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Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 500, commi 2 e 7, c.p.p. sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, 27, 101, primo e secondo comma, 111, quinto e sesto comma, e 112 della Cost.
ORDINANZA N. 36
ANNO 2002
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
- Cesare RUPERTO Presidente
- Massimo VARI Giudice
- Riccardo CHIEPPA "
- Gustavo ZAGREBELSKY "
- Valerio ONIDA "
- Carlo MEZZANOTTE "
- Fernanda CONTRI "
- Guido NEPPI MODONA "
- Piero Alberto CAPOTOSTI "
- Annibale MARINI "
- Franco BILE "
- Giovanni Maria FLICK "
- Francesco AMIRANTE "
ha pronunciato la seguente
ORDINANZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 500, commi 2 e 7, del codice di procedura penale, promossi con ordinanze emesse il 12 giugno 2001 dal Tribunale di Napoli, il 29 giugno 2001 dal Tribunale di Ascoli Piceno, sezione distaccata di San Benedetto del Tronto, il 6 luglio ed il 3 maggio 2001 dal Tribunale di Ascoli Piceno ed il 9 luglio 2001 dal Tribunale di Bologna rispettivamente iscritte ai nn. 690, 739, 805, 863 e 871 del registro ordinanze 2001, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 38, 39, 41 e 43, prima serie speciale, dell’anno 2001.
Visto l’atto di costituzione di Perrone Capano Giuseppe, di Testa Gianluca, di Curzi Augusto, di Lotito Paolo e di Caiulo Marco nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e dell’Unione delle Camere Penali Italiane;
udito nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2002 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;
uditi gli avvocati Giuseppe Frigo per Perrone Capano Giuseppe, Vittorio Chiusano per Curzi Augusto, Gaetano Pecorella per Lotto Paolo, Paolo Trombetti per Caiulo Marco, Fabrizio Corbi per l’Unione delle Camere Penali Italiane e l’avvocato dello Stato Nicola Bruni per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che il Tribunale di Napoli (r.o. n. 690 del 2001) ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, e 101, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni e valutate ai fini della credibilità del teste, possano essere acquisite e valutate anche come prova dei fatti in esse affermati, se sussistono altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità;
che a parere del giudice a quo risulterebbero compromessi i parametri indicati – dai quali si dedurrebbero "le garanzie costituzionali del giusto processo" – in quanto la normativa impugnata violerebbe il principio "della non dispersione dei mezzi di prova" affermato da questa Corte nella sentenza n. 255 del 1992, e che, pur in un sistema di tipo accusatorio, "deve accompagnare il principio della oralità e della formazione della prova nel contraddittorio delle parti nel caso in cui la stessa non sia compiutamente acquisibile con il metodo orale": principio che il giudice a quo reputa tuttora valido, "pur nel mutato quadro costituzionale che ha fatto seguito alla modifica dell’art. 111 Cost.";
che la disposizione impugnata, con le sue attuali limitazioni, finirebbe, ad avviso del rimettente, "con il privare di efficacia la legge penale sostanziale, violando il diritto costituzionale di azione, sminuendo la peculiare funzione del giudice penale di accertamento della verità e, di fatto, vanificando la tutela dei diritti inviolabili salvaguardati" dagli evocati parametri di costituzionalità;
che risulterebbe compromesso, infine, altresì il principio del libero convincimento del giudice, in quanto gli sarebbe imposto, "anche nel caso in cui sia motivatamente convinto della veridicità delle dichiarazioni oggetto delle contestazioni, di prescindere dalle stesse e di giungere così ad una decisione che contraddice il suo convincimento";
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi infondata la questione proposta;
che ha altresì spiegato atto di intervento la parte privata, deducendo l’irrilevanza della questione e, comunque, la sua infondatezza. Quanto al primo profilo, l’interveniente deduce che la limitazione dell’efficacia probatoria delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni, sancita dal comma 2 dell’art. 500 cod. proc. pen., risulta in realtà specificazione della più generale regola di esclusione prevista dal comma 1 del medesimo articolo, il quale ribadisce che restano in ogni caso "fermi i divieti di lettura e di allegazione" di tutte le dichiarazioni rese nella fase della indagine: regola, quest’ultima, a sua volta espressione della fondamentale disciplina delineata dall’art. 514 cod. proc. pen. in tema di divieti di lettura e di acquisizione. Da ciò la prospettata irrilevanza delle questioni in quanto, anche ove la norma impugnata fosse espunta dall’ordinamento, continuerebbe ad operare la regola di esclusione probatoria delle dichiarazioni contestative comunque ricavabile dal combinato disposto degli artt. 514 e 500, comma 1, del codice di rito;
che nel giudizio ha proposto atto di intervento anche l’Unione delle Camere Penali Italiane, in persona del presidente pro tempore, deducendo l’irrilevanza e, comunque, l’infondatezza della questione proposta;
che, con ordinanze di analogo tenore, il Tribunale di Ascoli Piceno - sezione distaccata di San Benedetto del Tronto (r.o. n. 739 del 2001) ed il Tribunale di Ascoli Piceno (r.o. n. 805 del 2001) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 101, 111, quinto comma, 27 e 112 della Costituzione questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni utilizzate per le contestazioni e valutate ai fini della credibilità del teste, possano essere acquisite e valutate anche quale prova dei fatti in esse affermati, se sussistono altri elementi di prova che ne confermino l’attendibilità;
che risulterebbe violato, a parere dei giudici rimettenti, l’art. 3 Cost., reputandosi irragionevole "consentire all’autorità giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni in corso di indagini preliminari, introdurre poi tali dichiarazioni nel pieno contraddittorio dibattimentale e vietarne poi l’utilizzazione in sede di giudizio", malgrado la norma impugnata preveda "un contraddittorio anche sulle dichiarazioni precedentemente rese, con possibilità di esame e controesame del teste sul contenuto delle stesse";
che, sempre a parere dei giudici rimettenti, la limitazione dei poteri processuali di accertamento, in cui si risolve la regola di esclusione probatoria sancita dalla norma oggetto di impugnativa, si tradurrebbe in una lesione della garanzia giurisdizionale dei diritti (art. 24 Cost.), e segnatamente di quelli inviolabili (art. 2 Cost.), che trovano nel processo penale la forma più intensa di tutela;
che compromesso sarebbe anche l’art. 101, secondo comma, Cost. per violazione del principio del libero convincimento del giudice, posto che tale convincimento dovrebbe potersi fondare anche sulle dichiarazioni lette per le contestazioni, se ritenute genuine e veritiere, mentre la norma impugnata impone al giudice di contraddire la propria motivata convinzione nel contesto della medesima decisione;
che vulnerato sarebbe anche, di riflesso, l’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, posto che la motivazione "in quanto tale, deve essere coerente e priva di vizi logici e non può sopportare quindi regole che impongano di adottare invece contraddizioni";
che, infine, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 27 e 112 Cost., in quanto, in riferimento alla previsione dettata dal comma 7 dell’art. 500 cod. proc. pen. "se l’azione penale è indisponibile e obbligatoria, anche la prova deve essere "indisponibile", nel senso che il potere dispositivo delle parti in ordine alla prova non può superare il limite oltre il quale la disponibilità della prova si risolva in disponibilità dell’azione ed oltre il quale la disponibilità della prova vada irragionevolmente ad incidere sul necessario accertamento dei fatti che costituisce fondamento del processo penale e della eventuale irrogazione della pena";
che nei giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso per l’infondatezza delle questioni proposte;
che sono altresì intervenute le parti private e l’Unione delle Camere Penali Italiane (limitatamente alla questione sollevata con ordinanza r.o. n. 739 del 2001), chiedendo dichiararsi inammissibile per irrilevanza e, comunque, infondata la questione;
che anche il Tribunale di Bologna (r.o. 871 del 2001) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni lette per le contestazioni e valutate ai fini della credibilità del teste possano essere acquisite e valutate anche come prova dei fatti in esse affermati;
che compromessi risulterebbero gli artt. 2, 3, 24, primo comma, e 111 Cost., in quanto la disciplina impugnata realizzerebbe una "costrizione che ostacola in via di principio ed irragionevole il processo di accertamento dei fatti storici e limita la libertà del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente apprezzamento", ponendosi in contrasto con i principi già affermati nella sentenza n. 255 del 1992, reputati ancora validi e non incompatibili con l’art. 111 della Costituzione, nel testo vigente;
che nel giudizio sono intervenuti il Presidente del Consiglio dei ministri e la parte privata, chiedendo dichiararsi inammissibile e, comunque, non fondata la questione;
che, infine, il Tribunale di Ascoli Piceno (r.o. 863 del 2001) ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 500, comma 7, cod. proc. pen., "nella parte in cui non prevede che le dichiarazioni lette per le contestazioni possano essere acquisite e valutate quale prova dei fatti";
che la norma impugnata si porrebbe in contrasto con l’art. 2 Cost., "in quanto di fatto ostativa al libero esercizio dei diritti fondamentali", e con l’art. 24 della medesima Carta, giacché limiterebbe, di fatto, "il diritto di azione, con regole che rendono estremamente difficile la dimostrazione in giudizio della penale responsabilità dell’imputato, con conseguenti pronunce assolutorie ... e conseguente frustrazione dei diritti delle vittime dei reati";
che violati sarebbero anche il principio di soggezione del giudice soltanto alla legge (art. 101, secondo comma, Cost.) e quello di legalità (art. 25 Cost.), nonché l’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali (art. 111, sesto comma, Cost.), in quanto risulterebbe impossibile, per il giudice, "contemperare logicamente l’esclusione della credibilità del teste che renda in dibattimento dichiarazioni difformi rispetto a quanto dichiarato nelle indagini preliminari, con l’affermazione di una verità processuale sicuramente parziale", cosicché il giudice finirebbe per essere "costretto ad emanare una decisione conforme alle dichiarazioni ritenute false";
che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondata la questione ed è altresì intervenuta la parte privata, la quale ha concluso per l’inammissibilità o l’infondatezza del quesito di legittimità costituzionale;
che con allegata ordinanza, letta in udienza, è stato dichiarato inammissibile l’intervento della Unione delle Camere Penali Italiane.
Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni fra loro del tutto analoghe e che, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un’unica decisione;
che, pur nella varietà delle sfumature argomentative, dei parametri evocati e dei profili coinvolti dalle singole questioni, il nucleo comune delle censure ruota attorno alla pretesa elusione del principio di non dispersione dei mezzi di prova, individuato da questa Corte nella sentenza n. 255 del 1992 e reputato dai remittenti ancora in linea con il vigente quadro costituzionale; alla violazione del principio di ragionevolezza, della garanzia giurisdizionale dei diritti e della obbligatorietà ed indisponibilità della azione penale; alla vanificazione, infine, dell’obbligo di motivazione e del principio di libero convincimento del giudice, in quanto gli sarebbe imposto, "...anche nel caso in cui sia motivatamente convinto della veridicità delle dichiarazioni oggetto di contestazione, di prescindere dalle stesse e di giungere così ad una decisione che contraddice il suo convincimento";
che la pregiudiziale eccezione di inammissibilità per irrilevanza, sollevata dalle parti private, non può trovare accoglimento, in quanto le doglianze dei giudici a quibus non mirano ad una caducatoria integrale della norma impugnata, ma ad una pronuncia additiva in parte qua, che consenta di utilizzare le dichiarazioni contestative non soltanto per valutare la credibilità del teste, ma direttamente come prove dei fatti in esse affermati;
che, a proposito dei rilievi mossi dai giudici rimettenti, occorre preliminarmente rammentare come l’art. 111 della Costituzione abbia espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio, anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti;
che, alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi della oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilateralmente raccolti nel corso delle indagini preliminari (vedi sentenza n. 32, in pari data);
che si spiega, dunque, l’esigenza di impedire che l’istituto delle contestazioni - proprio perché configurato quale veicolo tecnico di utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte prima e al di fuori del contraddittorio - si atteggi alla stregua di meccanismo di acquisizione illimitato ed incondizionato di quelle dichiarazioni; esigenza, questa, che la composita disciplina dettata dall’art. 500 del codice di rito ha soddisfatto con la attuale formulazione, prevedendo, da un lato, un parametro di valutazione oggettivamente circoscritto delle dichiarazioni lette per le contestazioni e, dall’altro, ipotesi di eccezionale utilizzabilità pleno iure, tutte caratterizzate dall’esigenza di permettere la più ampia facoltà di prova, senza però compromettere i principi di cui si è detto;
che il censurato regime di esclusione probatoria – frutto di una precisa scelta che il legislatore ha compiuto in attuazione dei principi sanciti dall’art. 111 della Costituzione – non determina alcuna lesione dei parametri costituzionali variamente richiamati dai giudici rimettenti;
che, infatti, la stessa Costituzione, nel nuovo testo dell’art. 111, prevede espressamente, fra i casi in cui la legge può stabilire che la prova non abbia luogo in contraddittorio, l’ipotesi in cui quest’ultimo non possa realizzarsi "per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita", stabilendo una disciplina sulla formazione della prova che il legislatore è tenuto a rendere effettiva, senza eccedere dai confini ora costituzionalmente imposti;
che del pari inconferente si rivela il richiamo al libero convincimento del giudice, così come quello al preteso affievolimento che la disciplina impugnata determinerebbe sul piano della tutela giurisdizionale dei diritti e della obbligatorietà della azione penale, posto che, per un verso, il libero convincimento del giudice non può che riferirsi alle prove legittimamente formate ed acquisite; e che, sotto altro profilo, il diritto di azione – pubblica e privata – e il diritto di difesa non possono ritenersi lesi dalle prospettate "limitazioni", le quali si configurano come la naturale e coerente conseguenza di scelte sistematiche, in linea con i principi costituzionali;
che inconsistenti si rivelano altresì le censure relative alla violazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, variamente dedotte, ma prevalentemente incentrate sul profilo che la motivazione, per esser tale, "deve essere coerente e priva di vizi logici e non può sopportare quindi regole che impongano di adottare, invece, contraddizioni"; è del tutto evidente, infatti, che i limiti probatori relativi alle dichiarazioni lette per le contestazioni non incidono affatto sulla coerenza intrinseca della motivazione che il giudice è chiamato a svolgere – in positivo o in negativo – sul complesso della deposizione testimoniale, quale risultante all’esito delle contestazioni, e sullo scrutinio in punto di credibilità, posto che, ove così non fosse – ed a portare alle estreme conseguenze il ragionamento dei giudici a quibus – qualsiasi prova non utilizzabile (perché, ad esempio, assunta contro i divieti previsti dalla legge) comprometterebbe l’obbligo di motivazione, per il sol fatto di essere apparsa "persuasiva" nel foro interno del giudicante;
che, alla stregua degli accennati rilievi, restano assorbiti gli ulteriori profili di illegittimità prospettati dai giudici rimettenti - peraltro in termini del tutto generici - in riferimento agli altri parametri costituzionali;
che, pertanto, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente infondate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’ art. 500, commi 2 e 7, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, primo comma, 25, secondo comma, 27, 101, primo e secondo comma, 111, quinto e sesto comma, e 112 della Costituzione dal Tribunale di Napoli, dal Tribunale di Ascoli Piceno, dal Tribunale di Ascoli Piceno - sezione distaccata di San Benedetto del Tronto e dal Tribunale di Bologna, con le ordinanze in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 febbraio 2002.
F.to:
Cesare RUPERTO, Presidente
Giovanni Maria FLICK, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 26 febbraio 2002.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
ALLEGATO
Reg. Ord. n. 690 e n. 739 del 2001
Ordinanza letta nell’udienza pubblica del 12 febbraio 2002.
Ritenuto che nei giudizi promossi con le ordinanze emesse il 12 giugno 2001 dal Tribunale di Napoli (r.o. n. 690 del 2001) e il 29 giugno 2001 dal Tribunale di Ascoli – Piceno – Sezione distaccata di San Benedetto del Tronto (r.o. n. 739 del 2001) ha spiegato atto di intervento l’Unione delle Camere Penali italiane, in persona del suo Presidente pro tempore, deducendo, a sostegno della legittimazione all’intervento medesimo, che l’Unione delle Camere Penali è una associazione senza fini di lucro il cui scopo primario è quello di "promuovere la conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto ed equo processo penale in una società democratica";
che, pertanto, l’associazione de qua si reputa portatrice ed esponente di un interesse, giuridicamente e processualmente tutelabile, ad intervenire negli anzidetti giudizi, disputandosi della legittimità costituzionale di un sistema normativo "che è stato precipuamente dettato proprio per attuare la riforma della Costituzione in tema di qualità e connotati essenziali della giurisdizione penale".
Considerato che la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare la inammissibilità, nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, dell’intervento da parte di soggetti che non siano parte in causa nel giudizio a quo (ex plurimis, ordinanza allegata alla sentenza n. 89 del 2001) e che non siano titolari di un interesse qualificato, suscettibile di essere inciso dalla pronunzia della Corte;
che tale situazione non ricorre nella specie;
che, pertanto, gli atti di intervento indicati in premessa non possono ritenersi produttivi di effetto nei relativi giudizi.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
Visto l’art. 18 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
dichiara inammissibili gli interventi della Unione delle Camere Penali Italiane, ordinando la prosecuzione della discussione.
Firmato: Cesare Ruperto, Presidente
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