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La non opposizione della persona offesa alla declaratoria di particolare tenuità del fatto risponde all'esigenza di garantire un potere di intervento all'offeso, funzionale sia alla tutela del suo interesse, sia all'accertamento dei presupposti della improcedibilità dell'azione
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati
Dott. PIOLETTI Giovanni - Presidente -
Dott. RAIMONDI Raffaele - Consigliere -
Dott. BATTISTI Mariano - rel. Consigliere -
Dott. DANZA Donato - Consigliere -
Dott. COLLA Giorgio - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
1) P.D. N. IL 28/07/1956;
avverso ORDINANZA del 15/07/2002 GIUDICE DI PACE di EMPOLI;
sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. BATTISTI MARIANO;
lette le richieste del P.G. che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale e dei motivi.
RILEVATO
- che il giudice di pace di Empoli, con sentenza del 15 luglio 2002, ha affermato la responsabilità penale, condannandolo alle pene di legge, di D. P. per il reato di ingiuria, accertato in Empoli il 26 febbraio 2002: nel corso di un'udienza, in cui il Giudice di Pace, stava tentando la conciliazione delle parti in lite per questioni di vicinato, il P.aveva dato dell'imbecille a V. A.;
- che, il difensore ricorre per Cassazione riproponendo, anzitutto, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 27 e 34, comma 3, del D. Lgt. 274/2000, che il giudice di pace ha ritenuto manifestamente infondata, quanto all'art. 27, e irrilevante quanto all'art. 34, comma 3;
- che, il ricorrente eccepisce, in ordine alla norma dell'art. 27, che "la legge istitutiva delle funzioni penali del giudice di pace, nell'art. 27, è in netta controtendenza rispetto alla riforma dell'art. 111 della Costituzione, il quale, tra l'altro, ha sancito il diritto costituzionale all'informazione riservata sulla natura e motivi dell'accusa, informazione da darsi nel più breve tempo possibile", ed eccepisce, in ordine alla norma dell'art. 34, comma 3, che, prevedendo la stessa che, "se è stata esercitata l'azione penale, la particolare tenuità del fatto può essere dichiarata con sentenza solo se l'imputato e la persona offesa non si oppongono", ne consegue che "un principio nuovo come l'irrilevanza del fatto viene dal legislatore condizionato alla scelta della parte lesa anziché al giudizio del giudice";
- che, il ricorrente denuncia, poi, "illogicità della motivazione in punto di eterodirezione della frase pronunciata", deducendo che il P. aveva dichiarato che l'epiteto era rivolto alla moglie, il che sarebbe confermato anche dal fatto che l'A. non aveva affatto reagito, "violazione dell'art. 594 c.p.", deducendo che viene meno l'elemento materiale del reato una volta accertato che l'epiteto era stato indirizzato dall'imputato alla moglie e che dare a qualcuno dall'imbecille non significa ingiuriarlo, tenuto conto della derivazione linguistica del termine: imbecille da imbellis = debole;
RITENUTO
- che la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata;
- che, se la norma dell'art. 111 della Carta Costituzionale esige che, nel processo penale, la legge deve assicurare che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico, non può non rilevarsi - volendo seguire il ricorrente nella sua denuncia di illegittimità costituzionale - che l'art. 27 del D. Lgt. 28 agosto 2000, n. 274, il quale detta la disciplina del "decreto di convocazione delle parti" che il Giudice di Pace deve emettere entro venti giorni dal deposito del ricorso immediato, di cui all'art. 21, va al di là della informazione sulla natura e sui motivi dell'accusa, dovendo il decreto contenere, tra l'altro, in applicazione dell'art. 25, comma 2, la trascrizione dell'imputazione e dovendo essere notificato, a cura del ricorrente, al Pubblico Ministero, alla persona citata in giudizio e al suo difensore, unitamente al ricorso, il quale, come dispone l'art. 21, comma 2, deve contenere anche "l'indicazione delle fonti di prova a sostegno della richiesta, nonché delle circostanze su cui deve vertere l'esame dei testimoni e dei consulenti tecnici";
- che, quindi, la norma dell'art. 27 "informa" molto di più di quanto non lo faccia l'informazione richiesta dall'art. 111 della Carta Costituzionale, prevedendo, come lo prevede la norma dell'art. 20 che contempla la citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria, che, come si è appena visto, debbono essere precisati i termini dell'accusa ed esigendo la indicazione della data dell'udienza, da fissarsi non oltre novanta giorni dal deposito del ricorso, in cui l'imputato avrà la più ampia possibilità di difendersi;
- che, del resto, è di chiara evidenza che la norma dell'art. 111 si riferisce ai procedimenti che richiedano indagini delle quali l'indagato potrebbe ignorare a lungo l'esistenza, mentre è suo innegabile interesse venirne a conoscenza nel più breve tempo possibile - espressione nella quale l'aggettivo possibile sta, peraltro, ad indicare che occorre necessariamente bilanciare le esigenze del diritto di difesa con le esigenza dal processo - per poter intervenire e difendersi;
- che, quanto alla norma dell'art. 34, comma 3, se può discutersi se nel ricorso immediato al giudice, di cui all'art. 21 del decreto 274/2000, debba, come ritengono alcuni, o non debba, come ritengono altri, ravvisarsi un'azione penale privata (non deve, comunque, dimenticarsi, sul punto, che la Corte costituzionale ha più volte ribadito che la previsione di azioni penali sussidiarie o concorrenti rispetto a quella obbligatoria affidata al pubblico ministero non si pone in contrasto con il principio stabilito dall'art. 112 Costit.), non sembra, però, possa revocarsi in dubbio che, come si è osservato in dottrina, il legislatore, nel prevedere la competenza penale del giudice di pace, ha colmato, "sebbene entro i confini di una giustizia 'minore', il ritardo dell'ordinamento nella previsione di adeguati strumenti processuali a tutela della vittima del reato in quanto tale, ossia a prescindere dall'eventuale posizione di danneggiato, figura, questa, pressoché negletta dal codice del 1930, nel quale la partecipazione alla vicenda processuale della persona offesa era soprattutto legata al suo possibile contributo come testimone e rimasta esclusa anche nell'attuale di ruolo di 'parte', nonostante le vengano riconosciuti maggiori poteri di impulso e controllo sull'attività del P.M. preordinata all'esercizio dell'azione penale";
- che, la previsione, una volta esercitata l'azione penale, della non opposizione della persona offesa alla declaratoria di particolare tenuità del fatto rappresenta, secondo quanto è stato osservato in dottrina, anzitutto, "uno dei punti salienti dell'istituto introdotto con l'articolo 34" e "risulta, poi, assolutamente innovativa rispetto alla formula di improcedibilità per irrilevanza del fatto proposta con l'art. 12 d.d.l. C. 4625, mostrando l'accoglimento, da parte del legislatore delegato, tanto delle istanze giunte negli ultimi anni dalla riflessione giuridica, quanto dal modello di giustizia 'conciliativa che sempre più di frequente le realtà straniere propongono";
- che, per quel che riguarda la riflessione giuridica non è inopportuno sottolineare che, come ha ricordato la dottrina appena citata, "gli studiosi del processo penale, in un loro convegno di alcuni anni prima dell'entrata in vigore del D. L.gt. 274/2000, "nell'ipotizzare la costruzione dall''irrilevanzà come una condiziona di procedibilità, affermavano che 'nell'ambito del procedimento di controllo occorrerebbe assicurare un potere di intervento all'offeso, anche piu' ampio di quello attribuitogli nell'ordinario meccanismo di archiviazione, esigenza necessaria non solo a fini di garanzia, ma anche a fini di accertamento, che nel quadro di una valutazione sull'irrilevanza del fatto il contributo del soggetto passivo è irrinunciabile sotto entrambi i profilì";
- che, da queste affermazioni si deduce, quindi, che il dissenso della persona offesa, uno dei protagonisti, del processo, è funzionale ad una ulteriore riflessione del giudice sulla particolare tenuità del fatto, non "potendosi escludere a priori l'idoneità della opposizione della persona offesa a garantire quel bilanciamento tra i diversi interessi coinvolti - l'esigenza deflattiva, per un verso, e, per altro verso, il rischio di un'impunità diffusa per i reati della criminalità quotidiana - nella vicenda giudiziaria, che si rende più impellente con la trasmigrazione del concetto di 'irrilevanza del fatto da un procedimento in cui l'interesse del minore è assolutamente predominante ad una realtà in cui le istanze da soppesare appaiono più nette";
- che, peraltro, la persona offesa, se si oppone, in un certo momento, alla declaratoria di particolare tenuità del fatto, può ritornare successivamente sulla propria decisione e, anche alla luce delle prove assunte, consentire a quella declaratoria; così come può, nel caso in cui la conciliazione, il cui tentativo è richiesto dall'art. 29, comma 4, non sia intervenuta per fatto proprio, ritornare sulla precedente decisione e dichiararsi, disposta alla conciliazione, cui soprattutto tende il processo penale che si celebra dinanzi al giudice di pace,
- che, per fugare i dubbi, che potrebbero essere legittimati da alcune espressioni dell'ordinanza del Giudice di Pace - l'affermata irrilevanza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 3, "attesa la non applicabilità della norma di cui all'art. 34 alla fattispecie", - deve ritenersi che l'istituto disciplinato nell'art. 34 del D. Lgt. 274/2000 è certamente applicabile anche quando si proceda con il rito del ricorso immediato al giudice, di cui agli artt. 21, e ssgg., che sarebbe, oltretutto, irragionevole considerare applicabile l'istituto nel caso sia proposta querela e si proceda alle indagini preliminari ai sensi dell'art. 11 e considerarlo, invece, inapplicabile allorché sia proposto ricorso immediato al giudice previsto per i reati procedibili a querela;
- che, pertanto, si impone la declaratoria di manifesta infondatezza delle due questioni di legittimità costituzionale, senza omettere di osservare che il ricorrente, se ha indicato la norma della Costituzione - art. 111 - rispetto alla quale ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, ha eccepito la illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 3, senza precisare, stando almeno a quanto si legge nel ricorso, il parametro costituzionale rispetto al quale la norma in esame sarebbe illegittima, parametro, peraltro, difficilmente rinvenibile alla luce delle considerazioni dianzi svolte;
- che, il primo motivo di ricorso "nel merito" contiene censure in fatto e il secondo è manifestamente infondato, avendo il giudice di merito adeguatamente motivato che l'epiteto "imbecille" era stato rivolto dal Pitimada all'Appella, sicché la prima censura, con la quale si sostiene che il Pitimada aveva rivolto l'epiteto alla moglie, si risolve in censura in fatto non proponibile in questa sede, mentre è, conseguentemente, manifestamente infondata la seconda censura, di violazione dell'art. 594 per mancanza dell'elemento materiale del reato, basata sull'assunto, del tutto privo di pregio, che destinatario di quell'epiteto era la moglie dell'imputato, così come è manifestamente infondata la terza censura di "violazione dell'art. 594 c.p." - mossa sul presupposto dell'assenza dell'ingiuria nell'epiteto rivolto dal Pitimada all'Appella - avendo i giudici di merito adeguatamente motivato anche sul punto;
- che, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
P.Q.M.
Dichiara manifestamente infondata la proposta questione di legittimità costituzionale;
dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, e della somma di euro 1000,00 in favore dalla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 26 giugno 2003.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2004.
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