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Penale.it - Corte Costituzionale, Sentenza 7 maggio 2001 (dep. 9 maggio 2001), n. 115

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Corte Costituzionale, Sentenza 7 maggio 2001 (dep. 9 maggio 2001), n. 115
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Contenuto originariamente pubblicato all'URL:
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Rito abbreviato e riforma del giudice unico - Mancata previsione di contraddittorio per l'ammissione al rito - Mancata previsione di poteri del giudice in ordine all'ammissibilità - Previsione di integrazione ex officio (art. 441 c.p.p.) - Mancata previsione di integrazione probatoria a fronte di impossibilità di decisione allo stato degli atti (art. 438 c.p.p.) - Non fondatezza, manifesta infondatezza, manifesta inammissibilità come da motivazione.

  SENTENZA N. 115
  ANNO 2001
 
  REPUBBLICA ITALIANA
  IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
  LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Cesare RUPERTO Presidente
- Fernando SANTOSUOSSO Giudice
- Massimo VARI "
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
ha pronunciato la seguente
  SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 438, 441 e 442, commi 1-bis e 2, del codice di procedura penale nel testo modificato dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti ai giudici di pace e di esercizio della professione forense), e dell'art. 223 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado), come modificato dall'art. 56 della suddetta legge n. 479 del 1999, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, dai Giudici dell'udienza preliminare dei Tribunali di Roma, di Bologna, di Imperia e dal Tribunale di Firenze con ordinanze emesse in data 4 aprile, 19 e 14 gennaio, 16, 10, 19 e 9 maggio 2000, iscritte rispettivamente ai nn. 279, 305, 405, 464, 465, 474 e 607 del registro ordinanze 2000 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 23, 24, 29, 37, 38 e 44, prima serie speciale, dell'anno 2000.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 24 gennaio 2001 il Giudice relatore Guido Neppi Modona.
  Ritenuto in fatto
1.- Con ordinanza del 14 gennaio 2000 (r.o. n. 405 del 2000) il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Imperia ha sollevato questione di legittimità costituzionale: a) dell’art. 438 del codice di procedura penale, come novellato dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all'ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti ai giudici di pace e di esercizio della professione forense), <<nella parte in cui non prevede il contraddittorio delle parti nella ammissione al rito abbreviato>> e nella parte in cui non attribuisce al giudice alcun potere di preliminare delibazione in ordine alla ammissibilità del rito, in riferimento agli artt. 101 e 111 della Costituzione; b) dell’art. 441 del codice di procedura penale, come modificato dalla legge n. 479 del 1999, nella parte in cui consente al giudice che, investito di una richiesta di giudizio abbreviato, ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, di assumere anche d’ufficio gli elementi necessari ai fini della decisione, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione.
Il rimettente premette che nel corso dell’udienza preliminare l’imputato aveva formulato richiesta di giudizio abbreviato e il pubblico ministero aveva eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 438 cod. proc. pen. sotto il duplice profilo della violazione del principio del contraddittorio (art. 111 Cost.) e della violazione del principio della soggezione del giudice alla legge (art. 101 Cost.), censurando rispettivamente la mancata previsione del consenso della pubblica accusa e l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla ammissibilità del rito.
Il giudice a quo condivide le censure del pubblico ministero, ma ritiene che il contrasto della nuova disciplina con il novellato art. 111 Cost. emerga soprattutto dalla attribuzione al giudice di particolari poteri istruttori che ne snaturerebbero la configurazione originaria. Gli artt. 438 e 441 cod. proc. pen., come modificati dalla legge n. 479 del 1999, delineano infatti, secondo il rimettente, una <<nuova figura di giudice che ineluttabilmente rimanda a quella del giudice istruttore>>; un giudice che non ha alcun potere di delibazione preliminare sulla richiesta di giudizio abbreviato ma che, qualora non ritenga di poter decidere allo stato degli atti, assume, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., gli elementi necessari ai fini della pronuncia, che pure è chiamato a adottare, a differenza del "vecchio" giudice istruttore, sulla responsabilità dell'imputato.
Evidente sarebbe quindi sotto questo particolare profilo il contrasto della nuova disciplina con quanto disposto nell’art. 111 Cost., secondo cui il processo è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova.
L’attribuzione al giudice di così rilevanti poteri di integrazione probatoria ex officio violerebbe inoltre, a giudizio del rimettente, anche l’art. 24, secondo comma, Cost.; quand’anche si intendesse l’art. 441, comma 5, cod. proc. pen. come disposizione <<parallela>> all’art. 507 cod. proc. pen., l’imputato che ha chiesto il rito abbreviato rimarrebbe infatti esposto ad un mutamento del quadro probatorio e persino, essendo fatta salva l’applicabilità dell’art. 423 cod. proc. pen., ad una modifica dell’imputazione, senza alcuna possibilità di <<ripensamento>>.
1.1.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.
Per quanto concerne la censura riferita alla violazione del principio del contraddittorio, che deriverebbe dalla eliminazione della necessità del consenso al rito del pubblico ministero, la difesa erariale rileva che la nozione di contraddittorio individuata dal costituente è da riferire al contraddittorio nella formazione della prova, <<indefettibile in tutti i casi diversi da quelli che lo stesso articolo 111 della Costituzione individua, casi tra i quali, appunto, si annovera il consenso dell’imputato e, a più forte ragione, la richiesta dell’imputato>>.
Quanto alla presunta lesione dell’art. 101 Cost. per l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla ammissibilità del rito, nell’atto di intervento si sottolinea che, essendo la legge ordinaria a prevedere che il giudice debba procedere con le forme del giudizio abbreviato a richiesta dell’imputato, il giudice in realtà non soggiace alla mera volontà delle parti ma alla legge che di quella volontà regola gli effetti.
Infine, in relazione alla censurata attribuzione al giudice di poteri di integrazione probatoria ex officio, l’Avvocatura sottolinea che il principio della separazione fra funzioni accusatorie e funzioni decisorie ovvero tra queste ultime e le funzioni istruttorie, principio intorno al quale sostanzialmente si fondano le argomentazioni del giudice a quo, non trova riconoscimento costituzionale (v. sentenza n. 123 del 1970) e che comunque, quand’anche si volesse ritenere che esso sia derivabile direttamente da quello costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova, è lo stesso art. 111 Cost. a prevederne la possibilità di deroga per effetto del consenso dell’imputato, in questo caso implicito nella richiesta di giudizio abbreviato.
2.- Con ordinanza del 19 gennaio 2000 (r.o. n. 305 del 2000) il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, primo e terzo comma, 101, primo comma, e 102, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale: 1) dell’art. 438, commi 1 e 4, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede che l’imputato venga ammesso al giudizio abbreviato a seguito di semplice richiesta, senza alcuna preliminare delibazione da parte del giudice; 2) degli artt. 438, commi 1 e 4, e 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedono che alla richiesta dell’imputato, non soggetta ad alcuna verifica da parte del giudice, consegua la riduzione di un terzo della pena; 3) dell’art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel rito ordinario; 4) dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale, salvo che tutti gli imputati richiedano che si svolga in udienza pubblica.
Il giudice a quo, premesso in fatto che l’imputato aveva chiesto la definizione del procedimento con il rito abbreviato, in primo luogo rileva che l’opzione legislativa di rimettere in via esclusiva ad una sola delle parti la scelta del rito, senza alcun controllo di <<congruità>> da parte del giudice, contrasta con l’art. 102, primo comma, Cost., che <<implicitamente postula l’illegittimità di qualunque forma, anche mediata, di condizionamento [della funzione giurisdizionale] da parte di soggetti diversi>>, e ciò tanto più quando la scelta sulle modalità di definizione del procedimento è destinata ad incidere anche sul trattamento sanzionatorio.
La mancata attribuzione al giudice di un potere di controllo sulla richiesta formulata dall’imputato sarebbe inoltre lesiva dell’art. 3 Cost. se confrontata con la diversa disciplina prevista per l’ipotesi in cui l’imputato subordini la richiesta di giudizio abbreviato a integrazione probatoria; in questo caso infatti il giudice può, ai sensi dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., rigettare la richiesta di giudizio abbreviato, esercitando un potere che, secondo il rimettente, irragionevolmente gli viene sottratto nell’altra situazione sostanzialmente identica.
In secondo luogo il rimettente denuncia l’illegittimità costituzionale degli artt. 438, commi 1 e 4, e 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui prevedono che alla richiesta dell’imputato, non soggetta ad alcun controllo del giudice, consegua la riduzione di un terzo della pena o la sostituzione della pena dell’ergastolo con la reclusione di anni trenta.
La riduzione derivante dalla scelta del rito, per essere conseguenza anch’essa di una manifestazione di volontà unilaterale, violerebbe infatti non solo l’art. 102 Cost., posto che la determinazione in concreto della pena è atto di giurisdizione che spetta al giudice ed è affidato al suo potere discrezionale ai sensi dell’art. 132 cod. pen., ma anche gli artt. 3 e 27, primo comma, Cost., che impongono che la pena, determinata in base al principio di proporzionalità, sia altresì ragguagliata alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del colpevole.
La prevista diminuzione di un terzo della pena conseguente alla scelta del rito semplificato contrasterebbe inoltre con l’art. 27, terzo comma, Cost. secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato: <<difatti, se in relazione ad un determinato reato commesso da un determinato imputato si considera rieducativa la pena fissata in una certa misura, tale non può essere considerata anche una pena inferiore di un terzo>>.
Altro profilo di incostituzionalità viene individuato nell’art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui consente l’utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel rito ordinario, per l’irragionevole disparità di trattamento che conseguirebbe da una disciplina per la quale, a fronte di identiche situazioni, i medesimi atti, a seconda del rito prescelto, possono o meno concorrere a formare il convincimento del giudice, con possibilità di esiti processuali contraddittori.
Il giudice a quo dubita infine, in riferimento agli artt. 3, 101, primo comma, e 102, primo comma, Cost., della legittimità costituzionale dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale, salvo che tutti gli imputati richiedano che si svolga in udienza pubblica.
In base alla disposizione censurata la scelta fra udienza pubblica e udienza camerale, verrebbe irragionevolmente sottratta al giudice e rimessa in modo esclusivo e insindacabile a una delle parti, così da consentire che anche fatti di estrema gravità, tali da suscitare un enorme allarme sociale, vengano giudicati nel segreto della camera di consiglio.
A giudizio del rimettente tale disciplina si rivela non solo irragionevole (art. 3 Cost.) e lesiva dell’art. 102, primo comma, Cost. (in quanto sottrarrebbe al giudice un potere intimamente connesso alla funzione giurisdizionale), ma anche in evidente contrasto con il principio secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo (art. 101, primo comma, Cost.) e con quello della pubblicità del processo, principio ritenuto dalla stessa Corte costituzionale <<garanzia di giustizia e mezzo per allontanare qualsiasi sospetto di parzialità>> (si richiama in proposito la sentenza n. 25 del 1965).
L’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., richiedendo per l’adozione dell’udienza pubblica l’unanime volontà di tutte le parti, violerebbe inoltre anche l’art. 6, primo comma, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (e, quindi, l’art. 10 Cost.), in quanto il diritto alla pubblica udienza di alcuni imputati viene ad essere vanificato dal <<diritto di veto>> di coloro che invece vogliono che si proceda in camera di consiglio.
2.1.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione venga dichiarata non fondata.
A parere dell'Avvocatura le modifiche apportate al giudizio abbreviato dalla legge n. 479 del 1999 rispondono a un preciso invito rivolto dalla Corte al legislatore che, nel por mano alla riforma, si è mosso su tre fronti.
Da un lato ha allargato l'area di operatività dell'istituto, ricomprendendovi ipotesi di delitti puniti con la pena dell'ergastolo esclusi dalla Corte solo per eccesso di delega, dall'altro ha valorizzato la riduzione di pena, che è stata così configurata come una sorta di facoltà dell'imputato e, infine, ha previsto la possibilità di integrazione probatoria anche d'ufficio.
Secondo l'Avvocatura però anche una complessa integrazione probatoria non autorizza a sostenere che lo "sconto" di pena sia concesso "senza contropartita".
In realtà, oggetto della integrazione probatoria non può che essere, secondo l’Avvocatura, unicamente la prova <<necessaria>> ai fini della decisione e ciò a prescindere dal tipo di richiesta formulata dall’imputato. Indipendentemente dal tenore testuale dell’art. 438, comma 5, cod. proc. pen., infatti, la richiesta condizionata a integrazione probatoria priverebbe l’organo giudicante solo degli ordinari poteri di verifica della superfluità e irrilevanza della prova (art. 192 cod. proc. pen.) <<per restituirglieli sul piano della accoglibilità della richiesta>>, dovendosi intendere il riferimento, contenuto in tale norma, alla compatibilità della richiesta con le finalità di economia processuale proprie del rito, come finalizzato unicamente ad evitare richieste pretestuose.
L'ordinamento inoltre riconosce una congrua attenuazione della pena a coloro che, optando per una rinuncia al metodo dialogico della formazione della prova, acconsentono all'utilizzazione degli atti raccolti nel fascicolo del pubblico ministero e in prospettiva, in relazione ad eventuali integrazioni probatorie, all’assunzione di prove con modalità diverse (e meno dispendiose) rispetto a quelle dibattimentali.
Secondo l'Avvocatura pertanto la nuova normativa, da un lato, non lede in alcun modo l'esercizio della funzione giurisdizionale e, dall'altro, lasciando all'imputato la scelta del metodo su cui fondare la decisione in ordine alla responsabilità, non contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost.
Infine, per quanto concerne la censura relativa al previsto svolgimento del giudizio in camera di consiglio, l’Avvocatura rileva come non possa rinvenirsi alcun contrasto tra la disciplina censurata e gli artt. 3, 101 e 102 Cost. in quanto i parametri evocati <<non implicano necessariamente che la pubblicità investa udienze diverse da quelle dibattimentali, ovvero, in ipotesi, ed in presenza di altre esigenze meritevoli di tutela, che siano sempre e solo riferibili ad una udienza piuttosto che all’atto conclusivo di questa>>.
3.- Con ordinanza in data 4 aprile 2000 (r.o. n. 279 del 2000), il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 438 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l'obbligo del giudice di accogliere la richiesta di giudizio abbreviato e di applicare la diminuzione di un terzo della pena, in caso di condanna, anche quando lo stato degli atti imponga di svolgere un'integrazione probatoria complessa, <<non dissimile da quella che sarebbe compiuta nel dibattimento>>.
Premette il rimettente che in sede di udienza preliminare l'imputato ha chiesto la celebrazione del giudizio con il rito abbreviato e che il procedimento, particolarmente complesso, non appare decidibile allo stato degli atti, ma richiede una attività istruttoria simile a quella che sarebbe compiuta nel dibattimento.
Il giudice a quo ricostruisce quindi l'istituto, come venutosi a delineare a seguito della legge n. 479 del 1999, e rileva che il giudizio abbreviato, <<nella sua forma pura>>, è automaticamente introdotto dalla richiesta dell'imputato, il cui accoglimento non è più subordinato ad alcun requisito di ammissibilità; non è previsto né il consenso del pubblico ministero né la verifica, da parte del giudice, circa la decidibilità del processo "allo stato degli atti".
Infatti, prosegue il rimettente, se il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti, deve, anche d'ufficio, assumere gli elementi necessari ai fini della decisione pure in ipotesi, come quella in esame, in cui la carenza delle investigazioni del pubblico ministero imponga di esperire una integrazione probatoria complessa.
Tale soluzione normativa, ad avviso del rimettente, non appare ragionevole sia perché equipara situazioni processuali tra loro diverse, sia perché non è in linea con la configurazione deflativa del procedimento, fondato pur sempre su ragioni di economia processuale e in relazione al quale è infatti prevista la riduzione della pena nella misura di un terzo.
Il contrasto con l'art. 3 Cost. sarebbe inoltre ravvisabile anche raffrontando tale forma di rito abbreviato con quella, prevista dall'art. 438, comma 5, cod. proc. pen., che consente all'imputato di subordinare la richiesta del rito a una integrazione probatoria ritenuta necessaria ai fini della decisione.
In tale ipotesi, infatti, il giudice è chiamato a valutare se l'integrazione probatoria richiesta sia compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento e può respingere la richiesta se l'integrazione, per la sua complessità, sia incompatibile con la natura del rito abbreviato.
L'<<incoerenza interna delle diverse articolazioni del giudizio abbreviato>> appare al rimettente priva di razionale giustificazione: a fronte della <<obiettiva esigenza di una istruttoria complessa il rito sarà ammesso nell'abbreviato puro e respinto - invece - in quello condizionato>>; la situazione, ad avviso del giudice a quo, sarebbe simile a quella che ha indotto questa Corte a dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 247 del d. lgs. n. 271 del 1989 (sentenza n. 66 del 1990) e dell'art. 452 cod. proc. pen. (sentenza n. 183 del 1990).
L'art. 438 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede una automatica diminuzione della pena nella misura di un terzo, anche in presenza di una complessa attività istruttoria, si porrebbe inoltre in contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena, enunciato dall'art. 27 Cost.
Vengono sul punto richiamate le sentenze nn. 313 e 284 del 1990.
3.1.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione venga dichiarata non fondata, formulando le medesime considerazioni svolte nell'atto di intervento relativo all'ordinanza di rimessione iscritta al n. 305 del r.o. del 2000.
4.- Con ordinanze in data 9, 10, 16 e 19 maggio 2000 (r.o. nn. 607, 465, 474 e 464 del 2000), il Tribunale di Firenze ha sollevato, su richiesta del pubblico ministero, in riferimento agli artt. 3, 97 (parametro richiamato solo in r.o. n. 607 del 2000), 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 438 del codice di procedura penale, da solo e in combinato disposto con l'art. 223 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 recante "Norme in materia di istituzione del giudice unico di primo grado" (r.o. nn. 465 e 474 del 2000), <<nella parte in cui non prevede il diritto del p.m. di intervenire sulla richiesta di rito abbreviato formulata dall'imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato, e nella parte in cui non prevede autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta>>.
Premettono in fatto i rimettenti che gli imputati hanno chiesto il giudizio abbreviato ai sensi dell'art. 223 del decreto legislativo n. 51 del 1998, ma che, nella specie, appare applicabile la nuova formulazione dell'art. 438 cod. proc. pen., in quanto, <<trattandosi di norma a prevalente carattere processuale, essa è estensibile a tutti i procedimenti pendenti, e quindi anche all'attuale processo>>.
L'art. 111 della Costituzione, rileva il giudice a quo, prevede che ogni processo si svolga nel contraddittorio delle parti e in condizioni di parità davanti ad un giudice terzo e imparziale; previsione che non può che riguardare qualsiasi fase processuale in quanto le disposizioni contenute nei <<commi 4 e 5 regolano, più specificamente, l'applicazione del principio del contraddittorio alle sole fasi in cui viene assunta la prova>>.
A tutte le parti deve quindi essere riconosciuto il <<diritto ad interloquire>>, inteso non <<come mera facoltà formale ad esprimersi>>, ma nel senso che ad esso possa conseguire efficacia giuridica; in caso contrario il diritto a contraddire e il principio della parità delle parti resterebbero privi di contenuti concreti, con conseguente violazione dell'art. 111 Cost.
L'attuale impianto normativo priva invece <<il pubblico ministero del diritto a contraddire le richieste dell'imputato in tema di giudizio abbreviato>> e non attribuisce alcuna efficacia giuridica alle sue eventuali deduzioni.
Secondo il giudice a quo al pubblico ministero dovrebbe essere data la possibilità di pronunciarsi sulla richiesta dell'imputato: in presenza di un dissenso motivato il processo dovrebbe proseguire con il rito ordinario, salva la possibilità per il giudice, a dibattimento concluso, di ritenere ingiustificato il dissenso e applicare all'imputato la riduzione di pena.
In alternativa, secondo il rimettente, il giudice dovrebbe avere la possibilità di ammettere o respingere la richiesta di rito abbreviato.
I principi della parità delle parti e del contraddittorio sarebbero altresì violati in quanto alla perdita da parte del pubblico ministero della facoltà di interloquire sulla scelta del rito non si accompagna né una disciplina del diritto alla prova, non essendo riconosciuto al pubblico ministero di chiedere integrazioni probatorie d'iniziativa, né <<una modifica estensiva delle attuali limitazioni alla facoltà di impugnare>>.
Inoltre, una normativa <<che esclude il giudice dall'assolvimento di indefettibili compiti istituzionali che gli sono propri, violerebbe anche il principio della giurisdizione e quindi l'art. 101 della Costituzione>>.
L'eliminazione dei presupposti per accedere al giudizio abbreviato avrebbe "trasformato" il diritto dell'imputato alla scelta del rito in un <<singolare diritto soggettivo assoluto>> al conseguimento automatico ed irragionevole del beneficio della riduzione di pena.
La ratio del rito abbreviato, pur sempre rinvenibile nella abbreviazione dei tempi processuali in conseguenza del mancato svolgimento dell'istruttoria dibattimentale, e a fronte della quale il legislatore ha riconosciuto uno sconto di pena, non appare più sussistente nell'attuale normativa in cui il giudice ha comunque l'obbligo di applicare la diminuente, anche nell'ipotesi in cui, non potendo decidere allo stato degli atti, deve procedere ad una integrazione probatoria, venendo così <<disattese le ragioni di speditezza e economia alla base dell'istituto>>.
La situazione da ultimo delineata violerebbe, secondo il rimettente, l'art. 97 Cost. sotto il profilo dell'imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione a causa della attribuzione agli imputati di vantaggi significativi e del tutto ingiustificati.
Tali vantaggi, peraltro, riguarderebbero indifferentemente tutti gli imputati, senza alcuna distinzione tra coloro che hanno effettivamente contribuito alla riduzione dei tempi processuali e <<coloro che invece hanno dato causa alla dilatazione degli stessi attraverso attività di integrazione probatoria resasi necessaria in base alle valutazioni del giudice>>, con conseguente violazione anche dell'art. 3 Cost.
4.1.- Nei giudizi instaurati con r.o. nn. 464, 465 e 474 del 2000, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata e riportandosi alle argomentazioni svolte con l'atto di intervento depositato in relazione alla questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma (r.o. n. 279 del 2000).
  Considerato in diritto
1.- Vengono sottoposte al giudizio di questa Corte numerose questioni di legittimità costituzionale relative a vari aspetti della nuova disciplina del giudizio abbreviato, quale risulta a seguito delle modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, sollevate dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Imperia (r.o. n. 405 del 2000), Bologna (r.o. n. 305 del 2000) e Roma (r.o. n. 279 del 2000), nonché dal Tribunale di Firenze (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000). I profili di illegittimità costituzionale denunciati dai rimettenti possono essere raggruppati nei termini di seguito sintetizzati.
1.1.- Tutti i rimettenti in sostanza lamentano che il giudice sia stato privato del potere di respingere la richiesta di giudizio abbreviato, previsto dall'abrogato art. 440 del codice di procedura penale nei casi in cui il giudice stesso ritenesse che il processo non poteva essere deciso allo stato degli atti.
Sotto diverse angolazioni viene pertanto sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 438 cod. proc. pen., da solo e in combinato disposto con l’art. 223 del decreto legislativo 19 febbraio 1998, n. 51 (r.o. nn. 465 e 474 del 2000), nella parte in cui non prevede <<un autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità della richiesta>> (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000, nonché r.o. n. 405 del 2000), <<nella parte in cui consente che l’imputato, con richiesta non soggetta ad alcuna verifica, venga ammesso al giudizio abbreviato>> (r.o. n. 305 del 2000), <<nella parte in cui non prevede che il giudice possa rigettare la richiesta di giudizio abbreviato>> (r.o. n. 279 del 2000).
Ancorché sia formalmente impugnato dal Tribunale di Firenze anche l’art. 223 del d. lgs. n. 51 del 1998, tutte le censure sono rivolte in realtà all’art. 438 cod. proc. pen., come sostituito dall’art. 27 della legge n. 479 del 1999: l’art. 223 è invero richiamato, nella prospettiva dei rimettenti, solo come la disposizione che consente in via transitoria l’instaurazione del rito abbreviato nella fase dibattimentale.
Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma censurata contrasterebbe:
- con l'art. 3 Cost.: a causa dell'irragionevole diversità di trattamento riservato a situazioni processuali sostanzialmente identiche, potendo il giudice rigettare la richiesta di rito abbreviato solo se effettuata nella forma "subordinata" di cui al comma 5 dell'art. 438 cod. proc. pen. (r.o. n. 305 del 2000); perché la riduzione di un terzo della pena a semplice richiesta trasforma, in caso di condanna, <<il diritto processuale dell’imputato alla scelta del rito in un sostanziale diritto del medesimo al conseguimento automatico e irragionevole del beneficio della riduzione di pena>> (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000); perché la norma censurata tratta in modo uguale situazioni diverse, consentendo di procedere con il giudizio abbreviato, a semplice richiesta dell’imputato, qualunque sia lo stato delle acquisizioni probatorie e, quindi, anche in situazioni in cui si imponga una consistente acquisizione probatoria, e perché, a fronte della <<obiettiva esigenza di un’istruttoria complessa, il rito sarà ammesso nell'abbreviato puro e respinto - invece - in quello condizionato>>, così determinando una diversità di trattamento di situazioni identiche (r.o. n. 279 del 2000); infine, perché non pone alcuna distinzione tra coloro che hanno <<effettivamente contribuito alla riduzione dei tempi processuali e coloro che invece hanno dato causa alla dilatazione degli stessi attraverso attività di integrazione probatoria resasi necessaria in base alle valutazioni del giudice>> (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000);
- con gli artt. 3 e 27, primo comma, Cost., che esigono che <<la pena, in concreto, sia ragguagliata alla gravità del fatto e alla capacità a delinquere del colpevole>> (r.o. n. 305 del 2000);
- con l’art. 27, terzo comma, Cost., per <<l’interferenza incontrollata di una diminuente processuale nel delicato esercizio del potere di determinazione in concreto della pena>>, con conseguente violazione del principio di proporzione e della funzione rieducativa della pena (r.o. nn. 279 e 305 del 2000);
- con l'art. 97 Cost., in quanto l'attribuzione agli imputati di vantaggi significativi ma ingiustificati violerebbe i principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
- con l'art. 101 Cost., perché l’impossibilità per il giudice di esprimersi in ordine alla stessa ammissibilità del giudizio abbreviato violerebbe il principio della soggezione del giudice solo alla legge (r.o. n. 405 del 2000), traducendosi in soggezione del giudice <<alla mera volontà di una delle parti del processo>> (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000);
- con l'art. 102 Cost., perché l’imputato, con la semplice richiesta, può conseguire la diminuzione di un terzo della pena, ovvero la sostituzione dell’ergastolo con la reclusione in anni trenta, così incidendo sulla determinazione della pena, la cui <<definizione in concreto [...] è atto di giurisdizione di spettanza del giudice, rientrante nel suo potere discrezionale ex art. 132 c.p.>>, con la conseguenza che l'esercizio della giurisdizione viene ad essere sottoposto a impropri condizionamenti (r.o. n. 305 del 2000).
1.2.- Un secondo gruppo di censure, relative al medesimo art. 438 cod. proc. pen., si riferisce alla posizione del pubblico ministero, al quale, a differenza di quanto previsto dalla precedente disciplina, non è riconosciuto alcun potere di interloquire sulla richiesta di giudizio abbreviato formulata dall'imputato. In particolare, l'articolo in esame viene censurato nella parte in cui non prevede né <<il contraddittorio delle parti nell'ammissione al rito abbreviato>> (r.o. n. 405 del 2000), né <<il diritto del p.m. di intervenire nella richiesta di rito abbreviato, formulata dall'imputato, esprimendo consenso o dissenso motivato>>, né la facoltà, da parte del pubblico ministero, di chiedere una integrazione probatoria (r.o. nn. 464, 465, 474 e 607 del 2000).
La nuova disciplina sarebbe in contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost., perché la omessa previsione dell'intervento del pubblico ministero e della specifica facoltà di chiedere una integrazione probatoria violerebbe il principio che ogni processo si deve svolgere nel rispetto del contraddittorio, in condizioni di parità tra le parti e davanti ad un giudice terzo ed imparziale.
1.3.- La legittimità costituzionale del nuovo giudizio abbreviato viene contestata anche sotto il profilo che l'art. 441 cod. proc. pen. <<consente al giudice di assumere, anche d’ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione>> (r.o. n. 405 del 2000). La norma sarebbe in contrasto con gli artt. 111 e 24 Cost. perché la previsione, in capo allo stesso organo, di poteri istruttori e decisori violerebbe il principio del contraddittorio nella formazione della prova ed esporrebbe l’imputato che ha chiesto il giudizio abbreviato ad un possibile mutamento del quadro probatorio ed alla conseguente, eventuale modifica dell’imputazione, senza che gli venga riconosciuta la facoltà di rinunciare al rito abbreviato.
1.4.- In parte complementare alla precedente è la censura rivolta all'art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen., <<nella parte in cui consente l’utilizzazione, nel giudizio abbreviato, di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario>> (r.o. n. 305 del 2000). La norma contrasterebbe con l'art. 3 Cost. per la diversità della disciplina concernente l’utilizzabilità degli atti del fascicolo del pubblico ministero, consentita in toto solo nel giudizio abbreviato, nonché per la irragionevolezza complessiva della stessa disciplina.
1.5.- Infine, vengono avanzati dubbi sulla legittimità costituzionale dell'art. 441, comma 3, cod. proc. pen., <<nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in udienza camerale salvo che tutti gli imputati richiedano l’udienza pubblica>> (r.o. n. 305 del 2000). La norma si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 10, 101 e 102 Cost. per la irragionevolezza di una disciplina che, prevedendo anche per i reati punibili con l’ergastolo la celebrazione del processo in camera di consiglio, salvo che tutti gli imputati ne chiedano la trattazione in pubblica udienza, da un lato sottrae al giudice la scelta tra l’udienza pubblica e quella camerale, <<fondamentale per il corretto e trasparente esercizio della giurisdizione>>, dall’altro crea una sorta di "diritto di veto" da parte dei coimputati, così vanificando il diritto di coloro che richiedono l’udienza pubblica, riconosciuto dall’art. 6, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
2.- Poiché alcune delle questioni relative all'art. 438 cod. proc. pen. sono sostanzialmente identiche, e comunque tutte riguardano la nuova disciplina del giudizio abbreviato, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi.
3.- Prima di esaminare i due gruppi di censure concernenti, rispettivamente, i poteri del giudice e del pubblico ministero nella fase introduttiva del giudizio abbreviato, è opportuno premettere che le modifiche introdotte dalla legge n. 479 del 1999 hanno inciso profondamente sulla disciplina di tale rito. In particolare, la richiesta dell'imputato non è più subordinata al consenso del pubblico ministero, previsto dal testo originario dell’art. 438, comma 1, cod. proc. pen., e non è più sottoposta, salvo che nell'ipotesi di cui all'art. 438, comma 5, cod. proc. pen., al vaglio di ammissibilità da parte del giudice, contemplato dall’art. 440, comma 1, cod. proc. pen., ora abrogato. Ne deriva che l'imputato, ove presenti la relativa richiesta, ha diritto di essere giudicato mediante il rito abbreviato, così da usufruire, in caso di condanna, della riduzione della pena prevista dalla legge.
I nuovi meccanismi introduttivi incidono su un altro carattere fondamentale dell'originaria disciplina del giudizio abbreviato, che non è più basato esclusivamente sugli atti raccolti durante le indagini preliminari, ma prevede varie forme di integrazione probatoria, demandate all'iniziativa dell'imputato (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), del pubblico ministero, ammesso alla prova contraria ove l'imputato abbia esercitato la facoltà di chiedere l'integrazione probatoria (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), dello stesso giudice, qualora ritenga di non poter decidere allo stato degli atti (art. 441, comma 5, cod. proc. pen.).
4.- Le questioni di legittimità costituzionale esposte sub 1.1. e sub 1.2. sono infondate.
4.1.- La scelta del legislatore di eliminare la valutazione del giudice sull'ammissibilità del giudizio abbreviato - salvo che nell'ipotesi, sopra menzionata, di cui all'art. 438, comma 5, cod. proc. pen. - si innesta nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia.
Dapprima la Corte - sul presupposto che, in presenza delle condizioni per addivenire al giudizio abbreviato, all'imputato che ne abbia fatto richiesta deve essere riconosciuto il diritto di ottenere la riduzione di un terzo della pena - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disciplina che non prevedeva la motivazione del dissenso del pubblico ministero (sentenze nn. 66 e 183 del 1990, n. 81 del 1991) e il controllo giurisdizionale sull'ordinanza di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato (sentenza n. 23 del 1992); con la conseguenza che in entrambe le ipotesi il giudice del dibattimento, ove ritenesse ingiustificato il dissenso del pubblico ministero, ovvero non fondato il provvedimento con cui il giudice per le indagini preliminari aveva dichiarato il procedimento non definibile allo stato degli atti, applicava egli stesso la riduzione di un terzo della pena.
Strettamente collegato a questi profili di illegittimità costituzionale era il problema dei parametri ai quali avrebbe dovuto attenersi il pubblico ministero nel motivare il proprio dissenso sulla richiesta di giudizio abbreviato. In assenza di una esplicita indicazione legislativa, la Corte ha individuato il parametro della definibilità del procedimento allo stato degli atti, cioè il criterio dettato per la valutazione di ammissibilità del rito operata dal giudice per le indagini preliminari ex art. 440, comma 1, cod. proc. pen. (sentenza n. 81 del 1991). E poiché, come ha rilevato la successiva sentenza n. 92 del 1992, era lo stesso pubblico ministero a decidere quali e quante indagini esperire in vista della richiesta di rinvio a giudizio, ne derivava <<l'inaccettabile paradosso>> per cui il pubblico ministero poteva legittimamente precludere l'instaurazione del giudizio abbreviato allegando lacune probatorie da lui stesso determinate; di qui l'indicazione, <<al fine di ricondurre l'istituto a piena sintonia con i principi costituzionali>>, di introdurre <<un meccanismo di integrazione probatoria>> rimesso alle scelte discrezionali del legislatore.
La Corte ha avuto ancora occasione di ritornare sulla disciplina che precludeva la possibilità di integrazione probatoria, ravvisandovi non solo la violazione del diritto di difesa, ma anche una alterazione dei caratteri propri dell'esercizio della funzione giurisdizionale (v., in particolare, sentenza n. 318 del 1992, nonché sentenze n. 56 del 1993 e n. 442 del 1994).
4.2.- Raccogliendo i reiterati inviti <<ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell'istituto con i principi costituzionali>> (sentenza n. 442 del 1994), tra il ventaglio delle soluzioni possibili la legge n. 479 del 1999 ha operato scelte che si propongono di porre rimedio agli aspetti contraddittori della precedente disciplina, in particolare eliminando sia la valutazione di ammissibilità da parte del giudice (salvo che nell'ipotesi di cui all'art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), sia la necessità del consenso del pubblico ministero. Con riferimento ad entrambe le soluzioni, il legislatore ha evidentemente tenuto presenti le considerazioni svolte da questa Corte circa i profili di incostituzionalità derivanti dall'essere la definibilità allo stato degli atti subordinata alla scelta discrezionale del pubblico ministero di svolgere indagini più o meno approfondite.
L'eliminazione del potere di valutazione del giudice sull'ammissibilità del rito - ora previsto, a norma dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen., solo se l'integrazione probatoria richiesta dall'imputato risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento - non determina l'irragionevole diversità di trattamento di situazioni processuali sostanzialmente identiche denunciata dai rimettenti, né, tantomeno, anche ove il giudice disponga d'ufficio ex art. 441, comma 5, cod. proc. pen. una integrazione probatoria lunga e complessa, l'irragionevolezza complessiva del giudizio abbreviato.
Al riguardo, e contrariamente a quanto ritengono i rimettenti, ove si debbano compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l'ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina. Movendosi in quest'ottica, non è neppure producente il confronto - anch'esso prospettato dai rimettenti - tra giudizio abbreviato "puro", accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio, e giudizio condizionato dalla richiesta dell'imputato di integrazione probatoria.
Si deve infatti tener presente, da un lato, che sarebbe incostituzionale, come in precedenza già ricordato, fare discendere l'impossibilità di accedere al giudizio abbreviato da lacune probatorie non addebitabili all'imputato; dall'altro che nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una anche consistente integrazione probatoria, non importa se chiesta dall'imputato o disposta d'ufficio dal giudice, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all'assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conseguentemente, all'istruzione dibattimentale, l'imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano utilizzati come prova e che gli atti oggetto dell'eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall'art. 422, commi 2, 3 e 4, cod. proc. pen., espressamente richiamate dall'art. 441, comma 6, cod. proc. pen., così da evitare la più onerosa formazione della prova in dibattimento; infine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell'udienza preliminare.
Anche se viene richiesta o disposta una integrazione probatoria, il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario continua dunque ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato.
4.3.- Prive di fondamento sono anche le ulteriori censure, sollevate in riferimento agli artt. 3, 27, 101, secondo comma, e 102, primo comma, Cost., che contestano l'eliminazione della valutazione sull'ammissibilità del rito sotto i diversi profili della violazione dei principi della individualizzazione e della funzione rieducativa della pena, nonché di esclusività dell'esercizio della giurisdizione, con particolare riferimento al potere di autonoma determinazione in concreto della pena, che verrebbe sottoposto ad impropri condizionamenti dalla mera volontà dell'imputato.
Fermo restando l'automatismo della diminuzione di un terzo della pena, rimane comunque intatto il potere del giudice di determinare la pena base tra il minimo e il massimo edittale e di stabilire la misura della diminuzione o dell'aumento della pena ove siano presenti circostanze attenuanti o aggravanti. Più in generale, la compatibilità tra le facoltà esercitate dalle parti - unilateralmente o previo accordo - in ordine alla scelta del rito ed alla determinazione della pena, e i principi, rispettivamente enunciati dagli artt. 101, secondo comma, e 102, primo comma, Cost., della soggezione del giudice soltanto alla legge e dell'esclusività dell'esercizio della funzione giurisdizionale, risulta costantemente ammessa nelle decisioni con cui questa Corte ha affrontato analoghe questioni di costituzionalità relative ai poteri dispositivi delle parti e alla logica premiale che caratterizzano i procedimenti speciali (v. ad esempio, sentenze nn. 313 e 284 del 1990); né, al riguardo, i rimettenti prospettano argomentazioni che inducano a riprendere in esame queste problematiche alla luce dell’attuale disciplina.
4.4.- Sul terreno dei meccanismi introduttivi del giudizio abbreviato si collocano anche le questioni relative all'eliminazione del consenso del pubblico ministero e, più in generale, di qualsiasi forma di intervento della pubblica accusa ai fini dell'ammissione al rito. Il dedotto contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost. sarebbe ravvisabile anche nella mancata previsione del potere del pubblico ministero di chiedere una integrazione probatoria a seguito della richiesta di giudizio abbreviato, diversamente da quanto stabilito in favore dell'imputato.
La scelta legislativa di non prevedere interventi del pubblico ministero ostativi alla introduzione del giudizio abbreviato va ricollegata alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina relativa al dissenso immotivato del pubblico ministero e alle rilevate distonie dell'istituto con i principi costituzionali, per essere lo stesso pubblico ministero arbitro della "definibilità" del procedimento allo stato degli atti. Da un lato il potere di veto del pubblico ministero sulla richiesta di giudizio abbreviato riprodurrebbe i profili di illegittimità costituzionale derivanti dal sacrificio del diritto dell'imputato alla riduzione di pena; dall'altro il principio del contraddittorio tra le parti, enunciato dal secondo comma dell’art. 111 Cost., non è evocabile in relazione a una disciplina che attiene alle forme introduttive del giudizio abbreviato, quale si è venuta delineando, a seguito degli interventi della giurisprudenza costituzionale e delle successive scelte legislative, dall’originario accordo tra le parti alla richiesta dell'imputato, e che si pone come diretta conseguenza della specificità di tale rito.
Infine, l'omessa previsione di un potere di iniziativa probatoria del pubblico ministero, analogo a quello attribuito all'imputato che abbia presentato richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), non viola l'art. 111, secondo comma, Cost., sotto il profilo del contrasto con il principio della parità tra le parti.
L'attribuzione all'imputato della facoltà di subordinare la richiesta di giudizio abbreviato ad un'integrazione probatoria è coerente con la posizione di tale soggetto processuale, che si trova ad affrontare il rischio di un giudizio (e di una possibile conseguente condanna) basato sugli atti raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari ed a cui va pertanto riconosciuta la facoltà di chiedere l’acquisizione di nuovi e ulteriori elementi di prova. Diversa è, invece, la posizione del pubblico ministero: tenuto conto del ruolo svolto nelle indagini preliminari, e fermo restando il suo diritto all'ammissione di prova contraria a norma dell'art. 438, comma 5, cod. proc. pen., non è irragionevole la scelta legislativa di non riconoscergli il diritto di chiedere l'ammissione di prove a carico dell'imputato solo perché questi ha presentato richiesta di giudizio abbreviato.
Da un lato, il pubblico ministero ha già esercitato il potere e assolto al dovere di svolgere tutte le attività necessarie in vista delle determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale; dall'altro, l’esigenza di completezza delle indagini preliminari (su cui v. sentenza n. 88 del 1991) risulta rafforzata dal riconoscimento del diritto dell'imputato ad essere giudicato, ove ne faccia richiesta, con il rito abbreviato. Il pubblico ministero dovrà infatti tenere conto, nello svolgere le indagini preliminari, che sulla base degli elementi raccolti l’imputato potrà chiedere ed ottenere di essere giudicato con tale rito, e non potrà quindi esimersi dal predisporre un esaustivo quadro probatorio in vista dell'esercizio dell'azione penale. Ne deriva che non costituisce irragionevole discriminazione tra le parti la mancata attribuzione all'organo dell'accusa di uno specifico potere di iniziativa probatoria per "controbilanciare" il diritto dell'imputato al giudizio abbreviato.
4.5.- Infondate sono, infine, le censure sollevate in riferimento all’art. 97 Cost.: il principio di buon andamento dei pubblici uffici non si riferisce all’attività giurisdizionale in senso stretto, bensì all’organizzazione e al funzionamento dell’amministrazione della giustizia (cfr., ex plurimis, sentenze n. 381 del 1999 e n. 53 del 1998, nonché ordinanza n. 412 del 1999).
5.- Manifestamente infondata è la questione relativa all'art. 442, comma 1-bis, cod. proc. pen., nella parte in cui consente l'utilizzazione nel giudizio abbreviato di atti non utilizzabili nel giudizio ordinario, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna (r.o. n. 305 del 2000). Il fondamento del giudizio abbreviato sta, appunto, nella utilizzazione probatoria - previo consenso dell'imputato, implicito nella richiesta del rito speciale - degli atti legittimamente assunti nel corso delle indagini preliminari: al riguardo, è sufficiente ricordare che l'art. 111, quarto comma, Cost. ha enunciato il principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale, ma ha poi espressamente previsto il consenso dell'imputato tra i casi di deroga al principio stesso (quinto comma).
6.- Manifestamente inammissibile è la questione avente ad oggetto l'art. 441, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui stabilisce che il giudizio abbreviato si celebra in camera di consiglio, salvo che tutti gli imputati richiedano la pubblica udienza, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 101 e 102 Cost., dal medesimo rimettente.
Dall'ordinanza di rimessione emerge che solo uno degli imputati ha chiesto il giudizio abbreviato, con l'ovvia conseguenza che la censura concernente il "diritto di veto" dei coimputati alla celebrazione del processo in udienza pubblica è priva di rilevanza nel caso di specie.
Per quanto riguarda, poi, l'ulteriore censura sollevata, in riferimento ai medesimi parametri, nei confronti della disciplina che affida esclusivamente all’imputato la scelta tra udienza pubblica e udienza camerale, va riaffermato che nel <<giudizio abbreviato entrano in gioco interessi diversi che solo il legislatore può valutare comparativamente e bilanciare nell’ambito della sua discrezionalità>> (ordinanza n. 160 del 1994, nonché sentenza n. 373 del 1992): né il rimettente prospetta argomenti che inducano questa Corte, alla luce di una disciplina che oggi offre - sia pure a determinate condizioni - maggiori spazi alla pubblicità del giudizio, a riesaminare tali conclusioni.
7.- Infine, è manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza la questione avente ad oggetto l'art. 441 cod. proc. pen., nella parte in cui prevede in capo allo stesso giudice poteri istruttori e decisori, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Imperia (r.o. n. 405 del 2000): l'ordinanza di rimessione è infatti priva di qualsiasi motivazione in ordine all'esigenza del giudice a quo di assumere elementi necessari ai fini della decisione.
  PER QUESTI MOTIVI
  LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438 e 442, comma 2, del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, primo e terzo comma, 97, 101, 102 e 111 della Costituzione, dai Giudici dell’udienza preliminare dei Tribunali di Imperia, Bologna e Roma, e dal Tribunale di Firenze, con le ordinanze in epigrafe;
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 442, comma 1-bis, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna, con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 441, comma 3, del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 101 e 102 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bologna, con l'ordinanza in epigrafe;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 441 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Imperia, con l'ordinanza in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2001.
Cesare RUPERTO, Presidente
Guido NEPPI MODONA, Redattore
Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2001.
 
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