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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 23 marzo 2005 (dep. 28 settembre 2005), n. 34686/2005 (n. 715/2005)

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Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 23 marzo 2005 (dep. 28 settembre 2005), n. 34686/2005 (n. 715/2005)
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Sulla valenza processuale (nel giudizio abbreviato) della relazione di pg al superiore: meglio non rubare il bancomat al collega

  REPUBBLICA ITALIANA
  IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
  SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FOSCARINI Bruno - Presidente
Dott. MARINI Pierfrancesco - Consigliere
Dott. AMATO Alfonso - Consigliere
Dott. ROTELLA Mario - Consigliere
Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
  SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da C.F. nato il ..., avverso sentenza del 22/10/2003 Corte d'Appello di Milano;
Visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Marasca Gennaro;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dr. D'Angelo Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Udito il difensore dell'imputato avvocato M.A. del foro di Roma, che ha concluso per l'annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata;
La Corte di Cassazione
  OSSERVA
C.F., agente di pubblica sicurezza, veniva accusato della violazione dell'articolo 12 della legge 197/91 per avere utilizzato, senza a cio' essere autorizzato, il bancomat del collega G.M.. Per tale fatto il C. veniva condannato, con sentenza emessa il 25 ottobre 2002 ai sensi dell'articolo 442 c.p.p. dal Gup presso il Tribunale di Milano, alla pena di mesi sei di reclusione ed euro 206,58 di multa.
La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 22 ottobre 2003, confermava la decisione di primo grado condannando il C. al
pagamento delle ulteriori spese processuali.
Nel presente processo si e' discusso essenzialmente del fatto che il C. sarebbe stato oggetto di indagini illegittime da  parte del M. e di altri colleghi, che in tal modo avrebbero acquisito prove contro l'imputato.
Le questioni processuali, di cui si dira', sono state gia' sottoposte al vaglio del Tribunale prima e della Corte di Appello poi e disattese da entrambi i giudici di merito.
La Corte di Appello in particolare ha rigettato le eccezioni processuali in base alla considerazione che il M. si era comportato come un privato cittadino che aveva cercato di recuperare quanto gli era stato rubato.
Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione F.C., il quale, tramite il suo difensore di fiducia, dopo avere chiarito che ci si trovava dinanzi ad una illegittimita' genetica delle indagini per violazione di garanzie difensive, utilizzazione di atti processuali inutilizzabili ed interesse privato in atti di ufficio, deduceva i seguenti motivi di impugnazione:
1) Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' ed inutilizzabilita' - artt. 191, 350 comma 7, 63, 62 c.p.p. e 15 e 24 della Costituzione, con particolare riferimento alle relazioni di servizio contenenti dichiarazioni del C. non verbalizzate;
2) Nullita' degli atti di indagine per attivita' illegittima per violazione degli articoli 361, 323 e 62 c.p., 15 della Costituzione e 8 e 6 della Convenzione dei diritti dell'Uomo;
3) Vizio di motivazione della sentenza impugnata perche' essa poggia essenzialmente sul contenuto di una relazione inesistente.
Il ricorrente chiedeva l'annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.
I motivi posti a sostegno del ricorso proposto da F.C. non sono fondati.
Si tratta, invero, di un processo singolare perche' l'autore del delitto e' un agente di pubblica sicurezza e la parte offesa e' un collega dell'imputato.
Persone informate dei fatti sono, poi, alcuni agenti di pubblica sicurezza colleghi sia dell'imputato che della parte offesa.
Le contestazioni del ricorrente riguardano essenzialmente il fatto che sia la parte offesa che l'agente di pubblica sicurezza A. avrebbero compiuto indagini private in danno del C. senza il rispetto delle formalita' previste dalla legge processuale,  con la ovvia ed inevitabile conseguenza della inutilizzabilita' degli atti assunti anche in sede di giudizio abbreviato.
I rilievi del ricorrente pero' poggiano su due presupposti non dimostrati ed apoditticamente affermati.
Il primo errore consiste nell'avere ritenuto che il C., sin da quando il M. ebbe a subire il furto del bancomat, fosse
indiziato del reato in rubrica. Non e' cosi perche' l'unico elemento al momento esistente a carico del C. era costituito dal fatto di dormire nella stessa camerata della parte offesa come altri colleghi.
Si trattava, quindi, di un elemento privo di specifico rilievo e certamente non costituente indizio; tutto al piu' si poteva ritenere un elemento di sospetto.
Mancando un imputato o un indiziato e' ovviamente incongruo il richiamo al mancato rispetto di una serie di garanzie poste a tutela degli indiziati e/o degli indagati.
Il secondo errore poggia sul fatto che secondo il ricorrente le c.d. dichiarazioni autoindizianti del C. all'agente di pubblica sicurezza A. non siano spontanee.
Non e' cosi' perche' il giudice di primo grado ha esplicitamente affermato - e tale rilievo non risulta in alcun modo smentito - che il C., che aveva richiesto all'amica, e non all'agente, A., un prestito, aveva a quest'ultima confidato alcuni suoi non corretti comportamenti.
Quindi e' ravvisabile una assoluta spontaneita' nelle dichiarazioni rese.
Una terza considerazione si impone: il ricorrente fonda il suo ragionamento e le sue deduzioni sul presupposto che fosse in corso una indagine a carico del C., indagine svolta dalla parte lesa e dai suoi colleghi a fini meramente privati.
Si tratta pero' di una pura affermazione, perche' da nessun elemento e' desumibile che fosse stata disposta una indagine per il furto subito dal M., ne' tantomeno che tale indagine si stesse svolgendo contro il C., che avrebbe percio' dovuto godere  delle garanzie riservate ai cittadini indagati. Dagli atti non risulta che siano stati compiuti atti di indagine perche' gli appostamenti, i pedinamenti e addirittura le minacce di cui parla il ricorrente sono puramente affermati, ma per nulla riscontrabili e, comunque, non dimostrati.
E' accaduto, invece, come ha correttamente messo in evidenza la Corte di merito, che il M., come qualsiasi privato cittadino
che abbia subito un torto, ha cercato di individuare, con mezzi del tutto leciti, gli autori del reato in suo danno.
Una tale possibilita' non puo', invero, essere negata al privato;  il fatto che parte lesa del reato fosse un agente di pubblica sicurezza non muta ovviamente il quadro della situazione, dal momento che il M. non ha compiuto nessun atto di indagine specifico, ma si e' limitato a compiere delle considerazioni e delle conseguenti deduzioni e ad esternare i suoi sospetti ai colleghi e, quindi, anche al futuro imputato.
Naturalmente nella valutazione e nella valorizzazione di alcuni elementi il M. e' stato favorito dal fatto di essere un  agente di pubblica sicurezza professionalmente attrezzato, ma avvalersi delle proprie capacita' professionali anche per risolvere un problema personale non puo' certo essere oggetto di censura.
Non e', pertanto, ravvisabile la illegittimita' delle presunte indagini svolte.
Resta infine il problema che sia il M. che la A. abbiano relazionato in merito all'accaduto al loro superiore con una relazione di servizio. Ma anche tale circostanza non merita particolare attenzione e non appare, comunque, censurabile.
In effetti il fatto - il furto del bancomat - si era verificato in caserma ed i sospetti del M. si erano appuntati su un collega; correttamente, quindi, anche per gli evidenti profili  disciplinari, l'agente M. riferi' i fatti al suo superiore, assolvendo in tal modo anche all'obbligo di denuncia dal momento che quest'ultimo aveva l'obbligo di riferire all'Autorita' Giudiziaria.
Nello stesso modo e per le stesse ragioni si comporto' l'agente di pubblica sicurezza A.; anche il suo comportamento non  appare percio' censurabile.
La A. non stava in effetti compiendo alcuna indagine in danno di qualcuno, sia perche' da nessuno le era stata delegata, sia perche' al momento non vi era alcun indiziato o imputato per il furto subito dal M. e si limito' a riferire che il C. le  aveva chiesto un prestito proprio nel giorno in cui venne rinvenuta in caserma una busta indirizzata al M. contenente le
cinquecentomila lire prelevate abusivamente con il bancomat sottratto e che il suddetto C. aveva parzialmente e spontaneamente ammesso di avere sottratto la tessera bancomat al M..
In base alle osservazioni che precedono si deve escludere che siano ravvisabili le violazioni di legge dedotte con la conseguente inutilizzabilita' delle c.d. relazioni di servizio.
Ne consegue che non e' ravvisabile nemmeno la illogicita' manifesta della motivazione della sentenza impugnata che si fonda su tali atti, considerando, peraltro, che i giudici di merito non si sono fondati sulle dichiarazioni autoindizianti del C., ritenute, forse nemmeno fondatamente per quel che si e' detto, non utilizzabili, ma sugli altri elementi processuali emersi e rigorosamente e puntualmente esposti.
Per le ragioni indicate il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente condannato a pagare le spese del procedimento.
 
 P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento.
Cosi' deciso in Roma il 23 marzo 2005.
Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2005
 
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