritenuto opportuno non escludere aprioristicamente le fattispecie (in proporzione, numerose) che ricalcano lo schema dell'articolo 650 del codice penale (Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità) dalla rosa di reati rimessa alla conoscenza del giudice onorario. Vero è che tale articolo non è stato espressamente previsto dal legislatore delegante dell'articolo 15 comma 1, sicché potrebbe ritenersi che, se non si è inteso includere l'ipotesi madre, a fortiori dovrebbe essere negata considerazione alle ipotesi speciali. D'altra parte, proprio il carattere speciale di tali tipi costituisce frequentemente indizio di una maggiore facilità nell'accertamento del fatto: ferma restando, ovviamente, la valutazione caso per caso in relazione a quest'ultimo profilo.
Ma la norma che ha suscitato, in sede di attuazione, le maggiori incertezze interpretative è stata la lettera b) del comma 3 dell'articolo 15 la quale, dopo aver ammesso la competenza del giudice di pace per i "reati per i quali non sussistono particolari difficoltà interpretative o non ricorre, di regola, la necessità di procedere ad indagini o a valutazioni complesse in fatto o in diritto", nell'ultima parte richiede, in aggiunta, che sia "possibile l'eliminazione delle conseguenze dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno".
La direttiva solo a prima vista si spiega alla luce delle considerazioni già svolte sulle caratteristiche dell'organo al quale è rimessa la conoscenza di questi reati: vale a dire, pensando alla naturale vocazione la figura di questo giudice non togato mostra allo svolgimento di funzioni conciliative. Seguendo tale lettura, si sarebbe dovuto negare la competenza del giudice di pace in relazione a reati per i quali sia impossibile una restitutio in pristinum, quand'anche nella forma surrogata del risarcimento.
Peraltro, così operando, si sarebbe prodotto l'effetto paradossale di attribuire al giudice di pace reati di gravità maggiore (con tutto il nuovo corredo sanzionatorio in bonam partem), escludendo invece dalla sua competenza fattispecie di pericolo astratto in relazione alle quali non sia ravvisabile alcuna conseguenza dannosa: e dunque presumibilmente meno gravi, oltre che di accertamento più agevole. D'altra parte, che questa non fosse l'intenzione del legislatore delegante, lo si è desunto anche dalla circostanza che nello spettro di fattispecie direttamente devolute dalla legge delega al giudice di pace, sono rinvenibili alcune contravvenzioni per cui non è possibile la reintegrazione dello stato precedente (si pensi agli atti contrari alla pubblica decenza). Più in generale, poi, è noto che la legislazione penale complementare non conosce molti reati criminologicamente riconducibili a fenomeni di conflittualità interindividuale (per i quali sembrerebbe coniata la citata locuzione della legge delega): e ciò tanto più se si considera la fascia di pena detentiva (4 mesi) entro la quale la lettera a) del comma 3 dell'articolo 15 costringe alla ricerca il delegato.
Alla luce di queste considerazioni, nell'attuazione datane dal comma 2 dell'articolo 4 del decreto legislativo, il richiamo alle conseguenze dannose del reato è stato inteso in senso atecnico: vale a dire, come una sorta di valvola di sfogo del nuovo sistema che, per il tramite di essa, intende preservarsi dal rischio di includere reati puniti non pesantemente, di interpretazione e di accertamento agevole, e tuttavia in ipotesi di considerevole gravità (si pensi a molti reati, previsti spesso in forma contravvenzionale ma di natura sostanzialmente delittuosa, introdotti in attuazione delle diverse leggi comunitarie).
In conclusione, si è ritenuto opportuno escludere dal novero dei reati di competenza del giudice di pace quelli suscettibili di produrre effetti non rimovibili; viceversa, sono stati attribuiti a questo giudice, quelli che per la loro tipologia producano conseguenze eliminabili come anche quelli che non producano affatto conseguenze.
Una notazione incidentale. Gli autori dei reati appartenenti alla seconda classe potrebbero risultare sperequati rispetto agli altri, nella misura in cui non possano usufruire del meccanismo estintivo di cui all'articolo 35 del decreto legislativo, ritagliato attorno al risarcimento, alle restituzioni o - in genere - al ripristino dello status quo ante. Peraltro, analoga questione fu sollevata in relazione al meccanismo della prescrizione di cui all'articolo 21 comma 2 d.lgs. 19.12.1994, n. 758, dinanzi alla Corte costituzionale e da questa respinta, argomentando dal fatto che la diversa struttura delle fattispecie incriminatrici fosse idonea a giustificare le differenze di trattamento legislativo (sent. 28 maggio 1999, n. 205).
Inoltre, è parso opportuno far rivivere, al comma 3 dell'articolo in commento, la competenza del tribunale in tutti i casi in cui i reati pure attribuiti alla conoscenza del giudice di pace risultino aggravati da una delle circostanze ad effetto speciale previste dai decreti legge n. 625 del 1979 (articolo 1), n. 152 del 1991 (articolo 7), n. 122 del 1993 (articolo 3): rispettivamente in materia di terrorismo, di mafia e di discriminazione razziale.
Vero è che in caso di concorso formale, opera la connessione con il più grave reato di competenza del giudice togato (articolo 6).
D'altro canto, può darsi che ciò non avvenga; per questi casi, allora, l'esclusione della competenza del giudice di pace trova giustificazione, oltre che in evidenti ragioni di opportunità, nella assoluta estraneità dei fatti rispetto alla caratterizzazione propria di questo giudice togato.
Per eliminare ogni possibile dubbio si è poi espressamente sancita (comma 4) la salvezza della competenza del tribunale per i minorenni, che continuerà dunque a giudicare dei reati, in linea generale devoluti al giudice di pace, commessi da soggetti minori degli anni diciotto (per la disciplina sostanziale e processuale applicabile, v. § 11.).
Analoga disposizione non è stata prevista in relazione alla competenza attribuita, ad altri giudici speciali, ratione personae (si pensi al collegio per i reati ministeriali, di cui alla legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, e, al limite, alla Corte costituzionale), in quanto appaiono assai difficilmente ipotizzabili fenomeni di interferenza con la competenza del giudice di pace.
In ogni caso, è chiaro che, atteso il rango costituzionale della disciplina attributiva delle relative competenze, le stesse non possono essere in alcun modo incise dalle disposizioni del presente decreto legislativo.
E' infine opportuno segnalare che la tipologia in cui sono sussumibili i reati selezionati attraverso i criteri di delega, proprio perché massimamente improntata alla tutela di interessi di titolarità sovraindividuale (e talvolta di pubbliche funzioni), non ha consentito di attuare la delega nella parte in cui prevedeva l'estensione della perseguibilità a querela dei reati (lettera a dell'articolo 16 della legge n. 468 del 1999). Le uniche ipotesi in relazione alle quali tale estensione sarebbe parsa astrattamente giustificabile sono l'omissione di soccorso di cui all'articolo 593 c.p., e la corrispondente ipotesi dell'articolo 189 C.d.S. Ma la limitazione del regime di procedibilità di questi delitti è parsa al legislatore delegato irrimediabilmente in contrasto con la matrice solidaristica che ne ha ispirato la previsione.
2.2. Competenza per territorio. – L'articolo 5 del decreto individua, sulla falsariga della norma codicistica, il giudice di pace competente per i reati indicati nel precedente articolo in relazione al locus commissi delicti.
Naturalmente, troveranno applicazione, in virtù del rinvio generale contenuto nell'articolo 2, comma 1, le disposizioni determinative della competenza per territorio nell'ipotesi di reato permanente e di delitto tentato (articolo 8, commi 3 e 4, c.p.p.).
Il secondo comma precisa che per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari è competente il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice competente territorialmente. In questo modo, è stata individuata una competenza generale "circondariale", impegnando quegli uffici più grandi, con organici adeguati ed in grado di ridurre i rischi di incompatibilità.
Tale criterio di individuazione del giudice oltre che per l'archiviazione è previsto anche per una serie di altri provvedimenti che, nel processo ordinario, sono attribuiti al giudice per le indagini preliminari (v. articolo 19).
La soluzione prescelta coniuga le esigenze della semplificazione e della efficienza, con il rispetto delle garanzie processuali, dal momento che viene confermato il ruolo di controllo e di garanzia di un giudice nel corso delle indagini.
Peraltro, va pure tenuto presente che, nel processo davanti al giudice di pace, il ruolo svolto dal giudice nelle indagini preliminari non assume quegli aspetti di delicatezza che investono i poteri del g.i.p. nel procedimento ordinario, in quanto manca lo snodo dell'udienza preliminare, con i suoi possibili epiloghi alternativi al giudizio e non vi sono misure cautelari da disporre (ad eccezione di quelle di natura reale); allo stesso modo, non trova applicazione l'istituto dell'incidente probatorio.
2.3. Connessione nel procedimento davanti al giudice di pace. - Rispetto alla giurisdizione penale del tribunale, quella del giudice di pace si caratterizza per la singolarità delle sanzioni che ne costituiscono l'oggetto, nonché per la particolarità delle soluzioni procedurali delineate dalla legge delega ed attuate nel decreto.
Nello schema di decreto, si era assegnata in via esclusiva al giudice di pace la cognizione dei reati rientranti nella sua competenza, stabilendo che i procedimenti relativi a che tali reati non subivano gli effetti della connessione "eterogenea" (quella, cioè, che si realizzerebbe quando fra uno o più reati appartenenti alla competenza del giudice di pace e uno o più reati appartenenti alla competenza del tribunale o della corte d'assise, sussistesse una delle relazioni descritte nell'articolo 12 c.p.p.)..
Tale scelta è stata oggetto di articolati rilievi, sotto il profilo dell'opportunità di evitare il fenomeno della duplicazione dei processi e del possibile contrasto di giudicati, nei pareri formulati dalle Commissioni parlamentari.
Pertanto, preso atto della fondatezza delle argomentazioni formulate, è stata introdotta una disciplina della connessione tra procedimenti per reati devoluti al giudice di pace e reati di competenza superiore, nella quale tuttavia ha rilievo la sola ipotesi del concorso formale.
Invero, da un lato la legge di delega autorizza certamente una riformulazione della disciplina della connessione che limiti fortemente l'ambito operativo dell'istituto.
Per altro verso, proprio l'ipotesi di concorso formale è quella in cui, attesa l'unicità della condotta, è effettivamente più elevato il rischio di giudicati contrastanti in caso di processi separati.
In attuazione della legge delega si è poi elaborata una disciplina della connessione "omogenea" (quella, cioè, riguardante i rapporti fra procedimenti tutti di competenza del giudice di pace) adeguata alle caratteristiche di semplificazione che debbono caratterizzare questo tipo di processo.
Al giudice di pace è infine attribuita ampia discrezionalità per quanto concerne la riunione o separazione dei processi.
2.4. Limiti alla rilevanza della connessione sulla competenza per materia. – Come già precisato la disciplina della connessione cosiddetta "eterogenea" è stata modulata (articolo 6) tenendo conto delle esigenze di semplificazione del procedimento innanzi al giudice di pace, riducendosi i casi di connessione al limite della necessità di evitare le negative conseguenze prima enunciate ed escludendo che la connessione integri un originario criterio attributivo di competenza.
Unica ipotesi rilevante di connessione è dunque quella del concorso formale dei reati; in tal caso, come detto, l'unicità dell'azione o dell'omissione evidenzia l'opportunità del simultaneus processus.
Tenuto conto della peculiare natura delle sanzioni irrogabili dal giudice di pace e delle caratteristiche del relativo procedimento, è stata normativamente ritenuta l'attrazione dei giudizi in favore del giudice superiore (tribunale o corte di assise).
Peraltro, come si vedrà (§ 11), è stata dettata apposita disciplina in ordine alle norme, sostanziali e processuali, che il giudice chiamato, per effetto della connessione, a conoscere di reati devoluti al giudice di pace dovrà osservare.
Sempre nell'ottica di limitare le ipotesi di connessione, e considerata altresì la scarsa ricorrenza pratica delle relative ipotesi, si è esclusa la connessione tra procedimenti del giudice di pace e procedimenti di giudici speciali.
Premesso che non può verificarsi connessione alcuna procedimenti del tribunale per i minorenni, in quanto la relativa competenza per i reati commessi da minori degli anni diciotto è esclusiva e non derogabile, la norma riguarda prevalentemente il tribunale militare, in ordine al quale non è sembrato opportuno prevedere la possibilità di giudicare i reati del giudice di pace.
Infine, accogliendo un suggerimento contenuto nel parere della Commissione Giustizia del Senato, si è stabilito che la connessione non rilevi qualora non sia possibile la riunione dei procedimenti. Invero, in tale ipotesi, risultando ormai impossibile la contestuale celebrazione dei processi, la connessione non potrebbe impedire la duplicazione dei giudizi, ed allora appare preferibile mantenere la separazione dei procedimenti.
2.5. Casi di connessione davanti al giudice di pace. – Gli effetti della connessione cosiddetta "omogenea" sono limitati alle ipotesi in cui il fatto da giudicare si presenta storicamente unico (articolo 7): a tal fine, infatti, rilevano soltanto il concorso o la cooperazione di più persone in un medesimo reato (lett. a) e il concorso formale di reati (lett. b). Restano invece esclusi tutti i casi indicati nell'articolo 12 lett. c) c.p.p., nonché – si badi – i casi di continuazione evocati nella lett. b) dello stesso articolo 12. L'esclusione del reato continuato dal novero di quelli idonei a produrre gli effetti della connessione sulla competenza potrebbe comportare qualche problema con riguardo all'applicazione della pena ex articolo 81 c.p., ogniqualvolta più giudici, con diversa competenza territoriale, si trovino a dover decidere su più reati uniti dal vincolo del medesimo disegno criminoso. La connessione avrebbe agevolato la particolare commisurazione della pena in questi casi. Si è tuttavia preferito escluderla, onde evitare complicazioni e lungaggini incompatibili con le esigenze di speditezza e semplificazione che debbono caratterizzare il procedimento davanti al giudice di pace. Se poi accadesse che diversi fatti in rapporto di continuazione fossero giudicati da più giudici, la pena potrebbe sempre essere commisurata a norma dell'articolo 81 c.p. da parte del giudice dell'esecuzione (articolo 671 c.p.p.).
Per quanto riguarda il suggerimento contenuto nel parere del Senato e relativo all'estensione della disciplina della riunione anche all'ipotesi di nesso teleologico, va rilevato che l'ultima parte del comma 3 dell'articolo 9 del decreto già consente di disporre la riunione ogni qual volta questo giovi alla celerità e alla completezza dell'accertamento, ben potendosi in tale formulazione ricomprendere anche il caso in discorso.
2.6. Competenza per territorio determinata dalla connessione. – In caso di connessione, la competenza appartiene al giudice del luogo in cui è stato commesso il primo reato o, se questo criterio non fosse concretamente applicabile, al giudice presso il cui ufficio è iniziato il primo dei procedimenti connessi (articolo 8).
La scelta di siffatti criteri di individuazione del giudice competente per territorio, nei casi di connessione, è motivata dalla considerazione che i criteri indicati dall'articolo 16 c.p.p. sono pressoché irriproducibili nella normativa riguardante il giudice penale di pace. Innanzitutto, sparisce – davanti al giudice di pace – la distinzione tra delitti e contravvenzioni, giacché le sanzioni previste sono tutte dello stesso tipo. E' vero che la distinzione resta sullo sfondo; ma ciò vale per la prima fase di applicazione della normativa sul giudice di pace. In futuro, è pensabile che il legislatore preveda fattispecie incriminatrici cui collegare direttamente le sanzioni previste dall'articolo 16 della legge delega (intese come autonome e non sostitutive). Pertanto, potrebbe divenire addirittura improprio parlare di "delitti" e "contravvenzioni" per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. Inoltre, questi reati sono puniti quasi tutti con le stesse pene. Diventa perciò doppiamente arduo utilizzare il concetto della "maggior gravità" come criterio per individuare il giudice competente in caso di procedimenti connessi. Si propone dunque di utilizzare il criterio del "primo reato consumato" o, in subordine, quello del primo procedimento. Bisogna peraltro riconoscere che, tenuto conto della disciplina contenuta nell'articolo 7, l'eventualità di un'applicazione del suddetto criterio risulterà assai rara. Nel concorso di persone e nel concorso formale di reati, il luogo della consumazione è, infatti, unico.
2.7. Riunione e separazione dei processi dinanzi al giudice di pace. – Nei procedimenti dinanzi al giudice di pace la riunione dev'essere disposta in tutti i casi di connessione previsti dall'articolo 7. Qui la riunione dev'essere la regola, salvo che la stessa pregiudichi la rapida definizione dei processi (al riguardo è stata di proposito usata una formula identica a quella dell'articolo 17 c.p.p., anche per evitare possibili disorientamenti interpretativi).
La riunione può inoltre essere disposta anche tra procedimenti pendenti davanti allo stesso giudice per motivi diversi dalla connessione, in un triplice ordine di situazioni:
a) quando i reati sono commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, o quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento (si pensi alle lesioni personali in caso di sinistri stradali);
b) quando i fatti siano in rapporto di continuazione (al fine di rendere più agevole l'applicazione dell'articolo 81 c.p.);
c) in tutti i casi in cui – ad avviso del giudice – la riunione dei processi favorisca la celerità e la completezza dell'accertamento dei fatti.
Il criterio, molto elastico, della celerità e completezza dell'accertamento lascia al giudice ampio margine di discrezionalità. Ciò non deve destare eccessive preoccupazioni, poiché il giudice di pace, dato il tipo di reati per i quali è competente, non sarà prevedibilmente propenso ad abusare dei poteri in tal senso attribuitigli dalla legge.
Anche il potere di separazione è assai più elastico di quello regolato dall'articolo 18 c.p.p. Del resto, è la stessa legge delega a suggerire una simile soluzione, quando nell'articolo 17 lett. i) invoca "l'introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all'obbligo di rilevarne (della connessione) l'operatività".
Sembra evidente che qui il delegante non si riferisce agli effetti della connessione sulla competenza, giacché un potere discrezionale assegnato al giudice in questo campo sarebbe in contrasto il principio del giudice naturale precostituito per legge (articolo 25 comma 1 Cost.); quel potere discrezionale non può che riguardare, quindi, gli effetti della connessione sulla riunione o separazione dei giudizi.
2.8. Astensione e ricusazione del giudice di pace. – L'articolo 10 detta le regole peculiari in ordine all'astensione e alla ricusazione del giudice di pace.
In primo luogo, viene individuato nel presidente del tribunale l'organo competente a decidere sulla dichiarazione di astensione e nella corte di appello l'organo che decide sulla ricusazione del giudice di pace. Si tratta di una norma la cui previsione è necessaria in quanto il generale richiamo dell'articolo 2, comma 1, del decreto alle disposizioni del codice - applicabili in quanto compatibili - può operare con riferimento ai casi e alle procedure in materia di astensione e di ricusazione, ma non anche all'organo che deve decidere.
Per quanto riguarda l'astensione, si è replicato il meccanismo esistente prima della riforma del giudice unico, con riferimento al pretore; invece, per la decisione sulla ricusazione si è preferito, in linea con un indirizzo legislativo ormai affermato, attribuire la competenza ad un organo collegiale, individuandolo nella corte di appello, che già oggi si occupa delle ricusazioni di tutti i giudici di merito.
I commi 3 e 4 dettano le regole per la sostituzione del giudice astenuto o ricusato. In primo luogo, si prevede che questi sia sostituito con altro giudice del medesimo ufficio; laddove ciò non risulti, in ragione del numero dei giudici addetti all'ufficio, possibile, la corte o il tribunale rimetterà il procedimento al giudice di pace viciniore.
III. Disciplina del processo
3. Indagini preliminari. – Il capo II del titolo I è dedicato alle indagini preliminari ed attua la direttiva contenuta nell'articolo 17 comma 1, lett. b), della legge delega, secondo cui l'attività di indagine per i reati attribuiti al giudice di pace deve essere "di regola affidata esclusivamente alla polizia giudiziaria". La direttiva si preoccupa di ribadire come i nuovi assetti investigativi debbano rispettare i principi stabiliti negli articoli 109 e 112 Cost., che affermano la diretta disponibilità della polizia giudiziaria all'autorità giudiziaria e l'obbligatorietà dell'azione penale in capo al pubblico ministero; per cui mentre viene attribuito alla polizia giudiziaria il compito di "disporre direttamente" la comparizione dell'imputato davanti al giudice, si riafferma la necessità che sia il pubblico ministero a formulare l'imputazione e, quindi, ad esercitare l'azione penale.
Il legislatore delegante, anche in considerazione della tipologia dei reati attribuiti alla cognizione del giudice onorario, ha operato una dequotazione del ruolo delle indagini preliminari in questo processo, senza tuttavia eliminarle: l'intervento delineato nella delega prevede una struttura semplificata della fase investigativa, in cui soggetto principale è la polizia giudiziaria, non più il pubblico ministero, anche se mantiene intatte tutte le sue prerogative di direzione, controllo e determinazione finale sui risultati delle indagini. Si è trattata di una scelta legata alla tipologia dei reati e, inoltre, alle stesse caratteristiche della giurisdizione onoraria, che tende a risolvere i conflitti prevalentemente attraverso interventi e filtri conciliativi; tuttavia, sono state considerate anche esigenze di carattere deflattivo riferite ai compiti del pubblico ministero, al quale non viene sottratta la "competenza" dei reati attribuiti al giudice di pace. La nuova competenza penale allevia il carico del tribunale - anche nella prospettiva futura di un aumento delle attribuzioni -, lasciando, però, invariati i compiti degli uffici di procura: tuttavia, la delega sembra farsi carico anche di tale aspetto, nella misura in cui si preoccupa di limitare l'intervento del pubblico ministero nelle indagini. Ovviamente, si tratta di una limitazione che resta affidata alle valutazioni dello stesso pubblico ministero, nel senso che non opera come divieto per la parte pubblica del processo di svolgere il ruolo specifico che le assegna l'ordinamento processuale e che le consente di limitarsi ad effettuare un controllo finale sulle indagini affidate alla polizia giudiziaria, per poi determinarsi nel senso dell'esercizio dell'azione penale, ovvero della richiesta di archiviazione della notizia di reato ritenuta infondata.
Si sottolinea, inoltre, che la direttiva di cui alla lett. b) del citato articolo 17 della delega, si pone in un rapporto alternativo rispetto alle previsioni contenute nelle successive lett. c), d) ed e), che prevedono una forma di vocatio in iudicium che prescinde dalla fase preliminare delle indagini e si affida all'iniziativa della parte offesa, alla quale viene offerta la possibilità, limitatamente al caso di reati perseguibili a querela, di ricorrere direttamente al giudice per poter ottenere una pronuncia sulla responsabilità dell'imputato. Tenuto conto che i delitti perseguibili a querela rappresentano il dato quantitativamente più rilevante della competenza del giudice di pace, può prevedersi che il ricorso diretto diventi la forma elettiva di vocatio per i reati perseguibili a querela; l'altra forma, affidata prevalentemente all'iniziativa della polizia giudiziaria, finirà invece per gestire i reati perseguibili di ufficio e, quindi, soprattutto le contravvenzioni.
3.1. Attività di indagine della polizia giudiziaria - L'articolo 11 del decreto disciplina le modalità di svolgimento delle indagini ad opera della polizia giudiziaria, funzionali all'assolvimento dell'obbligo di riferire la notizia di reato. La disposizione deroga, in parte, a quanto previsto dall'articolo 347 c.p.p., nel senso che impone alla polizia giudiziaria, che abbia acquisito una notizia di reato, di compiere di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del fatto e per l'individuazione dell'autore del reato. In realtà, anche sulla base degli articoli 347 e 348 c.p.p. la polizia giudiziaria compie oggi un'attività formale di indagine, consistente nell'assicurare le fonti di prova e nel raccogliere ogni elemento utile alla ricostruzione del fatto e alla individuazione del colpevole. La differenza è rappresentata dalla circostanza che la norma in esame, in maniera esplicita, attribuisce alla polizia giudiziaria il compito di porre in essere un'attività investigativa completa, non limitata all'espletamento degli atti urgenti o ad una prima informativa al pubblico ministero sulla notizia di reato. In particolare, la comunicazione o informativa di reato viene sostituita dalla relazione che la polizia giudiziaria deve trasmettere al pubblico ministero sull'attività investigativa svolta e l'articolo 11 comma 2 precisa che, nel caso in cui la stessa polizia ritenga fondata la notizia, debba predisporre anche un'ipotesi di imputazione (enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, con l'indicazione degli articoli di legge violati), richiedendo l'autorizzazione a disporre la citazione a giudizio della persona sottoposta ad indagini. Da attività prevalentemente informativa, destinata a far apprendere i dati necessari per l'iscrizione della notizia nel registro di reato e a porre il pubblico ministero in condizione di orientare e dirigere le indagini, l'attività della polizia, in questa fase, diventa stabilmente funzionale ad esaurire le indagini, offrendo al pubblico ministero un quadro investigativo completo che gli consenta la scelta tra la richiesta di archiviazione o l'esercizio dell'azione penale.
D'altra parte, si tratta di una soluzione che risulta pienamente aderente al criterio di delega, che non contiene alcun riferimento ad una atipica attività investigativa della polizia giudiziaria, con nuovi termini di chiusura delle indagini o con un ampliamento dei poteri investigativi, ma che sembra piuttosto richiamare l'attuale modello procedimentale, seppure riconoscendo un ampliamento delle determinazioni investigative della polizia giudiziaria. Sono state tradotte le esigenze del legislatore delegante, tenendo in debito conto le ragioni organizzative degli uffici del pubblico ministero: conservare la possibilità di esercitare ogni forma di controllo, compresa quella relativa alla direzione delle indagini, ma senza l'onere della gestione diretta delle indagini, che almeno in prima battuta restano affidate alla polizia giudiziaria.
Peraltro, l'eventuale attribuzione di nuovi poteri investigativi alla polizia giudiziaria non avrebbe trovato una ragionevole giustificazione con riferimento ad un modello di processo che si pone tra gli obiettivi principali quello della conciliazione delle parti e della mediazione dei micro-conflitti interpersonali.
L'attribuzione di una maggiore capacità di iniziativa investigativa, che prescinde da un necessario ed immediato coinvolgimento nelle indagini del pubblico ministero, esige una completezza dei mezzi investigativi a disposizione della polizia giudiziaria. Nella misura in cui la fase delle indagini viene affidata prevalentemente alla polizia giudiziaria, con lo specifico compito di svolgere indagini tendenzialmente complete, ad essa deve essere assicurata la possibilità di compiere per lo meno tutti gli atti investigativi del pubblico ministero. Coerentemente con l'impostazione cui sopra si è fatto riferimento, non sono stati riconosciuti poteri nuovi e diretti in capo alla polizia giudiziaria, ma si è previsto, all'art. 13, un meccanismo procedimentale in forza del quale la polizia giudiziaria può richiedere al pubblico ministero di essere autorizzata al compimento di singoli atti che normalmente non può compiere autonomamente. In sostanza, si realizza un rovesciamento del rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero: non è quest'ultimo che, dirigendo le indagini, delega la polizia giudiziaria per alcuni atti, ma è la polizia giudiziaria che nello svolgimento delle investigazioni si rivolge al pubblico ministero, per essere autorizzata al compimento di un atto che ritiene sia necessario in quella fase delle indagini.
E' l'articolo 13 che individua gli atti oggetto di questa speciale autorizzazione: si tratta, innanzitutto, degli interrogatori e dei confronti, che sono già oggi delegabili dal pubblico ministero; inoltre, vengono presi in considerazione anche i sequestri e le perquisizioni, nei soli casi in cui la polizia non può procedervi di propria iniziativa; infine, vi sono ricompresi gli accertamenti tecnici irripetibili che la legge riserva al solo pubblico ministero. In questo modo, l'attività della polizia giudiziaria viene ad avvicinarsi, almeno per quanto concerne il ricorso ai mezzi tipici di investigazione, a quella del pubblico ministero, senza arrivare ad una attribuzione stabile di tali poteri, ma lasciando all'organo di direzione delle indagini ogni potere di valutazione in concreto.
Il meccanismo disciplinato dal richiamato articolo 13 prevede che dinanzi alla richiesta della polizia giudiziaria, il pubblico ministero possa autorizzare il singolo atto mediante delega specifica, oppure decidere di compiere personalmente l'atto richiesto. In entrambi i casi, l'intervento del pubblico ministero resta episodico, non finisce cioè per "condizionare" le indagini della polizia giudiziaria. Nel primo caso, si tratta di una semplice autorizzazione; nell'altra ipotesi il pubblico ministero si limita a compiere l'atto richiesto, per poi restituire la relativa documentazione alla polizia giudiziaria che procederà oltre nelle indagini. Non viene svolto alcun controllo o verifica sui risultati – parziali – delle indagini, ma il pubblico ministero si limita a rimuovere un ostacolo giuridico per il proficuo svolgimento delle indagini. Naturalmente, la polizia giudiziaria dovrà in qualche modo motivare le ragioni della richiesta e potrà anche portare a conoscenza del pubblico ministero i risultati provvisori sull'attività svolta.
Naturalmente il pubblico ministero potrà anche negare l'autorizzazione, sia in base a valutazioni di scelta investigativa, che per ragioni legate, ad esempio, alla mancanza di presupposti per lo svolgimento dell'atto richiesto.
Inoltre, l'articolo 13 considera espressamente l'ipotesi in cui il pubblico ministero anziché pronunciarsi sulla richiesta di autorizzazione, scelga di procedere personalmente nelle indagini. Si tratterà, normalmente, di casi in cui il pubblico ministero sia in grado di valutare le scelte investigative operate dalla polizia giudiziaria e, non condividendole, decida di assumere personalmente la direzione delle indagini, eventualmente anche delegando il compimento di atti diversi da quelli richiesti, oppure, più semplicemente, limitandosi ad impartire direttive per l'ulteriore corso delle investigazioni.
L'intera struttura del decreto legislativo, nella parte riguardante il processo, è costruita secondo una tecnica legislativa che, da un lato propone disposizioni in deroga alle norme e agli istituti del codice di procedura penale, dall'altra parte richiede la necessaria integrazione di quelle norme codicistiche che non siano incompatibili con il decreto stesso (articolo 2, comma 1). Tale impostazione è valida anche per le disposizioni in materia di indagini preliminari che, quindi, devono essere lette tenendo presente le norme del codice di rito con le quali vanno integrate.
In particolare, per quanto riguarda l'attività di polizia giudiziaria trovano applicazione tutte le ordinarie disposizioni in materia di atti di investigazione, dall'identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte indagini (articolo 349 c.p.p.), alle norme sulla documentazione dell'attività di polizia giudiziaria (articolo 357 c.p.p.). Così, ad esempio, nel caso in cui la polizia giudiziaria proceda ad un sequestro, dovrà osservare le disposizioni contenute nell'articolo 355 c.p.p. in materia di convalida e, quindi, trasmettere il relativo verbale al pubblico ministero nei tempi e nei modi previsti dalla norma: in tale ipotesi, ovviamente, non troverà applicazione il termine per la presentazione della relazione al pubblico ministero di cui all'articolo 11 del decreto, ma il diverso termine indicato dall'articolo 355 comma 1 c.p.p. (senza ritardo e comunque non oltre le quarantottore). Identica situazione si avrà nel caso di perquisizione eseguita ad iniziativa della polizia giudiziaria (articolo 352 comma 4 c.p.p.) o di sequestro preventivo nei casi di urgenza (articolo 321 comma 3-bis c.p.p.).
In tutte queste ipotesi, la trasmissione del verbale al pubblico ministero secondo tempi diversi rispetto alla trasmissione della relazione finale, non impedisce alla polizia giudiziaria di continuare l'attività di indagine, ma consente alle parti interessate (persona sottoposta alle indagini, persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione) di poter far valere tempestivamente le proprie ragioni, anche attraverso una richiesta di riesame.
3.2 Notizie di reato ricevute dal pubblico ministero. - La disciplina descritta nel precedente paragrafo considera il caso in cui la notizia di reato sia direttamente acquisita dalla polizia giudiziaria. L'articolo 12 regola, invece, l'ipotesi in cui sia il pubblico ministero a ricevere la notizia di reato o perché ne prende direttamente conoscenza ovvero perché la riceve da privati, da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio.
In tali ipotesi, il pubblico ministero ha le medesime possibilità di scelta rispetto a reati non appartenenti alla competenza del giudice di pace e di cui ha immediata e diretta conoscenza: potrà, quindi, richiedere l'archiviazione o disporre la citazione a giudizio dell'imputato, ovvero svolgere le indagini.
La prima opzione si riferisce al caso in cui la notizia appare obiettivamente e immediatamente infondata: non vi è ragione di investire la polizia giudiziaria di una notizia che il pubblico ministero ritiene in partenza non fondata. Ovviamente, la richiesta può riguardare qualunque caso di archiviazione, compreso quello previsto dall'articolo 34 del decreto per la particolare tenuità del fatto.
La seconda scelta è collegata, invece, ad una notitia criminis completa in ogni suo aspetto, anche in relazione ai dati identificativi della persona alla quale il reato è attribuito, che consente al pubblico ministero di poter immediatamente formulare l'imputazione, autorizzando la polizia giudiziaria alla citazione a giudizio dell'imputato.
Nella terza ipotesi, infine, il pubblico ministero ritiene necessario lo svolgimento di indagini per verificare gli elementi contenuti nella notizia ovvero solo per procedere alla identificazione delle persone. L'articolo 12, tuttavia, prevede che il pubblico ministero anziché svolgere personalmente le indagini, attivi il procedimento "ordinario" in cui, come si è detto, è la polizia giudiziaria a svolgere l'attività investigativa. La notizia, quindi, viene trasmessa alla polizia giudiziaria perché proceda a norma dell'articolo 11, per poi consegnare la relazione per le definitive valutazioni sull'esercizio dell'azione penale. Si è preferito ribadire l'ordinarietà della procedura che affida alla polizia giudiziaria l'attività investigativa, almeno in prima battuta, preservando, in ogni caso, il potere del pubblico ministero di controllare lo svolgimento delle indagini nel momento in cui gli viene trasmessa la relazione conclusiva, ovvero anche prima, nelle ipotesi di richiesta di autorizzazione al compimento di atti specifici (articolo 13).
L'articolo 12 prevede, inoltre, che nel trasmettere la notizia di reato il pubblico ministero possa anche impartire alla polizia giudiziaria le necessarie direttive, in modo tale da impostare le indagini secondo filoni investigativi che egli stesso condivide. In questo modo, si evita di coinvolgere il pubblico ministero immediatamente nelle indagini, ma gli si assicura la possibilità di una immediata direzione dell'attività della polizia giudiziaria.
3.3. Iscrizione della notizia di reato. - L'articolo 14 disciplina il regime delle iscrizioni delle notizie di reato. In realtà, la disciplina prevista per il procedimento davanti al giudice di pace non si differenzia da quella prevista dal codice di procedura. Le particolarità sono conseguenti alla diversa struttura delle indagini preliminari. Infatti, nel caso del ricorso diretto ad istanza della persona offesa (articolo 21), mancando una fase preliminare di indagine, non vi è ragione di prevedere l'obbligo di iscrizione della notizia (una forma di registrazione del ricorso sarà prevista dalle norme regolamentari ex articolo 51).
L'iscrizione cui si riferisce l'articolo 14 riguarda, invece, il procedimento che si conclude con la citazione a giudizio ad opera della polizia giudiziaria. Si prevede che l'obbligo di iscrizione sorga con la trasmissione della relazione, che rappresenta il momento in cui il pubblico ministero viene ad avere conoscenza della notizia di reato. In questo caso, all'iscrizione non conseguirà la decorrenza del termine per lo svolgimento delle indagini, in quanto normalmente la trasmissione segnerà la fine e non l'inizio delle indagini. L'iscrizione svolge, prevalentemente, una funzione di registrazione e di controllo, ma ad essa non seguono sempre conseguenze di carattere processuale.
L'articolo 14, inoltre, prevede l'obbligo dell'iscrizione in tutti i casi in cui, anche prima della trasmissione della relazione, il pubblico ministero abbia cognizione della notizia. In particolare, l'iscrizione anticipata della notizia vi sarà in tutti i casi in cui il pubblico ministero ritenga di dovere svolgere personalmente le indagini e ogni volta che, anche in mancanza della relazione, ritenga di dover definire il procedimento con l'immediata richiesta di archiviazione o di citazione a giudizio (articolo 12).
3.4. Chiusura delle indagini preliminari. – Gli articoli 15 e 16 disciplinano la fase successiva allo svolgimento delle indagini. Rispetto alle disposizioni del codice di procedura penale, identico è l'epilogo di questa fase: il pubblico ministero, al quale viene trasmessa la relazione, può richiedere l'archiviazione, qualora ritenga infondata la notizia di reato, ovvero esercitare l'azione penale. In quest'ultimo caso, dovrà formulare l'imputazione e, contestualmente, autorizzare la polizia giudiziaria a citare a giudizio l'imputato. Peraltro, nel formulare l'imputazione, qualora la scelta sia coincidente con quella della polizia giudiziaria, potrà utilizzare l'ipotesi di imputazione da questa predisposta nella relazione trasmessagli.
E' in questa fase che il pubblico ministero esercita il controllo sulla fondatezza della notizia e sulla completezza delle indagini.
Proprio con riferimento alle indagini, si è previsto (articolo 15, comma 2), con ciò integrando l'originaria disciplina dello schema di decreto, che il pubblico ministero, qualora ritenga incomplete le indagini eseguite dalla polizia giudiziaria, oppure reputi necessario un approfondimento delle stesse investigazioni, ne disponga l'integrazione.
Onde consentire moduli differenziati di supplemento investigativo, si è precisato che il pubblico ministero possa o provvedervi personalmente, ovvero avvalersi della polizia giudiziaria, alla quale, a seconda dei casi, potrà impartire direttive o delegare specifiche attività: al pubblico ministero è dunque assicurata la possibilità di assumere in pieno la direzione delle indagini
L'articolo 16 contiene la disciplina relativa ai termini di durata delle indagini per i procedimenti penali dinanzi al giudice di pace.
Tale termine, fissato in quattro mesi dall'iscrizione della notizia di reato, appare congruo in relazione alla tipologie degli illeciti devoluti alla competenza di questo giudice, e consente al pubblico ministero, ricevuta la notizia di reato, di avvalersi di tale spatium temporis per l'eventuale completamento delle investigazioni.
Peraltro, non potendosi escludere la necessità in taluni casi di ulteriore attività di indagine, si è, con ciò aderendosi alle osservazioni in tal senso formulate dal Senato, prevista la possibilità di un'ulteriore prosecuzione delle stesse.
Si è dunque introdotta una particolare disciplina (articolo 16, commi 2 e 3), che consente al pubblico ministero di disporre, in presenza di indagini particolarmente complesse, la loro prosecuzione.
Detta prosecuzione è disposta de plano con provvedimento motivato e per un periodo di tempo non superiore a due mesi.
Onde garantire il necessario controllo giurisdizionale in ordine alla legittimità di una dilazione degli ordinari termini di durata delle indagini, il provvedimento del pubblico ministero viene immediatamente comunicato al giudice di pace, individuato a norma dell'articolo 5, comma 2, che ove ritenga insussistenti, in tutto o in parte, le ragioni a fondamento della prosecuzione, dichiara, entro cinque giorni, la chiusura delle indagini ovvero riduce il termine fissato.
In tal modo, la durata massima delle indagini risulta determinata in sei mesi, termine come è noto che il codice di rito individua come quello ordinario per le indagini preliminari.
D'altro canto, nei procedimento de quo, la prosecuzione è sempre riconnessa ad una situazione di particolare complessità che integra un presupposto più rigoroso rispetto a quello della giusta causa previsto dall'articolo 406, comma 1, c.p.p..
Infine, a differenza del procedimento ordinario, è esclusa la possibilità di ulteriori dilazioni dei tempi di indagine.
3.5. Archiviazione - L'articolo 17 è dedicato al procedimento di archiviazione. Si è data attuazione al criterio della delega che prevede, espressamente, che il pubblico ministero debba richiedere l'archiviazione della notizia di reato al giudice di pace competente per territorio, riconoscendo, in questo modo, al giudice onorario le funzioni proprie del giudice per le indagini preliminari.
Come già evidenziato, si è provveduto ad individuare quale giudice di pace competente per l'archiviazione quello c.d. "circondariale", cioè il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente. Si tratta di una scelta che non sembra porsi in contrasto con la delega e che, anzi, limita i possibili rischi di incompatibilità tra giudici che svolgono funzioni di controllo sull'esercizio dell'azione penale e quelli che invece devono pronunciarsi sulla responsabilità dell'imputato citato a giudizio. Una diversa soluzione, che ad esempio individuasse come giudice dell'archiviazione lo stesso giudice di pace competente per il giudizio, provocherebbe notevoli problemi organizzativi per lo svolgimento dei processi in tutte quelle sedi in cui, di fatto, vi è un solo giudice di pace: infatti, ogni qual volta il procedimento di archiviazione si dovesse concludere con l'invito al pubblico ministero a formulare l'imputazione o a svolgere ulteriori indagini scatterebbe una causa di incompatibilità per il giudice di pace, che non potrebbe celebrare il dibattimento.
Ciò comporterebbe gravi ricadute sulla funzionalità del sistema complessivo.
Infatti, tenuto conto dell'elevato numero di uffici con in organico solo due giudici di pace (ed in concreto in molti casi con un solo giudice in servizio), potrebbero determinarsi rilevanti difficoltà per l'individuazione del giudice competente al giudizio. Deve in proposito rilevarsi che la stessa legge di delega ha inserito, nella legge n. 374 del 1991, l'articolo 10-bis che fa divieto, salvo i casi di vacanza o impedimento temporaneo del giudice (situazioni non riconducibili a quella in argomento), di disporre l'applicazione o la supplenza dei giudici di pace presso altri uffici.
A fronte di tale disciplina, che non è parsa modificabile in sede di attuazione della delega, la soluzione adottata è sembrata l'unica in grado di non determinare seri rischi di paralisi del processo.
L'individuazione di una competenza "circondariale" per il procedimento di archiviazione è, d'altro canto, ugualmente rispettosa del criterio di delega, in quanto definisce, preventivamente ed in termini generali ed astratti una competenza per territorio del giudice di pace – sempre collegata al locus commissi delicti - e, inoltre, limita radicalmente i rischi di possibili cause di incompatibilità nella misura in cui assegna tale compito ad un giudice di pace avente sede negli uffici più grandi e dotati di un organico adeguato.
Per quel che riguarda le ipotesi in cui può disporsi l'archiviazione, la norma fa riferimento anzitutto ai casi di infondatezza della notizia di reato.
Inoltre, si potrà procedere all'archiviazione della notizia qualora manchi una condizione di procedibilità o il fatto non sia previsto dalla legge come reato oppure qualora il reato sia estinto (articolo 411 c.p.p.), ovvero l'autore o gli autori del reato restino ignoti (articolo 415 comma 1 c.p.p.).
Inoltre, è stata espressamente richiamata la disposizione di cui all'articolo 125 disp. att., che consente l'archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l'accusa in giudizio.
Infine, a fini di fugare ogni possibile dubbio, è stato previsto che la richiesta di archiviazione può essere formulata nell'ipotesi di cui all'articolo 34 del decreto (particolare tenuità del fatto).
Per quanto riguarda il procedimento, l'unica differenza di rilievo rispetto alla disciplina del codice è rappresentata dalla mancata previsione dell'udienza da tenere in caso di opposizione della persona offesa all'archiviazione. L'articolo 17, infatti, si limita a prevedere un contraddittorio cartolare, in omaggio al principio di semplificazione contenuto nella delega. Si prevede che copia della richiesta di archiviazione venga notificata alla persona offesa che nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nella richiesta deve essere precisato che nel termine di dieci giorni la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari. Con l'opposizione alla richiesta di archiviazione la persona offesa deve indicare, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova che giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie.
Il pubblico ministero deve in ogni caso procedere ai sensi delle disposizioni indicate quando la richiesta di archiviazione è successiva alla trasmissione del ricorso immediato da parte del giudice di pace ai sensi dell'articolo 26, comma 2 del decreto (inammissibilità o manifesta infondatezza del ricorso).
Con la presentazione del ricorso diretto, infatti, la persona offesa assume un ruolo propulsivo del procedimento, dovendo pertanto essere necessariamente consentito il suo intervento in caso di richiesta di archiviazione.
Se la richiesta di archiviazione non viene accolta, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero indicando le ulteriori indagini necessarie e fissando il termine indispensabile per il loro compimento ovvero disponendo che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli l'imputazione.
3.6. Assunzione di prove non rinviabili. - Il criterio generale della massima semplificazione del processo imposto dalla legge di delega e la stessa struttura della fase delle indagini delineata dall'articolo 17 comma 1 lett. b), hanno portato a ridurre il ruolo dell'incidente probatorio. Come è noto, si tratta di un istituto, previsto nel codice di procedura, destinato a consentire l'assunzione, nel rispetto del contraddittorio e davanti al giudice per le indagini preliminari, di prove destinate ad avere piena efficacia nella fase del giudizio, ma che vengono assunte nel corso delle indagini sul presupposto della non ripetibilità in dibattimento. Si tratta, cioè, di preservare al giudice del giudizio risultati probatori non sottraibili alla sua cognizione.
La scelta, contenuta nel decreto, di prevedere, solo per alcuni specifici atti, l'intervento del giudice di pace c.d. "circondariale" in funzione di giudice per le indagini preliminare, ha consigliato di ridurre al massimo l'ambito applicativo dell'incidente probatorio che, soprattutto a seguito delle ultime riforme, ha visto notevolmente ampliato il proprio ruolo. Peraltro, considerando la tipologia dei reati attribuiti alla competenza della magistratura onoraria, deve riconoscersi come il ricorso all'incidente probatorio sarebbe, in ogni caso, del tutto residuale in questo processo. Da qui l'opzione di non riproporre l'istituto, soprattutto con riferimento ai diversi casi previsti dall'articolo 392 c.p.p..
Tuttavia, una radicale esclusione di meccanismi processuali diretti a consentire l'immediata assunzione di prove non rinviabili al dibattimento, avrebbe avuto l'effetto di compromettere i diritti delle parti nel processo, che non avrebbero potuto azionare in maniera piena il proprio diritto alla prova.
E' stato, quindi, mutuato dal codice di rito l'istituto previsto dall'articolo 467 c.p.p., con gli opportuni adattamenti del caso (articolo 18). Come è noto si tratta di un istituto - la cui operatività è limitata ad un ambito temporale del processo individuabile nella fase degli atti preliminari al dibattimento - che consente alle parti di richiedere al presidente del tribunale l'assunzione delle prove urgenti non rinviabili al dibattimento.
L'articolo 18 del decreto non limita l'operatività degli atti urgenti alla fase interinale del processo, ma ne amplia l'ambito di applicazione ricomprendendo l'intera fase delle indagini preliminari, fino all'udienza di comparizione, sostituendo, di fatto, l'incidente probatorio, esperibile, appunto, nelle indagini preliminari.
Per quanto concerne il giudice competente ad assumere le prove non rinviabili, nella fase delle indagini all'incombente procederà il giudice circondariale, ai sensi dell'art. 4, comma 2.
Viceversa, dopo la chiusura delle indagini preliminari (e nel procedimento su ricorso della persona offesa, nel quale non vi sono indagini) le prove verranno assunte dallo stesso giudice del dibattimento: in questo caso, non si è individuato il giudice di pace c.d. "circondariale", dal momento che il novellato articolo 34 comma 2-quater c.p.p. esclude espressamente l'incompatibilità del giudice del dibattimento che, in precedenza, abbia provveduto all'assunzione dell'incidente probatorio nel corso delle indagini, fattispecie che deve ritenersi perfettamente applicabile al caso in esame.
La richiesta di assunzione delle prove può provenire dall'imputato, dalla parte offesa o dal pubblico ministero. L'assunzione delle prove avviene nel contraddittorio delle parti, secondo le forme previste per il dibattimento e, così come prescrive l'articolo 467 comma 2 c.p.p., deve essere dato avviso del compimento dell'atto almeno ventiquattro ore prima al pubblico ministero, alla persona offesa e ai difensori.
I verbali degli atti compiuti sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento e, quindi, saranno direttamente utilizzabili dal giudice.
3.7. Intervento del giudice di pace nella fase delle indagini preliminari – Si è già detto come, nel disciplinare la fase delle indagini preliminari, si siano tenuti in considerazione, da un lato, i criteri specifici dettati dalla citata lett. b), dall'altro la direttiva di ordine generale contenuta in apertura dell'articolo 17 della delega che, nell'imporre come modello di riferimento il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, enuncia il criterio della massima semplificazione. Il presente decreto ha ritenuto di attuare tali criteri anche con riferimento ai soggetti che agiscono nel corso delle indagini non riproponendo la figura di un giudice ad hoc per le indagini preliminari.
Per evitare rischi di possibili cause di incompatibilità del giudice di pace, nell'esercizio delle diverse funzioni di giudice "delle indagini" e di giudice del dibattimento, si è previsto che la competenza ad emettere i provvedimenti di archiviazione o a disporre i sequestri preventivi e conservativi appartenga al giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice competente territorialmente. In questo modo, è stata individuata una competenza generale "circondariale", impegnando quegli uffici più grandi, con organici adeguati ed in grado di ridurre i rischi di incompatibilità.
Lo stesso criterio di individuazione del giudice per l'archiviazione è previsto anche per una serie di altri provvedimenti che, nel processo ordinario, sono attribuiti al giudice per le indagini preliminari. Così, l'articolo 19, assegna al giudice di pace c.d. "circondariale" la competenza a decidere sull'opposizione degli interessati contro il decreto del pubblico ministero che dispone la restituzione o rigetta la richiesta di restituzione delle cose sequestrate, nonché sulla richiesta di sequestro a norma dell'articolo 368 c.p.p. e di riapertura delle indagini.
La soluzione prescelta coniuga le esigenze della semplificazione e della efficienza, con il rispetto delle garanzie processuali, dal momento che viene confermato il ruolo di controllo e di garanzia di un giudice nel corso delle indagini.
Peraltro, va pure tenuto presente che, nel processo davanti al giudice di pace, il ruolo svolto dal giudice nelle indagini preliminari non assume quegli aspetti di delicatezza che investono i poteri del g.i.p. nel procedimento ordinario, in quanto manca lo snodo dell'udienza preliminare, con i suoi possibili epiloghi alternativi al giudizio e non vi sono misure cautelari da disporre (ad eccezione di quelle di natura reale); allo stesso modo, come già evidenziato, non trova applicazione l'istituto dell'incidente probatorio.
Nello schema di decreto, era stata attribuita al giudice per le indagini preliminari la competenza in ordine all'autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni, mezzo di ricerca della prova utilizzabile, in forza dell'articolo 266 c.p.p., anche per i reati di ingiuria e di minaccia attribuiti alla cognizione del giudice di pace. Scartata l'idea di escludere, per questi reati, il ricorso alle intercettazioni, pena un pregiudizio ingiustificato circa l'utilizzo di un mezzo di ricerca della prova che una disposizione specifica ritiene funzionale all'individuazione dei responsabili di quel tipo di condotte illecite, si era preferito lasciare ad un giudice più attrezzato, anche dal punto di vista organizzativo, la gestione di un mezzo di ricerca della prova particolarmente invasivo.
Peraltro, nel parere formulato dalla Commissione Giustizia del Senato, si è evidenziato che tale soluzione non era del tutto ragionevole tenuto conto che in realtà i maggiori incombenti gravano sull'ufficio di procura.
L'osservazione è apparsa persuasiva e dunque si è prevista la competenza del giudice di pace "circondariale" anche in relazione alla richiesta di autorizzazione all'intercettazione e ai provvedimenti conseguenti.
4. Atti introduttivi del giudizio: la citazione ad opera della polizia giudiziaria. - L'articolo 20 disciplina una delle due forme di vocatio in ius previste dal presente decreto. In attuazione della delega è la polizia giudiziaria che, sulla base dell'imputazione formulata dal pubblico ministero, provvede a citare l'imputato davanti al giudice di pace.
La citazione contiene le generalità dell'imputato e le altre indicazioni personali che valgono ad identificarlo, l'indicazione della persona offesa, qualora risulti identificata, l'imputazione formulata dal pubblico ministero e l'indicazione delle fonti di prova di cui si chiede l'ammissione. Se viene chiesto l'esame di testimoni o consulenti tecnici, nell'atto devono essere indicate, a pena di inammissibilità, anche le circostanze su cui deve vertere l'esame. Per il resto la citazione deve contenere le normali indicazioni relative al giudice competente per il giudizio, nonché gli avvisi all'imputato circa le sue facoltà difensive. La citazione è notificata, a cura della polizia giudiziaria, all'imputato, al suo difensore e alla parte offesa almeno trenta giorni prima dell'udienza ed è depositata nella segreteria del pubblico ministero unitamente al fascicolo contenente la documentazione relativa alle indagini espletate.
L'atto di citazione di cui all'articolo 20, presenta una struttura a formazione complessa, nel senso che esso è composta dall'imputazione formulata dal pubblico ministero, inserita nella citazione a comparire, che è atto proprio della polizia giudiziaria, tanto è vero che è prevista la sottoscrizione di un ufficiale di polizia giudiziaria. In ogni caso, la citazione a giudizio avviene sulla base delle precise disposizioni del pubblico ministero che, oltre a formulare l'imputazione ed autorizzare la citazione, deve anche richiedere la data di fissazione dell'udienza al giudice (articolo 49) per poi comunicarla alla polizia giudiziaria, che dovrà provvedere alla materiale predisposizione dell'atto e alle necessarie notificazioni.
In realtà, il criterio di delega fa riferimento ai poteri della polizia giudiziaria di "disporre direttamente la comparizione dell'imputato davanti al giudice"; tuttavia, un interpretazione formalistica del criterio avrebbe portato a considerare la possibilità di disporre una sorta di comparizione, anche coattiva, dell'imputato ad opera della polizia giudiziaria, soluzione questa improponibile sia perché non conforme ai principi della Costituzione, sia perché non in linea con la stessa impostazione generale della legge delega, che nel procedimento davanti al giudice di pace esclude il ricorso a mezzi coercitivi.
Pertanto, la soluzione prescelta traduce la direttiva della delega nel senso di attribuire alla "responsabilità" della polizia giudiziaria l'intera fase che precede il giudizio: non solo lo svolgimento delle indagini, ma anche la vocatio in ius dell'imputato, utilizzando l'ordinario istituto della citazione a giudizio.
4.1. Citazione su istanza della persona offesa. - Gli articoli da 21 a 28, con un'appendice costituita dall'articolo 30 collocato nel capo dedicato al "giudizio" e dall'articolo 38 in tema di impugnazioni, disciplinano il "ricorso immediato" al giudice da parte della persona offesa per i reati procedibili a querela, in attuazione dell'articolo 17 comma 1 lett. c), d) ed e) della legge delega.
Sul punto si registra una delle innovazioni più significative (anche sul piano generale) introdotte dalla delega, in quanto il privato viene autorizzato, pur con alcuni temperamenti relativi alla informazione del pubblico ministero finalizzata ad un suo eventuale intervento, a promuovere direttamente il giudizio in materia penale, così evocando la figura dell'azione penale privata.
Si è posta, dunque, la necessità di una scelta di fondo tra una soluzione decisamente orientata verso questo istituto, non totalmente sconosciuto all'ordinamento vigente (v. per esempio, almeno secondo una certa interpretazione, l'articolo 100 d.p.r. 16 maggio 1960 n. 570 in materia di reati elettorali) e di per sè non contrastante con l'articolo 112 Cost. (v. per esempio Corte costituzionale, sent. 26 luglio 1979, n. 84), che comportasse l'insorgere di una vera e propria imputazione per volontà privata; ovvero una impostazione meno radicale e assolutista, oltre che più coerente col sistema processuale ordinario. E' prevalsa questa seconda impostazione, in quanto si è ritenuto di dover contemperare i benefici di speditezza per l'interessato e di deflazione del carico di lavoro dell'organo pubblico, assicurati dall'iniziativa del privato, con insopprimibili esigenze di controllo preventivo del pubblico ministero, anche a garanzia dei diritti di difesa, come del resto richiesto dall'articolo 17 comma 1 lett. e) della legge delega.
Probabilmente la formulazione della lettera c) del citato articolo 17 ("la citazione in giudizio può essere esercitata anche direttamente dalla persona offesa"), anche alla luce delle considerazioni sulla (non accolta) soppressione dell'inciso avanzate nel corso dei lavori parlamentari, non avrebbe consentito l'affidamento monopolistico dell'esercizio dell'azione penale al privato, sebbene soltanto per "taluni" reati da enucleare appositamente, ostandovi il dettato dell'articolo 112 Cost., che assegna al pubblico ministero (eventualmente non in maniera esclusiva) l'iniziativa penale. Ma pur nella scelta di un regime misto, è parso poi francamente troppo azzardato e in definitiva inaccettabile che il privato potesse comunque determinare motu proprio l'elevazione di una formale imputazione a carico della persona di cui si chiede la convocazione a giudizio e la assunzione in capo a questi della qualità di imputato. Ciò avrebbe provocato il rischio di avallare chiamate in giudizio totalmente infondate o puramente strumentali e comunque non pertinenti all'oggetto penale, con evidenti conseguenze pregiudizievoli, almeno nella sostanza e nell'immediato, a carico del vocatus in jus, sebbene redimibili, ma tardivamente, in fasi successive del giudizio con gli ordinari mezzi di controllo del pubblico ministero e del giudice.
Si è così preferito impostare il nuovo istituto sulla falsariga di una sorta di citazione civile con effetti penali (ispirandosi per certi versi al ricorso nel processo del lavoro, per la sua tempistica, e alla costituzione di parte civile nel processo penale), che consenta all'interessato di giungere in tempi brevi a quell'udienza volta a ottenere soddisfazione del torto subito, che per le vie ordinarie (ossia a seguito di semplice presentazione della querela) avrebbe sicuramente cadenze di fissazione molto più lunghe. Una volta avviato il procedimento con la presentazione del ricorso è, però, rimesso al pubblico ministero di aderirvi o meno, promuovendone la prosecuzione o la interruzione con le proprie richieste al giudice.
Con il ricorso immediato vengono posti in capo al ricorrente particolari oneri (si pensi al complesso contenuto del ricorso, agli oneri di notificazione, agli effetti della ingiustificata assenza in giudizio), che però non possono in alcun modo ritenersi "punitivi" e tali da scoraggiare a priori l'accesso a questo sistema alternativo di citazione a giudizio, da cui probabilmente molto si aspettava il legislatore delegante nell'introdurlo. Si deve, infatti, considerare innanzi tutto che il privato deve obbligatoriamente munirsi di un difensore tecnico, perfettamente in grado per estrazione professionale di adempiere agevolmente agli incombenti richiesti. Inoltre, appare pienamente giustificato che il prezioso vantaggio conferito alla persona offesa di poter ottenere la convocazione in udienza del presunto autore del reato entro un termine assai ristretto e comunque non superiore a centodieci giorni (v. articolo 27) debba essere compensato dalla previsione di stringenti formalità sia nell'ottica, perseguita dal legislatore delegante, di uno sgravio degli incombenti addossati alla pubblica accusa sia per scoraggiare iniziative infondate e strumentali. Né va dimenticato che la persona offesa che non intenda sobbarcarsi l'impegno processuale che il ricorso immediato comporta, avrà pur sempre la possibilità di seguire le vie ordinarie con la proposizione di una semplice querela.
4.2. Ambito applicativo del ricorso. - L'articolo 21, che disciplina il contenuto del ricorso, esordisce con la previsione di ammissibilità della citazione privata per i reati procedibili a querela di competenza del giudice di pace. Ciò significa, come si diceva, che per tali reati il regime introdotto è alternativo e non esclusivo rispetto alle forme ordinarie, che verranno attivate a seguito della presentazione della querela. Tale soluzione è stata ritenuta per certi versi obbligata, stante il precetto dell'articolo 112 Cost., che non consentirebbe di sottrarre in linea generale e definitiva al pubblico ministero il potere-dovere di esercitare l'azione penale; e per altri versi comunque preferibile sul piano della opportunità, per non imporre al cittadino, persona offesa del reato, di avvalersi di un meccanismo più dispendioso, derivante dalla necessità di un'assistenza tecnica.
I reati per i quali è consentito il ricorso sono quelli procedibili a querela di parte attribuiti alla competenza del giudice di pace. Tale formulazione estensiva non pare in contrasto con la delega che prevede il ricorso a questo strumento per "taluni reati perseguibili a querela". Infatti, la delega stessa non fornisce alcun criterio discretivo per presceglierli, né è apparso possibile individuarli altrimenti; in difetto di un ragionevole criterio diselezione, l'esclusione di un reato piuttosto che di un altro avrebbe potuto determinare dubbi di conformità costituzionale.
Va rilevato, infatti, che l'elemento comune di tali reati, costituito dalla loro procedibilità a querela, fa risaltare l'interesse privato alla punizione del colpevole; tale connotazione renderebbe poco giustificabile la limitazione a solo alcuni di essi dello strumento del ricorso immediato.
In ragione di questa caratterizzazione, si è costruito il ricorso come atto equivalente alla presentazione della querela, di cui produce tutti gli effetti.
Ne consegue che i soggetti abilitati ad avvalersene sono le persone offese dal reato indicate dall'articolo 120 c.p., con la limitazione che, per i minori degli anni quattordici, i minori ultraquattordicenni, gli interdetti e gli inabilitati, la legittimazione al ricorso compete soltanto (come riflesso della funzione anche risarcitoria dell'azione, come si vedrà infra) al genitore, al tutore o al curatore speciale nel caso dell'articolo 121 c.p.p. .
Proprio la disciplina delle formalità di costituzione di parte civile ai sensi dell'articolo 78 c.p.p. ha in qualche misura ispirato il contenuto del ricorso, in particolare per quanto attiene alle lettere b), c) ed e).
Rispondono a una logica diversa i requisiti di cui alle lettere f), g) e h).
E', dunque, richiesto che l'offeso descriva "in forma chiara e precisa" il fatto che si addebita alla persona citata a giudizio, con formulazione che di proposito richiama quella analoga del decreto che dispone il giudizio (articolo 429 comma 1 lett. c) c.p.p.) e del decreto di citazione a giudizio (articolo 552 comma 1 lett. c) c.p.p.). Ciò non contraddice il contenuto meramente propositivo e non dispositivo della contestazione privata rispetto all'intervento del pubblico ministero di cui all'articolo 25. E infatti anche la terminologia adottata ("descrizione" e non "enunciazione" come nelle citate disposizioni del codice di rito) è indice della circostanza che nel ricorso non è elevata una imputazione, ma è solo descritto un fatto di reato come si assume avvenuto.
Ciò nonostante, si pretende ugualmente l'adempimento da parte del ricorrente di un onere di chiarezza e precisione in quanto la descrizione del fatto costituisce la base dell'intervento del pubblico ministero, che potrà anche soltanto confermare l'addebito come prospettato nel ricorso. D'altra parte, il necessario intervento del difensore renderà possibile l'adempimento dell'onere.
Conformemente a quanto richiesto per la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria (articolo 20), le caratteristiche di massima semplificazione e speditezza che devono plasmare il rito davanti al giudice di pace hanno imposto altresì di anticipare alla presentazione del ricorso l'indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta e delle circostanze su cui deve vertere l'eventuale esame di testimoni e consulenti tecnici, nonché l'allegazione dei documenti di cui si chiede l'acquisizione. Tali oneri sono tanto più stringenti in quanto previsti a pena di inammissibilità del ricorso (articolo 24 comma 1 lett. c).
E' importante, infine, sottolineare la previsione dell'onere di indicazione delle altre persone offese dal medesimo reato di cui sia nota l'identità (articolo 21, comma 1 lett. d), in quanto funzionale al meccanismo di "intervento per adesione" di cui all'articolo 28.
Il ricorso si chiude con la richiesta al giudice di fissazione dell'udienza per procedere contro le persone citate a giudizio. Tale formulazione combina icasticamente la duplice funzione propria del ricorso: da una parte quella di manifestazione della volontà punitiva (che lo parifica alla querela) e dall'altra quella di impulso processuale.
Ciò spiega anche perché il ricorso vada sottoscritto sia dalla persona offesa (o dal suo legale rappresentante), sia dal difensore. La sottoscrizione del primo è autenticata dal secondo, come oggi consentito per la costituzione di parte civile dal novellato articolo 100, comma 1, c.p.p.
4.3. Presentazione del ricorso. - Il ricorso deve essere presentato nella cancelleria del giudice di pace territorialmente competente entro il termine di tre mesi dalla conoscenza del fatto che costituisce reato, termine che è significativamente identico a quello previsto dall'articolo 124 c.p. per la proposizione della querela (articolo 22).
Al ricorso deve essere allegata la documentazione attestante la preventiva comunicazione al pubblico ministero tramite deposito di copia del ricorso nella sua segreteria, con modalità, dunque, analoghe a quelle previste in via generale dall'articolo 153 c.p.p.. Ciò è funzionale a garantire l'intervento preventivo dell'organo pubblico di cui all'articolo 25.
I successivi commi dell'articolo in esame risolvono il problema dei rapporti tra ricorso e querela.
In questa prospettiva, la questione attiene non tanto il profilo relativo al carattere della citazione privata rispetto alla querela, già risolto dal primo comma dell'articolo 21; piuttosto, il problema delicato consiste nella scelta circa l'eventualità di una doppia via di accesso alla giustizia, quella ordinaria, per il tramite della querela, e quella immediata per mezzo del ricorso, anche dopo che ne sia già stata attivata una.
Nel caso di originaria presentazione del ricorso il problema non si pone neppure, poiché, come si è visto, esso è parificato alla querela.
Diverso il caso opposto, in cui sia stata proposta la querela e solo successivamente l'interessato maturi l'intenzione di avvalersi dello strumento acceleratorio costituito dal ricorso. Consentire alla persona offesa di attivare in sequenza entrambi gli strumenti di impulso processuale potrebbe determinare taluni problemi derivanti dalla possibile interferenza dei due procedimenti, uno ordinario e l'altro speciale.
Sulla base di tali argomentazioni, nello schema di decreto si era prefigurata una soluzione drastica, volta ad inibire strumento del ricorso immediato a chi avesse già presentato querela, ovviamente per il medesimo fatto.
Peraltro, nel parere formulato dal Senato, tale scelta è stata oggetto di rilievi, sia sotto il profilo di un interesse della persona offesa a presentare una immediata querela, con successiva attivazione del meccanismo del ricorso immediato, sia sulla base della considerazione che l'eventuale attività svolta dalla polizia giudiziaria dopo la presentazione della querela non è inutile ai fini conciliativi e dell'eventuale giudizio.
La disciplina è stata dunque modificata nel senso auspicato dal Senato, prevedendosi che, se per il medesimo fatto la persona offesa ha già presentato querela, deve farne menzione nel ricorso, allegandone copia e depositandone altra copia presso la segreteria del pubblico ministero.
In tal modo, si scongiura il rischio di una duplicazione di procedimenti: il pubblico ministero, una volta che il giudice avrà fissato l'udienza a seguito del ricorso, disporrà infatti la cessazione delle investigazioni.
La norma precisa poi che il giudice di pace dispone l'acquisizione dell'originale della querela e che nel procedimento non sono applicabili le diverse disposizioni relative all'ordinaria procedura.
La diversa ipotesi di più persone offese dallo stesso reato che abbiano già proposto querela, trova la sua specifica disciplina nell'articolo 28.
4.4. Costituzione di parte civile nel ricorso. - Il ricorso immediato al giudice sarà normalmente scelto dall'offeso del reato con lo scopo di ottenere in tempi rapidi non solo e non tanto la condanna della persona citata a giudizio, quanto piuttosto il ristoro dei danni subiti. Si è, infatti, già sottolineata la natura tendenzialmente mista (attivazione del procedimento penale accompagnata da una funzione di tutela civilistica) che caratterizza l'istituto.
Pertanto, sebbene non possa escludersi un ricorso che non si accompagni a una pretesa risarcitoria, sarà questa la regola, già nella intenzione del privato. Se ne è tratta la conseguenza sul piano normativo prevedendo, da una parte, che la costituzione di parte civile debba avvenire, a pena di decadenza, con la presentazione stessa del ricorso (senza possibilità di recuperi successivi, come avrebbe altrimenti consentito la disposizione generale di cui all'articolo 79 c.p.p.); dall'altra, equiparando la richiesta motivata di restituzione o di risarcimento del danno, contenuta nel ricorso, alla costituzione di parte civile (articolo 23).
Tale parificazione si giustifica tanto più in quanto il ricorso contiene già, ai sensi dell'articolo 21 comma 2, tutti gli elementi che l'articolo 78 c.p.p. richiede per una valida costituzione di parte civile nel processo davanti al tribunale, ad eccezione della espressa domanda che introduce il contenzioso civilistico; ma che, appunto, una volta inglobata nel ricorso, gli permette di svolgere anche questa ulteriore funzione.
4.5. Casi di inammissibilità del ricorso. - L'articolo 24 disciplina i casi di inammissibilità del ricorso e va coordinata con i successivi articoli 25 e 26, che prevedono, tra l'altro, le modalità di deduzione di tale vizio da parte del pubblico ministero e della declaratoria del giudice e le relative conseguenze.
Le cause di inammissibilità possono suddividersi in tre gruppi, che rispecchiano rispettivamente ciascuno degli aspetti che sostanziano il ricorso.
La lettera a) considera l'ipotesi di presentazione del ricorso oltre il termine di tre mesi dalla notizia del fatto costituente reato. La ratio evidente della disposizione si fonda sulla circostanza che il ricorso equivale a presentazione della querela, sicché la proposizione del primo non può, ovviamente, avvenire oltre i termini assegnati in via generale per l'esercizio della seconda.
La lettera b) riguarda la presentazione del ricorso fuori dei casi previsti. Il riferimento rimanda ai limiti di proponibilità di cui all'articolo 21 comma 1, e dunque alle ipotesi in cui il reato non sia di competenza del giudice di pace o non sia procedibile a querela di parte ovvero ancora il ricorso sia stato presentato da soggetto non legittimato.
Le lettere successive disciplinano casi variamente riconducibili a vizi formali dell'atto. Per quanto attiene alle lettere c) ed e), vi è solo da evidenziare come la prima afferisca al difetto dei requisiti di cui all'articolo 21 comma 2 e alla mancata sottoscrizione da parte dei soggetti e con le modalità indicate dai commi 3 e 4 del medesimo articolo; mentre la seconda si riferisce alla mancanza di prova della comunicazione del ricorso al pubblico ministero. Conviene precisare che l'erronea indicazione degli articoli di legge che si assumono violati (v. articolo 21 comma 2 lett. f) non comporta inammissibilità del ricorso, perché essa non equivale ad omissione.
D'altra parte, la sanzione dell'inammissibilità nel caso di vera e propria omissione si giustifica poiché il privato è tenuto a delimitare con precisione l'ambito oggettivo degli addebiti in ordine ai quali il ricorso è proposto.
La descrizione dei fatti potrebbe contenere, magari per ragioni di contesto, anche riferimenti a fattispecie, astrattamente suscettibili di ricorso immediato, ma per le quali l'offeso non intende avvalersi dello strumento di impulso processuale (si pensi, a titolo di esempio, ad un soggetto che sia stato ingiuriato e minacciato, ma che non intenda procedere per le ingiurie perché già risarcito per le stesse oppure perché le ritiene non punibili ai sensi dell'articolo 599 c.p.).
Di maggiore rilievo è la causa di inammissibilità sanzionata dalla lettera d), allorché sia insufficiente la descrizione del fatto o l'indicazione delle fonti di prova.
La prima ipotesi è ispirata alla comminatoria di nullità di cui agli articoli 429 comma 2 e 552 comma 2 c.p.p. per il caso di insufficiente enunciazione del fatto: tale scelta si giustifica, innanzitutto, con la considerazione che il privato è tenuto, al fine di consentire un immediato accesso al giudice, non preceduto da attività di indagine, ad indicare in maniera analitica le circostanze di reato attribuite alla persona citata a giudizio.
D'altra parte, il ricorrente deve supportare la descrizione del fatto con l'indicazione delle fonti di prova, sia perché le rapide cadenze procedimentali impongono una anticipazione dell'incombente alla fase introduttiva del giudizio, sia per contribuire a prevenire, con tale sbarramento, citazioni apodittiche e infondate. Ne consegue la prevista sanzione di inammissibilità del ricorso per carente indicazione delle fonti di prova.
Si noti, infine, che i casi esposti nella lettera d) non sono completamente sovrapponibili a quelli della lettera c) in relazione alla assenza di determinati requisiti del ricorso, in quanto non solamente la totale mancanza, ma anche l'insufficienza nella descrizione dell'addebito o nella indicazione delle fonti di prova, rende il ricorso inammissibile.
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