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1. La più importante revisione novellistica della parte speciale del codice penale coincide, certamente, con la riforma dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione (libro II, titolo II, capo I, codice penale), intervenuta ad opera della l. 26 aprile 1990, n. 86.
Il fulcro dell’intera riforma del 1990 è rappresentato dall’introduzione del reato di abuso d’ufficio, figura criminosa alla quale si ritenne di assegnare un ruolo cardine ed “assorbente” nella materia in questione, in quanto avrebbe dovuto colmare il vuoto prodottosi con l’abolizione delle ipotesi di peculato per distrazione e di interesse privato in atti d’ufficio.
Tuttavia, è durata solo sette anni la vita del reato di abuso d’ufficio, così come introdotto con la citata riforma.
Da più parti, da subito, si invocava la necessità di una modifica di tale fattispecie penale incriminatrice e, più precisamente, un intervento legislativo teso a circoscrivere l’ambito di operatività dell’art. 323 c.p., mediante una più puntuale determinatezza e rigorosa tipizzazione della struttura del reato ovvero una maggiore precisazione dei contorni del fatto punibile, per evitare i cosiddetti “abusi dell’abuso”, ponendo un serio limite all’eccessivo straripamento dell’intervento penale sull’agire della P.A., soprattutto in relazione agli ambiti contraddistinti dalla discrezionalità dell’azione amministrativa.
In breve, possono essere così riassunti gli obiettivi, connessi tra loro, che con la riformulazione dell’art. 323 c.p. si puntava a realizzare:
a) limitare e/o escludere ingerenze del giudice penale sulla discrezionalità amministrativa e, più dettagliatamente, consentire al giudice penale, ai fini dell’accertamento relativo alla ricorrenza del reato di abuso d’ufficio, un sindacato limitato alla legittimità formale dell’azione amministrativa e non anche rivolto alla legittimità sostanziale;
b) restringere la portata applicativa della norma penale in questione, attraverso una più attenta determinazione della struttura della fattispecie incriminatrice, modificando, altresì, il tipo di illecito penale.
Si trattava di obiettivi di carattere politico, oltre che giuridico, particolarmente avvertiti, soprattutto per salvaguardare la giusta divisione tra potere giudiziario e potere esecutivo, incisa dal proliferare di procedimenti aventi ad oggetto l’imputazione del citato illecito penale a seguito delle note vicende giudiziarie nate dal fenomeno di Tangentopoli, durante il quale, peraltro, anche in relazione a tale tipo di fatto di reato, si ebbe un uso eccessivo e, comunque, spesso strumentale allo sviluppo delle indagini, della cosiddetta carcerazione preventiva.
Tali esigenze sono state soddisfatte con la legge n. 234/1997, la quale ha modificato l’art. 323 c.p., operando una riformulazione dell’intera struttura del reato, con evidenti novità rispetto la precedente formulazione.
Giova enfatizzare che l’attuale figura del delitto di abuso d’ufficio, pur ponendo diverse ed interessanti questioni dal punto di vista della applicazione ed interpretazione giurisprudenziale, risulta, senza dubbio, sufficientemente conforme ai principi che regolano la materia penale in generale ed il diritto penale sostanziale in particolare.
E’ opportuno ricordare che l’indicato intervento legislativo ha risolto la problematica relativa all’eccessivo o strumentale uso della carcerazione preventiva in relazione al reato de quo, posto che la pena edittale prevista (da sei mesi a tre anni di reclusione) non consente il ricorso alla custodia cautelare.
2. Autentica novità è l’aver incentrato la sussistenza del reato al verificarsi di un evento di danno, cioè una conseguenza concreta legata materialmente alla condotta abusiva, la quale deve produrre “a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale” ovvero arrecare “ad altri un danno ingiusto”.
Trattasi di un elemento di rilevante importanza, poiché idoneo a meglio delineare la struttura oggettiva del reato ed a restringere l’ambito operativo della norma, la quale non è più espressione di un illecito di pura condotta ed a dolo specifico, bensì di un illecito con evento in senso naturalistico, con dolo generico a forma, come meglio si dirà in seguito, diretta o intenzionale.
3. Preliminarmente, bisogna dire che trattasi di reato proprio.
Soggetto attivo può, infatti, essere non chiunque, ma soltanto colui che riveste la qualifica giuridica soggettiva di pubblico ufficiale od incaricato di pubblico servizio.
4. Il bene giuridico protetto coincide con i canoni del buon andamento, dell’imparzialità e della trasparenza della pubblica amministrazione.
5. Come già detto, siamo di fronte ad un tipo di illecito cd. di danno, cioè un reato per la configurabilità del quale l’azione criminosa deve risultare in rapporto di causalità materiale con l’evento in senso naturalistico sopradelineato.
Dal punto di vista strutturale oggettivo, la condotta consiste nella “violazione di norme di legge o di regolamento” posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio “nello svolgimento delle funzioni o del servizio” ovvero nel non “astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti”.
Non può revocarsi in dubbio che il suddetto comportamento, il quale rappresenta uno dei requisiti ai quali è àncorata la configurabilità del reato in oggetto, rende la fattispecie più “determinata” rispetto al passato, limita la sua portata applicativa ed elimina o riduce il sindacato del giudice penale sulla legittimità sostanziale dell’atto amministrativo.
Infatti, è chiaro che non un generico abuso od uso distorto della funzione amministrativa è richiesto, ma sono necessarie proprio violazioni del tipo sopramenzionate.
Tuttavia, è altrettanto fuori discussione che l’indicata condotta criminis produce un’ipotesi di norma penale in bianco, nella quale il contenuto precettivo è espresso, tranne probabilmente il caso dell’inottemperanza agli obblighi di astensione autonomamente individuati, con riferimento a fonti normative esterne: leggi, regolamenti e casi prescritti.
Pertanto, se è vero che tale previsione, richiedendo che l’abuso punibile deve estrinsecarsi in violazioni di precisi doveri, realizza i positivi risultati suindicati, è al pari vero che rappresenta un caso di norma penale in bianco, la quale porta con sé tutte le problematiche che, da sempre, tale tecnica di formulazione della norma penale pone, tanto sotto il profilo della tassatività quanto della riserva di legge in materia penale, nonché altre diverse questioni, quali quelle dell’errore di diritto, della cd. penalizzazione dei precetti extrapenali, etc.
E’, comunque, certo che sono da ritenere espunte dall’operatività dell’art. 323 c.p. tutte quelle condotte genericamente definibili come abusive solo perché finalizzate a procurare un vantaggio od arrecare un danno, in assenza di una violazione di norme di legge od atti aventi valenza normativa strictu sensu ed in mancanza della concreta verificazione dell’evento lesivo nei termini imposti dalla norma.
E’, invece, indispensabile la cd. illegittimità formale dell’azione amministrativa e, soprattutto, che tale elemento sia unito da un nesso eziologico con il risultato lesivo richiesto dalla norma quale evento di danno in senso naturalistico che deve ricorrere in concreto.
5. 1. In merito alle violazioni di legge o regolamento, deve evidenziarsi che può venire in rilievo qualsivoglia manifestazione dell’agire della P.A., purché attinente allo svolgimento della funzione o del servizio e purché si concretizzi, per l’appunto, nella violazione di una legge in senso stretto ovvero di atti dotati di forza normativa in senso tecnico-giuridico.
Sul punto deve segnalarsi che la Suprema Corte di Cassazione ha, ad esempio, ritenuto sprovviste del carattere e della forza normativa citata le circolari amministrative, le quali “contengono soltanto dei criteri tecnico-amministrativi la cui violazione può integrare solo il vizio di eccesso di potere” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 18 aprile – 26 luglio 2002, n. 28846).
Fermo restando quantosopra, può trattarsi di un’attività procedimentale oltre che provvedimentale, ma anche istruttoria, consultiva, di controllo o meramente esecutiva.
5. 2. Nessun dubbio sussiste in ordine alla possibilità di realizzazione del reato de quo mediante omissione, poiché è palese che la condotta di violazione può ricadere tanto su obblighi di facere quanto di non facere e, pertanto, nel primo caso l’abuso può essere integrato anche da un comportamento omissivo che violi, per l’appunto, l’obbligo di fare.
In buona sostanza, la norma consente tranquillamente la ricorrenza dell’illecito mediante omissione in tutti quei casi in cui una determinata attività sia imposta da un precetto di legge o regolamento, nel senso che l’azione omissiva ne rappresenta la violazione.
5. 3. Si è avuto già modo di evidenziare che elemento materiale determinante della fattispecie è l’ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o ad altri o l’ingiusto danno arrecato ad altri, quali veri e propri eventi del delitto, cioè requisiti la cui ricorrenza è alternativamente richiesta in concreto ai fini della sussistenza dell’illecito consumato.
E’ bene puntualizzare che il vantaggio patrimoniale che l’agente procura a sé o ad altri deve essere “ingiusto”, così come “ingiusto” deve essere il danno arrecato ad altri.
Si tratta di un aspetto fondamentale, posto che il dato dell’ingiustizia dovrebbe escludere dall’ambito dei fatti costituenti reato quelle eventuali distorsioni dell’agire amministrativo ad esso non collegabili, cioè le utilizzazioni contra legem dell’ufficio produttive, però, di un risultato perfettamente lecito, a conferma della necessità di non sovrapporre o, meglio, di non creare confusione tra l’illegittimità dell’azione amministrativa e l’illecito penale.
6. In tale ottica, ruolo determinante riveste anche l’elemento soggettivo del reato in questione.
Abbiamo già detto che il reato di abuso d’ufficio da illecito di pura condotta a dolo specifico è stato trasformato in illecito di danno, con evento in senso naturalistico e con dolo generico a forma diretta o intenzionale, il quale deve investire tutti gli elementi della fattispecie, ivi compreso l’evento.
Trattasi di dolo normativamente qualificato con l’avverbio “intenzionalmente”, il cui uso da parte del legislatore si giustifica solo in una prospettiva di individuazione di un dolo diretto per la punibilità del fatto.
Discende da tale impostazione che, ad esempio, bisogna negare rilevanza penale a condotte caratterizzate unicamente da dolo eventuale o dolo indiretto, essendo incompatibile con il requisito dell’intenzionalità la mera previsione dell’evento come possibile conseguenza del proprio agire, pur con l’accettazione del rischio di verificazione.
In tema di elemento soggettivo del reato di abuso d’ufficio, bisogna enfatizzare che la giurisprudenza della Suprema Corte tende a procedere in modo rigoroso all’accertamento del dolo intenzionale richiesto per la configurabilità del delitto menzionato.
A livello esemplificativo, merita di essere segnalata la decisione del giudice di legittimità secondo la quale “nell’art. 323 c.p., l’uso dell’avverbio intenzionalmente per qualificare il dolo, ha voluto limitare il sindacato del giudice penale a quelle condotte del pubblico ufficiale dirette, come conseguenza immediatamente perseguita, a procurare un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare un ingiusto danno, di modo che, qualora nello svolgimento della funzione amministrativa il pubblico ufficiale si prefigge di realizzare un interesse pubblico legittimamente affidatogli dall’ordinamento, pur giungendo alla violazione di legge e realizzando un vantaggio del privato, deve escludersi la sussistenza del reato” (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 6 maggio – 5 agosto 2003, n. 33068).
Pertanto, deve ritenersi penalmente non sanzionabile, ex art. 323 c.p., per difetto del dolo intenzionale, il comportamento del pubblico ufficiale che, pur caratterizzato da una volontaria violazione di legge o di regolamento e pur producendo consapevolmente un vantaggio ingiusto ad un privato, si sia prefisso ed abbia realizzato anche gli interessi dell’amministrazione affidata alle sue cure.
La concorrente finalità (realizzazione dell’interesse della P.A. di appartenenza) deve far ritenere mancante l’elemento soggettivo del reato de quo, purchè, si badi bene, trattasi non anche di qualsivoglia interesse pubblico, ma dell’interesse pubblico la cui cura è attribuita proprio a quel pubblico ufficiale o, comunque, anche a lui, dovendosi concludere diversamente in caso di usurpazione di attribuzioni o compiti ovvero di competenze di altri soggetti pur operanti nello stesso settore amministrativo.
7. Circa la configurabilità del tentativo con riferimento al delitto in questione, è chiaro che, essendo necessaria la produzione dell’evento di danno ai fini della consumazione del reato, si avrà l’evenienza del solo tentativo punibile ogni qual volta il vantaggio o il danno rimangono unicamente a livello intenzionale, senza però realizzarsi in concreto.
8. Qualche considerazione merita la circostanza aggravante del vantaggio o del danno di rilevante gravità di cui all’art. 323, comma 2, c.p., in presenza della quale è previsto un aumento della pena.
Alcuni ritengono tale aggravante ad effetto comune e indefinita, cioè appartenente alla categoria delle cd. aggravanti indeterminate, la cui definizione sarebbe affidata esclusivamente ai parametri dell’art. 133 c.p. e per le quali si porrebbero problemi di costituzionalità per difetto di determinatezza, soprattutto ai fini dell’esigenza di puntuale contestazione dell’accusa.
Altri affermano, invece, che trattasi di aggravante speciale oggettiva, sufficientemente determinata, posto che l’aumento di pena è previsto di fronte al verificarsi di un danno o vantaggio di “rilevante gravità” e, pertanto, ciò vincola l’interprete alla valutazione di un oggetto ben determinato dalla norma de qua.
9. Anche per il reato di abuso d’ufficio, se il fatto è di “particolare tenuità” la sanzione penale è diminuita, ex art. 323 bis c.p.
10. La clausola di riserva relativa e/o di consunzione prevista dall’art. 323 c.p. (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato”) assegna a tale norma penale incriminatrice natura sussidiaria, cioè la citata norma deve ritenersi “precetto di chiusura” destinato ad operare in via residuale e, comunque, dopo la valutazione imposta dalla norma medesima in ordine alla maggiore o minore gravità del fatto.
La suddetta clausola di riserva relativamente indeterminata conferisce carattere sussidiario al reato di abuso d’ufficio rispetto a fatti sanzionati più gravemente.
Ciò determina che la norma principale, quella cioè che punisce il reato più grave, esclude l’applicabilità della norma sussidiaria (lex primaria derogat legi subsidiariae) e, quindi, l’operatività del predetto art. 323 c.p.
In buona sostanza, la natura sussidiaria e/o residuale della norma, discendente dalla clausola di riserva, porta a ritenere che il reato di abuso d’ufficio sia in “concorso apparente” con altre figure di reato in tutti quei casi in cui il fatto sembra confluire nel circuito operativo tanto dell’art. 323 c.p. quanto di altra figura di illecito penale e, tuttavia, in concreto, il dato della maggiore gravità impone l’applicazione solo di una norma, la quale non può che essere quella definita principale, quella, cioè, relativa al reato più gravemente sanzionato.
Optare, al contrario, per il concorso di reati e, quindi, riconoscere che l’abuso d’ufficio concorre con il reato cd. principale significherebbe violare, tra l’altro, il principio del ne bis in idem sostanziale.
Tale soluzione è stata adottata dalla giurisprudenza di legittimità, ad esempio, in riferimento al rapporto tra il reato de quo e il reato di turbata libertà degli incanti (ex multis, Cass. Pen., Sez. VI, sent. 28 aprile – 22 luglio 1999, n. 9387) nonché in relazione al rapporto con il reato di corruzione, sia propria che impropria (Cass. Pen., Sez. VI, sent. 16 novembre – 3 dicembre 1999, n. 13939).
11. Da ultimo, appare interessante soffermarsi sull’ammissibilità o meno del concorso del privato nel reato di cui all’art 323 c.p. posto in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.
Deve dirsi che la configurabilità del concorso è astrattamente ammissibile, ma è necessario individuare i limiti entro i quali ciò può avvenire.
Non basta a tal fine, da sola, la mera coincidenza tra richiesta del privato e atto illegittimo ed abusivo realizzato dal soggetto attivo, essendo indispensabile un quid pluris idoneo a dimostrare che l’istanza è stata preceduta, accompagnata o seguita da un accordo col funzionario pubblico o, quantomeno, da sollecitazioni del privato tese all’ottenimento del provvedimento a lui vantaggioso e/o favorevole.
Bisogna, però, aggiungere che, affinché possa parlarsi di corresponsabilità del privato, è necessario, non solo il comportamento di sollecitazione rispetto al pubblico ufficiale e l’efficienza causale di tale comportamento sulla volontà del pubblico ufficiale medesimo, ma anche la consapevolezza in capo al privato dell’illegittimità della propria iniziativa.
Devono, cioè, ricorrere sia l’aspetto del contributo causale sia il requisito soggettivo.
Infatti, se al contrario, manca l’efficienza causale della condotta del privato sulla determinazione abusiva del soggetto attivo, il concorso, al pari, non può essere ritenuto sussistente solo perché l’istante risulta consapevole dell’illegittimità della sua iniziativa.
Concludere diversamente significherebbe violare le regole fondamentali in materia di concorso di persone nel reato, alla luce delle quali può essere affermata la responsabilità ex art. 110 c.p. del soggetto che non ha commesso l’azione tipica del reato, solo quando venga verificato un suo contributo causalmente orientato rispetto la realizzazione del fatto tipico.
Ciò può ammettersi rispetto all’istigatore, al determinatore ed all’agevolatore, ma non in capo a colui che si sia limitato ad effettuare un’istanza illegittima, pur consapevole del vantaggio che può derivargliene, senza che la sua richiesta abbia inciso sulla determinazione illecita e/o abusiva del pubblico ufficiale.
Non può, quindi, prescindersi da un serio riscontro probatorio in relazione sia al fatto nella sua materialità (contributo efficiente del privato nella realizzazione del fatto da parte del pubblico funzionario), sia all’aspetto psicologico (consapevolezza del privato circa l’illegittimità della sua richiesta).
- avv. Giovanni Baffa - Foro di Roma - gennaio 2006
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