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L'art. 707 c.p. tra offensività in astratto ed in concreto
Massima
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 707 c.p. per contrasto con gli artt. 3, 13, 24, 25 comma 2, 27 Cost. poiché l’insieme degli elementi costitutivi descritti dalla norma impugnata rivelano che essa è volta a tutelare, sotto forma di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio di offensività in astratto. Rimane tuttavia aperta la possibilità che si verifichino nella realtà casi in cui alla conformità del fatto al modello legale non corrisponda l’effettiva messa in pericolo dell’interesse tutelato. In questa evenienza sarà il giudice del fatto, valutando le circostanze e le modalità di tempo e di luogo che accompagnano la condotta e desumendo da queste l’attualità e la concretezza del pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio, ad operare in modo scrupoloso lo scrutinio circa la sussistenza del requisito dell’offensività in concreto[1].
La sentenza della Corte costituzionale n. 265 del 2005, avente ad oggetto il vaglio di legittimità della contravvenzione contemplata nell’art. 707 del c.p., rubricata “Possesso ingiustificato di chiavi alterate e grimaldelli”, riafferma quanto già enunciato in passato dal medesimo consesso in tema di offensività.
All’esito della disamina, affidata al redattore Guido Neppi Modona, noto sostenitore della c.d. concezione realistica del reato [2], l’art. 707 si salva ancora una volta [3] dalle censure di illegittimità in cui era invece caduto inesorabilmente il reato contiguo, “Possesso ingiustificato di valori” (art. 708 c.p., dichiarato illegittimo per contrasto con gli artt. 3 e 25, comma 2 Cost. nella sentenza n. 370 del 1996) [4]. All’interno del codice penale, nel medesimo paragrafo della sezione del libro dedicato alle contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, altre norme erano state depenalizzate (art. 705 attraverso l’art. 56 del d.lgs. 30 dicembre 1999 n. 507) o addirittura abrogate (art. 706 c.p. attraverso l’art. 13, comma 1, d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480 e 710 e 711 per opera dell’art. 18 l. 25 giugno 1999, n. 205). Ciò rivela come fosse già emersa la preoccupazione che tale gruppo di norme si presentasse quanto meno incongruo rispetto ai sopraggiunti principi costituzionali.
Circa le censure relative all’art. 707 c.p., le due ordinanze di rimessione, emesse dal Tribunale di Viterbo, lamentano la lesione di due principi ritenuti di matrice costituzionale, da un lato quello di materialità e dall’altro quello di offensività del reato, riconducibili all’art. 25, comma 2, 27 e 13 della Cost. [5]. Le contravvenzioni di cui agli artt. 707 e 708 c.p., infatti, concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, vengono comunemente annoverate tra i reati di sospetto, per la mancanza di una condotta commissiva od omissiva, poiché in esse appare incriminato un mero stato individuale assunto come sospetto, senza che se ne possa percepire la materialità in modo congruo [6]. Tuttavia, per ciò che attiene alla censura sul principio di materialità del reato, già affrontata in altra pronuncia del giudice delle leggi [7], la sentenza che si annota ribadisce che la contravvenzione di cui all’art. 707 c.p. non incrimina, come paventato nell’ordinanza di rimessione, una mera condotta esteriore, uno stato soggettivo privo della necessaria carica lesiva, bensì una condotta debitamente connotata da materialità, in quanto il possesso concreta di per sé una condotta, o comunque fa séguito ad una condotta consapevole, tanto ciò vero che il reato non sarebbe riscontrabile qualora il possesso non fosse doloso [8].
Superato il profilo attinente il contrasto con il principio di materialità del reato, la Corte delle leggi affronta (superandola) la censura del giudice a quo, secondo il quale l’art. 707 c.p. incrimina la mera violazione di un dovere di obbedienza, configurandosi quindi come un mero reato d’autore, a carico di chi abbia in precedenza riportato condanne per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, prescindendosi, di conseguenza, dalla necessità del riscontro di un comportamento lesivo o quanto meno pericoloso per l’interesse penalmente rilevante. Sotto questo aspetto, la presunzione di pericolosità, fondata solo sulla qualifica soggettiva di condannato per determinati delitti, genera anche il dubbio di un’illegittima disparità di trattamento con altri soggetti, possibili autori di reati anche più gravi.
Al profilo della discriminazione la Corte non era stata insensibile nella pronuncia del 1996, ove tuttavia veniva precisata l’irragionevolezza della differenziazione nei confronti d'una categoria di soggetti (composta da pregiudicati per reati di varia natura o entità contro il patrimonio, a volte assai risalenti nel tempo) colti in possesso di denaro o di oggetti di valore o di altre cose non confacenti al loro stato, perchè tale riferimento “si palesa indeterminato per la genericità del disposto normativo e non più adeguato a perseguire i fenomeni degli arricchimenti illeciti quali risultano dall'osservazione della realtà criminale di questi ultimi decenni”. Si trattava, quindi, di un giudizio che teneva nel debito conto il bene giuridico protetto dalla norma dell’art. 708 c.p., dichiarata illegittima, e pertanto legittimava la sopravvivenza del contiguo art. 707, perché relativo alla detenzione di altri oggetti (le chiavi alterate o contraffatte, le chiavi genuine, gli strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature), in ordine ai quali, affermava la Corte, “sarebbe pleonastica la mancata giustificazione della loro attuale destinazione” [9].
Con riguardo all’art. 707 c.p., la sentenza che qui si commenta osserva, infatti, che proprio la sommatoria dei due elementi, il possesso degli oggetti e la qualità soggettiva, sono sufficienti a disegnare una fattispecie che tutela un interesse penalmente rilevante, anche nei confronti di un pericolo astratto, senza che sia posto in discussione il rispetto del principio di offensività nel disegno della struttura della fattispecie.
La soluzione della Corte costituzionale circa l’infondatezza della questione di legittimità dell’art 707 c.p. transita attraverso la distinzione teorica, ormai consolidata in dottrina e giurisprudenza, tra il profilo astratto e il profilo concreto del principio di offensività [10].
Proprio la c.d. costituzionalizzazione del principio di offensività [11], avvenuta dogmaticamente attraverso l’ancoraggio agli artt. 13, 25, comma 2 e 27, comma 3, ha permesso di pervenire a questa separazione dei piani di operatività, nel senso che una fattispecie debba essere costruita in modo da contemplare già in astratto la possibilità di offesa all’interesse tutelato; ma quando ciò è comprovato, rimane ancora possibile verificare se in concreto il fatto risulti privo di contenuto lesivo nei confronti del bene-interesse tutelato dalla norma incriminatrice [12]. In sostanza il primo profilo si caratterizza come criterio costituzionale di conformazione legislativa degli illeciti punibili con sanzione penale, cosicché una norma non rispettosa del principio di offensività sarebbe da considerarsi illegittima [13]; il secondo, invece, si caratterizza come canone interpretativo, utilizzabile dal giudice di merito in sede di applicazione della norma. Questa seconda accezione del principio di offensività consente in un certo qual modo di esonerare il giudice delle leggi dalla pronuncia di illegittimità sulla fattispecie astratta [14] e di deferire al giudice ordinario l’applicazione della norma incriminatrice contestata, secondo quella interpretazione [15], che sia tale da escludere la contrarietà alla Costituzione [16].
Lo strumento normativo che si presta alla funzione di adeguare la fattispecie incriminatrice al canone di offensività, secondo le acquisizioni della concezione realistica del reato, è rappresentato dall’art. 49, comma 2, che, nella parte in cui esclude la punibilità quando per «inidoneità dell’azione» è «impossibile l’evento dannoso o pericoloso», conferma il possibile scarto tra conformità al tipo di reato ed offesa, che è un rischio che si corre proprio a causa del processo di astrazione cui il legislatore è costretto nella fabbricazione delle norme [17]. Il rispetto del principio di offensività in concreto impone, quindi, allo stesso giudice del fatto di astenersi dal punire quei fatti che, seppure tipici rispetto alla fattispecie, così come interpretata alla luce della Carta costituzionale, si rivelino in concreto inoffensivi [18].
Va osservato, comunque, che il giudice del fatto ha a che fare con il principio di offensività in due momenti: il primo ricorre quando valuta l’interesse tutelato dalla norma, alla stregua di canoni normativi rigorosi, per identificare l’oggettività giuridica, attualizzata alla luce della Costituzione, e le modalità lesive contemplate nella tipicità. In tale fase, ove si riscontri una antitesi ai valori costituzionali, non solo per l’esiguità del bene-interesse tutelato, ma anche per le incongrue modalità di tutela disegnate dalla norma, non è possibile altra strada che non sia quella della questione di legittimità costituzionale. Solo in un secondo momento, e solo se viene accertata la conformità ai valori dell’ordinamento, il giudice potrà passare alla valutazione del fatto concreto in termini di inoffensività, qualora permanga quello scarto tra conformità al tipo legale ed effettiva lesività di cui si è parlato sopra [19]. Le due fasi devono restare in perfetto equilibrio, mentre non si potrebbe operare sul piano concreto per coprire deficienze del piano astratto.
Il principio di offensività come canone astratto si esplica come vincolo effettivo per le scelte del legislatore ordinario, costretto a limitare la sanzione penale ai soli comportamenti che ledono o pongono concretamente in pericolo un bene giuridico costituzionalmente significativo. Ciò si ripercuote essenzialmente su due momenti della legislazione: da un lato il momento prettamente politico di selezione dei beni tutelabili con la sanzione, dall’altro il momento prettamente tecnico, di selezione delle modalità di tutela, che appunto devono essenzialmente contemplare il danno o il pericolo concreto tra i requisiti di fattispecie [20].
Il principio di offensività rappresenta un connotato essenziale del diritto penale inteso come extrema ratio di tutela di beni giuridici fondamentali, di quelli, cioè, la cui protezione consenta il pacifico vivere civile e la cui lesione giustifichi la sanzione della limitazione della libertà personale, come diritto inviolabile dell’uomo [21]. Il mantenimento di questo essenziale canone di garanzia e di civiltà giuridica è rimesso alle scelte politiche legislative e dovrebbe auspicarsi un aggiornamento di certe fattispecie di parte speciale, come quella oggetto della pronunzia in commento, in aderenza ai dettami del principio di offensività in astratto.
Questo importante compito non dovrebbe essere delegato ad altri soggetti, seppure autorevolissimi, come il Supremo consesso costituzionale, spesso chiamato a interpretare norme ordinarie di dubbio contenuto lesivo alla luce dei valori costituzionali; tanto meno può colmare le lacune strutturali, attraverso l’operazione di sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta, il giudice di merito, spesso costretto a cimentarsi in delicate operazioni di chirurgia interpretativa per supplire a deficienze di sistema che si presentano in taluni casi macroscopiche.
- Rossana Taverna- dicembre 2005
Dottoranda di Ricerca
presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università degli Studi del Molise
(riproduzione riservata)
[2] Tra le opere dell’Autore v. Il reato impossibile, Milano, 1965; Reato impossibile, (voce) Nov. Dig. It., vol. XIV, 1967, 974 e ss.; Reato impossibile, (voce) Dig. disc. pen., vol. XI, 1996, 259 e ss.; Concezione realistica del reato e condizioni obiettive di punibilità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1971, 184 e ss.. Per la concezione realistica del reato C. Fiore, Il reato impossibile, Napoli, 1959, 41; M. Gallo, Dolo, (voce) Enc. Dir., XIII, 1964, 786 ss.; F. Bricola, Teoria generale del reato, (voce) Nov. Dig. It., 1973, in partic. 68 e ss.
[3] Analoghe questioni di legittimità sono state dichiarate infondate dalla Corte cost., come ricordato nella memoria dell’Avvocatura dello Stato (sentenze n. 14 del 1971 e n. 236 del 1975). Altre pronunce della Corte delle leggi sull’art. 707 c.p. sono l’ordinanza n. 146 del 1977, che dichiaramanifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 707 c.p. perché riproposta negli stessi termini di quella già dichiarata infondata con sent. n. 236 del 1975; l’ord. n. 270 del 1984, ove viene dichiarata la manifesta infondatezza in riferimento all'art. 3 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell'art. 707 c.p., nella parte in cui prevede un trattamento sanzionatorio più grave di quello previsto per fattispecie delittuose, quale il furto e il danneggiamento, alla cui prevenzione la norma è predisposta; ciò perchè la determinazione della qualità e misura della pena può essere censurata solo quando non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza e l'ipotesi non ricorre nella specie, dal momento che la contravvenzione di cui all'art. 707 deve ritenersi non sanzionata incongruamente, in considerazione anche dei particolari presupposti soggettivi che richiede; l’ord. n. 165 del 1997, di manifesta infondatezza della questione, già dichiarata non fondata con la sentenza n. 370 del 1996, sollevata con riguardo alla previsione di un minimo edittale di sei mesi, anzichè di cinque giorni di arresto, secondo la previsione generale dell'art. 25 c.p., rispetto alla quale norma si lamentava l’eccessiva afflittività, anche con riferimento alla pena stabilita per il furto consumato, deducendosi la lesione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché la violazione del principio della finalità rieducativa della pena; in quest’ultima pronuncia si afferma che “rientra, comunque, nella discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità o qualità della sanzione, purché si osservi il limite della ragionevolezza, non violata, nel caso di specie, per la diversità delle situazioni comparate”. Per la sopra citata sentenza n. 370 del 1996 v. nota successiva.
[4] Si veda in Foro it., 1997, I, 1695, con nota di L. Tramontano, L’ “irragionevole indeterminatezza” della norma penale non più al passo coi tempi: dichiarato incostituzionale l'art. 708 cod. pen., e anche in Corr. giur., 1997, 405 e ss., con nota di A. Lanzi, I reati di sospetto e la loro vicenda costituzionale. Afferma in motivazione la Corte che la “crescita della ricchezza mobiliare, la sua circolazione in ambito internazionale e l’uso dello schermo societario per il suo controllo” rendono la previsione contenuta nell’art. 708, definita “strumento ottocentesco di difesa sociale”, del tutto “inadeguata a contrastare le nuove dimensioni della criminalità, non più rapportabile necessariamente ad uno stato o a una condizione sociale”.
[5] Interessante anche il profilo del diritto di difesa, con particolare riguardo all’inversione dell’onere della prova, di cui la sentenza in commento non si occupa, pur essendo stato richiamato dal giudice a quo. Per una disamina di tale aspetto si veda Corte cost. n. 14 del 1971, in Foro it., 1971, I, 534: la prova sarebbe posta a carico dell'imputato, in contrasto con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in ordine all'attuale destinazione di quanto ingiustificatamente posseduto, tuttavia la pronuncia rileva, come già affermato nella sentenza n. 110 del 1968 (di parziale illegittimità dell’art. 708 c.p.), che “è da escludere che le norme denunziate, nel richiedere al prevenuto la giustificazione dell'attuale destinazione delle chiavi oppure degli strumenti atti ad aprire o forzare serrature e, rispettivamente, della provenienza del denaro [art. 708 ndr] o degli oggetti non confacenti al suo stato, esigano la prova della legittimità della destinazione e della provenienza, limitandosi, invece, a pretenderne una attendibile e circostanziata spiegazione, da valutarsi in concreto nelle singole fattispecie, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento, i quali, ovviamente, si atteggeranno in modo diverso a seconda che si tratti di strumenti di uso comune inerenti all'attività professionale del prevenuto oppure di ordigni di utilizzazione non ordinaria, di somme ingenti o di cose pregiate e rare oppure di somme modeste o di cose correnti”. Conforme Cass. pen., sez. VI, 20 novembre 1964, ove si afferma che la giustificazione è un mezzo di difesa offerto dalla legge al quale l’interessato può liberamente rinunciare, qualora ritenga che, ai fini difensivi, sia preferibile il silenzio; in tal caso spetta al giudice valutare aliunde il fatto. Non sussiste pertanto un problema di inversione dell’onere della prova. Sul presunto contrasto degli artt. 707 e 708 c.p. con l’art. 24 Cost. anche Corte cost. 370 del 1996.
[6] Ha coniato l’espressione “reati di sospetto” Manzini nel 1920, riportata in Trattato di diritto penale italiano, Torino, I, 460 e ss.. Si veda anche Bellavista, I reati senza azione, 27 e ss., ove si parla di reati di posizione caratterizzati da un’essenza statica.
[7] Così la già citata Corte cost. 2 febbraio 1971, n. 14, v. supra.
[8] In dottrina, alla luce dell’ordinamento oggi vigente, si considera inconcepibile un reato privo di condotta, e si ritiene pertanto che nella fattispecie di cui all’art. 707 c.p. la condotta risieda nel possedere con coscienza e volontà e comunque nel venire in possesso delle cose. Tra gli altri, M. Gallo, Dolo (dir. pen.), cit., 754, ove si afferma, inoltre, che la struttura dei reati c.d. di sospetto è sempre duplice, prima commissiva (possesso cosciente), poi omissiva (mancanza di giustificazione su destinazione e provenienza delle cose).
[9] “Ciò, ovviamente, se ben s'intende sia il riferimento agli strumenti atti allo scasso (in relazione alle caratteristiche medie delle serrature o delle difese adottate), sia il presupposto soggettivo con riguardo ad altra commissione di fatti specifici”.
[10] Così G. Fiandaca, Offensività e teoria del bene giuridico, in AA.VV., Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, a cura di A. Stile, Napoli, 1991, 67: “conformemente al duplice piano di operatività del principio di offensività, cioè «legislativo» e «giudiziario e interpretativo»”. Sulla duplice accezione, lo stesso G. Fiandaca, L’offensività è un principio codificabile?, in Foro it., 2001, parte V, col. 3.
[11] Per l’elaborazione di tale teoria v. F. Bricola, Teoria, cit., spec. 81 e ss., C. Fiore, Il principio di offensività, in Ind. Pen., 1994, 277. Per una sintesi efficace anche G. De Vero, Corso di diritto penale, Torino, 2004, 120 e ss.
[12] In tal senso lo stesso G. Neppi-Modona, Il reato impossibile, Dig. disc. pen., cit., 271.
[13] Per una adesione autorevole alla descrizione del principio così esposto si veda anche Corte cost. n. 354 del 2002, che accoglie la questione di legittimità costituzionale dell’art. 688, comma 2, in Giur. cost., 2002, 2653 e ss., con nota di Silvani, Definitivamente estromessa dal sistema penale l’ubriachezza manifesta.
[14] Denuncia un atteggiamento restrittivo circa le pronunce di illegittimità per inoffensività della fattispecie G. Riccardi, I “confini mobili” del principio di offensività, in Ind. Pen., 1999, in partic. 729. Osserva che l’offensività come canone interpretativo è recepita strumentalmente dalla Corte costituzionale come mezzo teorico per evitare il controllo di costituzionalità F. Palazzo, Offensività e ragionevolezza nel controllo di costituzionalità sul contenuto delle leggi penali, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, 355.
[15] In molti casi tale interpretazione risulta orientata proprio attraverso sentenze interpretative di rigetto della Corte cost. resta tuttavia aperto il problema della mancanza di vincolatività per il giudice di questo tipo di pronunce, e del possibile contrasto che potrebbe verificarsi tra i supremi consessi giurisdizionali. Si veda in tal senso Cass., SS.UU. penali, sentenza 17.05.2004, n° 23016, ove si ribadisce che le decisioni interpretative di rigetto della Corte costituzionale non hanno efficacia erga omnes, a differenza di quelle dichiarative dell’illegittimità costituzionale di norme, e pertanto determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione. In tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge a norma dell’articolo 101, comma 2, Costituzione purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, ancorché differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto. Non v’è chi non veda che anche sulla interpretazione dell’art. 707 c.p. in senso “offensivo” potrebbe riproporsi il dubbio in successivi procedimenti, come del resto già accaduto in passato.
[16] Per l’accezione del principio di offensività in concreto si veda, tra le altre, Corte cost. n. 62 del 1986, in Giur. cost., 1986, I, 408 e ss., anche in Foro it., 1986, I, 2380-2385 e in Cass. pen., 1986, 1702 e ss., con nota di F. Palazzo, Ragionevolezza delle previsioni sanzionatorie e disciplina delle armi e degli esplosivi. Per salvare l’art. 2 l. n. 895/1967 la Corte sentenzia che “spetta al giudice, dopo aver ricavato dal sistema tutto, e dalla norma particolare interpretata, il bene o i beni tutelati attraverso l’incriminazione d’una determinata fattispecie tipica, determinare in concreto [il quantitativo minimo di esplosivo, ndr] che, non raggiungendo la soglia dell’offensività dei beni in discussione, è fuori dal penalmente rilevante”. L’A. della nota afferma tuttavia che “al principio di offensività non è comunque possibile chiedere più di quanto esso sia in grado di dare […] laddove la fattispecie sia già in astratto costruita senza offesa, non c’è spazio per il principio di offensività in sede giurisdizionale-applicativa”.
[17] Così A. Valenti, Principi di materialità e offensività, in AA. VV., Introduzione al sistema penale, Torino, 2000, vol. I, 265.
[18] Lapalissiane le parole di F. Bricola, Teoria generale del reato, cit., 77: “il tipo, per sua stessa natura, e per quanto tassativo a’ sensi dell’art. 25, 2° comma Cost., non è mai tale da scontare tutte le varianti del caso concreto le quali possono rendere i singoli elementi nel contesto della fattispecie concretamente inoffensivi. Ad ulteriore conferma della possibile disfunzione tra conformità al tipo ed «offesa» va aggiunto il fatto che l’interesse, quale si dedurrebbe dalla «intiera struttura della fattispecie», è pur sempre l’interesse nella sua accezione statica senza quella sua specifica dimensione sociale concreta che esso assume in sede di valutazione di «lesività»”.
[19] Per una disamina di tale sfera operativa v. G. Neppi-Modona, Il reato impossibile, Dig. disc. pen., cit., 272.
[20] Una disamina degli orientamenti dottrinali si trova in C. Fiore, Il principio di offensività, cit., 275 e ss.
[21] Ex plurimis, G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2001, 4 e ss.; C. Fiore - S. Fiore, Diritto penale, Parte generale, vol. I, Torino, 2004, 6 e ss.; F. Mantovani, Diritto penale, Padova, 1992, 226 e ss.; G. Marinucci – E. Dolcini, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2004, 6.
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