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Penale.it - Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 17 novembre 2005 (dep. 5 dicembre 2005), n. 44295/2005 (n. 2230/2005)

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Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 17 novembre 2005 (dep. 5 dicembre 2005), n. 44295/2005 (n. 2230/2005)
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Odio razziale: l'espressione "sporche negre" non configura, necessariamente, l'aggravante di cui all'art. 3, comma 1, d.l. 122/93

  REPUBBLICA ITALIANA
  IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
  LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
  SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: 
Dott. CALABRESE Renato Luigi - Presidente
Dott. PIZZUTI Giuseppe - Consigliere
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere
Dott. SANDRELLI Giangiacomo - Consigliere
Dott. DUBOLINO Pietro - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
  SENTENZA
sul ricorso proposto da P.D., nato il ... avverso la sentenza del 13/01/2005 della Corte d'Appello di Trieste;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere  Dott. DUBOLINO PIETRO;
sentito il P.G. Dott. GIALANELLA Antonio, il quale ha chiesto l'annullamento senza rinvio limitatamente al reato di  ingiurie, con eliminazione della relativa pena di gg. 15 di reclusione.
Sentito, per il ricorrente, l'Avv. B., il quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso.
  RILEVATO IN FATTO
- Che con l'impugnata sentenza, in conferma di quella di primo grado pronunciata dal Tribunale di Trieste il 5 dicembre 2001, P.D. venne ritenuto responsabile di rissa aggravata (art. 588 c.p., comma 2), lesioni volontarie aggravate (artt. 582 e 585 c.p., art. 576 c.p., n. 1, e art. 61 c.p., n. 2) ed ingiurie aggravate (art. 594 cod. pen. e del D.L. 26 aprile 1993 n. 122, art. 3, comma  1, conv. con modif. in L. 25 giugno 1993 n. 205);
- che, per quanto riguarda il reato di ingiurie aggravate, esso era consistito, secondo l'accusa, nell'avere l'imputato  proferito all'indirizzo di alcune straniere di origine colombiana espressioni quali: "sporche negre" cosa fanno queste negre qua; il che, ad avviso della Corte d'Appello, dava luogo alla configurabilita' della contestata aggravante giacche' - si afferma - "l'obiettivo era la specifica indicazione dell'etnia di appartenenza delle ragazze e la loro condizione di emigrate di colore che le privava del diritto di rimanere in Italia e la frase adoperata denota chiaramente che l'aggressione fu motivata da intolleranza e risentimento razziale"; concetto, questo ribadito con l'ulteriore affermazione che il reiterato uso dell'espressione "negre" aveva "evidenziato il reale pensiero degli aggressori, mosso da finalita' di odio razziale e/o etnico";
- che avverso la sentenza d'appello ha proposto ricorso per cassazione la difesa del P., denunciando violazione e falsa
applicazione del D.L. n. 122 del 1993, art. 3, sull'assunto, in sintesi, che la corte di merito avrebbe apoditticamente ritenuto la sussistenza della contestata aggravante del reato di ingiuria (che altrimenti sarebbe stato non perseguibile per difetto di querela), senza verificare se l'imputato avesse realmente agito al fine di indurre altri a comportamenti  discriminatori basati sull'odio razziale, come, in realta', sarebbe richiesto per la configurabilita' di detta aggravante.
  CONSIDERATO IN DIRITTO
- che il D.L. n. 122 del 1993, art. 3, comma 1, conv. con modif. in L. n.205 del 1993, nel prevedere come circostanza aggravante, per quanto qui rileva, quella che il fatto sia stato commesso "per finalita' di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso", mostra chiaramente come il legislatore abbia in questo caso attribuito  rilevanza all'odio non in quanto semplice movente dell'azione ma appunto in quanto costituente finalita' esterna della
medesima, posta in rapporto di equivalenza con quella della discriminazione, giacche', altrimenti, avrebbe adoperato
l'espressione "motivi", indicativa non delle finalita' ma delle pulsioni interne dell'agente, cosi' come appare, ad  esempio, nella formulazione dell'art. 61 cod. pen., n. 1, e, addirittura, in quella della L. 13 ottobre 1975 n. 654, art. 3, comma 1, lett. b), quale riformulato proprio dal D.L. n. 122 del 1993, art. 1, in cui si prevede come reato quello di chi "commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi"; differenziazione, quest'ultima, che non puo' certo ritenersi, per il rispetto dovuto al legislatore, come derivante dal caso, per cui non puo', l'interprete, non trame le dovute conseguenze, nell'osservanza del primo e fondamentale dei  criteri ermeneutici (quello basato sul "significato proprio delle parole") dettati dall'art. 12, comma 1, preleggi;
- che, pertanto, ai fini della configurabilita' dell'aggravante in questione, non puo' considerarsi sufficiente che l'odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, piu' o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato  dall'interno l'azione delittuosa, occorrendo invece che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all'esterno ed a suscitare in altri il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori per ragioni di razza, nazionalita', etnia o religione;  principio, questo, da considerarsi tanto piu' valido in quanto, anche con riferimento al reato di cui al citato L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. b), questa Corte, sez. 3^ penale, in un passaggio motivazionale della sentenza 10 gennaio - 26 febbraio 2002 n. 7421, Orru' ed altri, ha puntualizzato che, ai fini della verifica circa la sussistenza o meno di detto reato, occorre che il giudice valuti la condotta posta in essere dall'agente "nel suo contenuto non solo oggettivo, ma anche soggettivo, cercando di enucleare la finalita' ispiratrice della condotta medesima";
- che, oltre a cio', occorre altresi' tener presente che l'espressione "odio", adoperata dal legislatore, ha un suo ben preciso significato, indicativo di un sentimento estremo di avversione implicante il desiderio del maggior male possibile per chi ne  forma oggetto; ragion per cui non puo', l'interprete, qualificare "sic et simpliciter", come "odio" qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, sol perche' riconducibile a motivazioni (per quanto censurabili esse possano essere ritenute), attinenti alla razza, alla nazionalita', all'etnia o alla religione, dovendo invece verificare, sulla base di elementi per quanto possibile obiettivi, se si sia o meno in presenza di vero e proprio "odio" nel senso dianzi indicato;
- che, infine, anche per quanto riguarda la nozione di "discriminazione", essa, ai fini che qui interessano, non puo' essere intesa come  riferibile a qualsivoglia condotta che sia o possa apparire contrastante con un ideale di assoluta e  perfetta integrazione, non solo nei diritti ma anche nella pratica dei rapporti quotidiani, fra soggetti di diversa razza, etnia, nazionalita' o religione, ma deve essere tratta esclusivamente dalla definizione che si rinviene nell'art. 1 della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la L. n. 654 del 1975, secondo cui (nel testo  italiano), "l'espressione discriminazione razziale sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza  basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine etnica, che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parita', dei diritti dell'uomo e delle liberta'
fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica"; definizione,  questa, che risulta poi ripresa, pressoche' alla lettera, dal D.Lgs. 25 giugno 1998 n. 286, art. 43, comma 1, (T.U. sull'immigrazione) e successive modificazioni, il quale fa ad essa seguire, al comma 2, una serie di esemplificazioni che alla stessa definizione comunque si attagliano, senza in alcun modo modificarne il contenuto;
- che, nella specie, non puo' dirsi che ai suddetti principi si sia ispirato il giudice di merito, avendo esso ritenuto, come si rileva dal passo motivazionale sopra riportato in narrativa, che bastasse a rendere configurabile l'aggravante in questione il solo fatto che l'"aggressione" (termine gia' poco confacente alla natura del reato di ingiurie, cui la detta aggravante si riferiva), fosse stata "motivata da intolleranza e risentimento razziale", per quindi apoditticamente  affermare che l'uso dispregiativo del termine "negre", accompagnato da "altri epiteti ingiuriosi", avrebbe rivelato "il  reale pensiero degli aggressori, mosso da finalita' di odio razziale e/o etnico", laddove si sarebbe dovuto invece dimostrare, alla strega dei sopra illustrati criteri di interpretazione della norma, come e perche' non "il pensiero", ma la condotta ingiuriosa addebitata all'imputato fosse da ritenere consapevolmente finalizzata e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile e suscitare in altri proprio quel sentimento di odio (e non altri di diversa natura o  intensita' quali la semplice avversione, l'antipatia, il disprezzo e simili), ovvero a dar luogo al concreto pericolo di  immediati o futuri comportamenti discriminatori basati sulla differenza di razza e specificamente riconducibili alla  surriportata definizione normativa di "discriminazione";
- che, pertanto, l'impugnata sentenza non puo' che essere annullata, nel capo oggetto di ricorso, con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'Appello di Trieste la quale, in assoluta liberta' di valutazione degli elementi di  fatto acquisiti o che ritenesse di dover acquisire, dovra' tuttavia attenersi ai  principi di diritto dianzi illustrati;
  P.Q.M.
la Corte annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di ingiuria, in relazione alla contestata aggravante, con  rinvio ad altra sezione della corte d'appello di Trieste per nuovo esame.
Cosi' deciso in Roma, il 17 novembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2005
 
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