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Penale.it - Corte Costituzionale, sentenza 20 febbraio 2019 (dep. 11 aprile 2019), n. 82

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Corte Costituzionale, sentenza 20 febbraio 2019 (dep. 11 aprile 2019), n. 82
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Illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Alessandria, nel procedimento penale a carico di G. S., con ordinanza del 25 ottobre 2017, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Udito nella camera di consiglio del 20 febbraio 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Alessandria, con ordinanza del 25 ottobre 2017, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale e che forma oggetto di nuova contestazione.

1.1.– Premette il giudice rimettente che, nel corso del dibattimento, all’esito di perizia balistica, era emerso che i tre fucili oggetto della imputazione di illecita detenzione di arma comune da sparo di cui agli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre 1967, n. 895 (Disposizioni per il controllo delle armi), contestata al capo b), – all’imputato era stata contestata anche una contravvenzione in materia di rifiuti, rubricata sotto il capo a) nonché il reato di tentata violenza privata, rubricata sotto il capo c) – erano da considerarsi armi da sparo atte all’impiego; ma era altresì emerso che uno dei tre fucili recava la matricola abrasa e non meramente illeggibile, come riferito dall’ufficiale di polizia giudiziaria esaminato nel dibattimento.

In relazione a detta arma, pertanto, il pubblico ministero procedeva alla contestazione del reato di cui all’art. 23, terzo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110 (Norme integrative della disciplina vigente per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi), in quanto arma clandestina (capo d), ed alla correlativa contestazione del delitto di ricettazione della medesima arma (capo e).

In riferimento a tali nuove contestazioni, l’imputato formulava richiesta di applicazione della pena, indicando il relativo trattamento sanzionatorio e subordinando la richiesta stessa alla concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

A fronte di tale richiesta – ha puntualizzato il giudice a quo – il pubblico ministero ha negato il proprio consenso, in quanto, trattandosi di nuove «contestazioni fisiologiche e non patologiche», esse non consentirebbero «la remissione in termini per il patteggiamento», alla luce dei principi affermati nella sentenza di questa Corte n. 265 del 1994. A questo punto, il Tribunale, su accordo delle parti, disponeva lo stralcio dei reati di cui ai capi a) e c) che venivano separatamente definiti con sentenza.

Nel ritenere corretta la qualificazione giuridica delle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero e non sussistendo i presupposti per l’adozione di una sentenza di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., il giudice a quo reputa dunque astrattamente accoglibile la richiesta di applicazione della pena per i reati connessi contestati in dibattimento (connessione che il giudice a quo desume dalla continuazione fra tutti i reati concernenti le armi); ma, al tempo stesso, ritiene fondati i rilievi del pubblico ministero, dal momento che, trattandosi di nuova contestazione cosiddetta fisiologica a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., non è prevista una “rimessione in termini” rispetto al termine di decadenza stabilito dall’art. 446, comma 1, cod. proc. pen.

1.2.– Verificata, pertanto, la rilevanza della normativa in questione per la decisione sulla domanda di applicazione della pena, il Tribunale reputa che la stessa, nella parte in cui preclude all’imputato la possibilità di formulare richiesta di patteggiamento in riferimento al reato concorrente, frutto di contestazione suppletiva “fisiologica”, contrasti con il diritto di difesa e con i principî di uguaglianza e di ragionevolezza, in rapporto alla differente disciplina riservata ad eguali situazioni.

Nel rievocare i percorsi seguiti dalla giurisprudenza costituzionale, il giudice a quo rammenta, infatti, come ad un primo iniziale orientamento di rigore, che faceva leva sulla natura premiale dei riti alternativi e, dunque, sulla possibilità di accedere agli stessi solo laddove si fosse garantita la definizione del processo senza procedere alla celebrazione del dibattimento (si citano le sentenze nn. 593 e 277 del 1990 e n. 316 del 1992), con la successiva sentenza n. 265 del 1994 tale orientamento venne modificato nel caso di contestazioni dibattimentali tardive, dichiarando illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà per l’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen. relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio della azione penale (contestazione cosiddetta patologica), ovvero quando l’imputato aveva tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione della pena in ordine alla originaria imputazione.

Più di recente, rammenta ancora il giudice a quo, questa Corte, con la sentenza n. 184 del 2014, ha rimosso la preclusione a definire il processo con l’applicazione della pena su richiesta, in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

Per ciò che concerne il giudizio abbreviato, dopo una prima fase caratterizzata da alcune pronunce di inammissibilità, fondate sulle innovazioni introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), la Corte, con la sentenza n. 333 del 2009, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato, relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestati in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio della azione penale.

Con tale ultima pronuncia e con la successiva sentenza n. 139 del 2015 – la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà di richiedere il giudizio abbreviato con riferimento al reato per il quale vi sia stata contestazione suppletiva di circostanza aggravante che già risultava agli atti al momento di esercizio della azione penale – la Corte, sottolinea il giudice a quo, ha parificato le situazioni del patteggiamento e del giudizio abbreviato, rimovendo definitivamente le preclusioni derivanti dalle contestazioni “patologiche”.

1.3.– In merito, invece, alle contestazioni “fisiologiche”, con la sentenza n. 237 del 2012 la Corte, modificando il precedente orientamento negativo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentiva di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente emerso nel corso del dibattimento, e divenuto oggetto della nuova contestazione. Ciò, in particolare, in considerazione della non necessaria prevedibilità di possibili variazioni della accusa nel corso della istruzione dibattimentale.

La medesima soluzione è stata adottata anche nella sentenza n. 273 del 2014, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso emerso nel corso della istruzione dibattimentale ed oggetto di nuova contestazione.

Anche per ciò che concerne il patteggiamento – puntualizza ancora il giudice rimettente – la Corte, con la sentenza n. 206 del 2017, ha ritenuto estensibili, alla richiesta di patteggiamento formulata in dibattimento in caso di “contestazione fisiologica” del fatto diverso a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., le argomentazioni già svolte in relazione al giudizio abbreviato, rilevando come l’imputato, il quale subisca una nuova contestazione, viene a trovarsi in una posizione diversa e deteriore, per ciò che attiene alla facoltà di accesso ai riti alternativi, rispetto a chi fosse stato chiamato a rispondere della stessa imputazione fin dall’inizio. Da qui, la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Pure in questa circostanza, sottolinea il giudice rimettente, è stato ribadito che condizione essenziale per il diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa che gli viene mossa, con la conseguenza che, in presenza di una modifica “fisiologica” della stessa, non può essergli preclusa la facoltà di richiedere il patteggiamento, sol perché, non avendolo richiesto prima, si sarebbe assunto il rischio di tale evenienza.

Una valutazione, questa, la cui coerenza è stata già esclusa da questa Corte in riferimento al giudizio abbreviato, con la ricordata sentenza n. 273 del 2014, sul rilievo che la stessa farebbe dipendere dalle scelte del pubblico ministero – se esercitare separatamente l’azione penale o invece procedere alla contestazione suppletiva – rispettivamente, la possibilità di recuperare o meno la opzione per il rito alternativo.

1.4.– Alla stregua dei riferiti rilievi, la preclusione a fruire dei vantaggi connessi al patteggiamento in ipotesi di reato concorrente emerso nel corso del dibattimento ed oggetto di contestazione suppletiva, si tradurrebbe, ad avviso del giudice a quo, in una compressione dei diritti di difesa non addebitabile ad alcuna colpevole inerzia, né giustificabile alla stregua di un prevedibile sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato consapevolmente assunto. L’opzione per il patteggiamento, infatti, costituisce – per consolidata giurisprudenza costituzionale – espressione del diritto di difesa, il cui esercizio è condizionato dal fatto che l’imputato ben conosca il quadro dell’accusa. La contestata preclusione si tradurrebbe, dunque, in una violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost.

Si determinerebbe, al tempo stesso, una disparità di trattamento fra l’imputato al quale sin dall’inizio siano stati contestati tutti gli addebiti, con possibilità di optare per un rito alternativo, e l’imputato che invece – per carenza di indagini o altra causa – si sia visto elevare una imputazione incompleta, e che, a seguito della istruzione dibattimentale, subisca l’imputazione di un reato connesso a norma dell’art. 12 comma 1, lettera b), cod. proc. pen., senza poter più fruire di un rito alternativo. Il che violerebbe l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’uguaglianza.

Si deduce, altresì, la irragionevolezza della disciplina processuale che sarebbe scaturita dalle sentenze di questa Corte n. 530 del 1995 e n. 237 del 2012, in quanto, mentre nel caso di contestazione “fisiologica” di reato connesso a norma dell’art. 517 cod. proc. pen. l’imputato può recuperare in dibattimento i vantaggi derivanti da alcuni riti speciali, in particolare proporre domanda di oblazione in relazione al fatto diverso ed al reato concorrente (sentenza n. 530 del 1995), e richiedere il giudizio abbreviato in caso di contestazione del reato concorrente emerso in dibattimento (sentenza n. 237 del 2012), altrettanto non avviene – senza alcuna valida giustificazione – per l’applicazione della pena su richiesta delle parti in riferimento al reato concorrente contestato a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., in ipotesi di contestazione anch’essa “fisiologica”.

Considerato, infine, che i progressivi allargamenti circa le possibilità di accesso ai riti alternativi in dibattimento in caso di contestazione del reato concorrente sono avvenuti solo a seguito di singole declaratorie di illegittimità costituzionale, reputa il giudice a quo impraticabile una interpretazione costituzionalmente orientata che soddisfi anche l’ipotesi del patteggiamento, ritenendo di conseguenza necessaria, anche per il caso dedotto, una pronuncia additiva del Giudice delle leggi.

2.– Nel giudizio di costituzionalità non ha spiegato atto di intervento il Presidente del Consiglio dei ministri.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Alessandria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale e che forma oggetto di nuova contestazione.

A parere del giudice rimettente, la censurata lacuna normativa si porrebbe in contrasto con l’art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto la preclusione a fruire dei vantaggi connessi al patteggiamento, in ipotesi di reato concorrente emerso nel corso del dibattimento ed oggetto di contestazione suppletiva, si tradurrebbe in una compressione dei diritti di difesa non addebitabile ad alcuna colpevole inerzia, né giustificabile alla stregua di un prevedibile sviluppo dibattimentale il cui rischio sia stato consapevolmente assunto dall’imputato.

Sarebbe altresì vulnerato l’art. 3 Cost., sotto il profilo del principio di uguaglianza, in quanto la censurata preclusione determinerebbe una disparità di trattamento fra l’imputato al quale sin dall’inizio siano stati contestati tutti gli addebiti, con possibilità di optare per un rito alternativo, e l’imputato che invece – per carenza di indagini o altra causa – si sia visto elevare una imputazione incompleta, e che, a seguito della istruzione dibattimentale, subisca la imputazione di un reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., senza poter più fruire di un rito alternativo.

Verrebbe anche compromesso il principio di ragionevolezza, in quanto risulterebbe incoerente la disciplina processuale che sarebbe scaturita dalle richiamate sentenze di questa Corte n. 530 del 1995 e n. 237 del 2012, dal momento che, mentre nel caso di contestazione cosiddetta “fisiologica” di reato connesso a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., l’imputato può recuperare in dibattimento i vantaggi derivanti da alcuni riti speciali, in particolare proponendo domanda di oblazione in relazione al fatto diverso ed al reato concorrente (sentenza n. 530 del 1995), e richiedendo il giudizio abbreviato in caso di contestazione del reato concorrente emerso in dibattimento (sentenza n. 237 del 2012), un simile recupero non viene consentito – senza alcuna valida giustificazione – per l’applicazione della pena su richiesta delle parti in riferimento al reato concorrente contestato a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., in ipotesi di contestazione anch’essa “fisiologica”.

2.– La questione è fondata.

2.1.– Come ha puntualmente rammentato lo stesso giudice rimettente, la tematica dei rapporti tra le nuove contestazioni dibattimentali ed il “recupero”, da parte dell’imputato, della facoltà di formulare in quella sede richiesta di applicazione di riti alternativi – opzioni, queste, temporalmente precluse dal raggiungimento di uno stadio processuale concettualmente “incompatibile” con modelli procedimentali ad esso, per definizione, “alternativi” – ha formato oggetto di numerosi interventi da parte di questa Corte, contrassegnati da una linea evolutiva ispirata ad una sempre maggiore apertura.

Nel codice di rito vigente, infatti, è apparso coerente con l’impostazione tendenzialmente accusatoria, assegnare – come chiaramente emerge dalla Relazione al Progetto preliminare – uno spazio alle modifiche della contestazione ben più ampio di quanto ammesso nel codice previgente, considerato che, collocandosi la formulazione dell’addebito all’esito delle indagini preliminari, e, dunque, di una fase non destinata alla raccolta delle prove, è logico presupporre che l’istruzione probatoria dibattimentale fisiologicamente comporti la possibilità che in quella sede vengano ad emersione elementi di novità, che rendono necessario modificare il quadro della accusa, in termini e con una portata del tutto ignoti nella logica del codice del 1930, nel quale la fase del dibattimento faceva invece seguito ad una articolata fase di istruttoria, al cui esito l’accusa era chiamata a cristallizzarsi nell’atto che determinava la translatio iudicii.

2.2.– L’istituto delle nuove contestazioni dibattimentali si pone, peraltro, in possibile frizione col diritto di difesa e – per ciò che qui maggiormente interessa – con le opzioni relative ai riti alternativi, che di quel diritto sono parte essenziale. Rispetto al tema di accusa contestato in dibattimento – e che costituisce un novum rispetto alla contestazione elevata all’atto dell’esercizio della azione penale – vengono, infatti, in discorso le facoltà difensive che l’imputato avrebbe potuto esercitare prima della mutatio libelli (basti pensare, al riguardo, alle facoltà difensive esercitabili in sede di udienza preliminare e, più in generale, al tema del diritto alla prova, anche nella prospettiva delle cosiddette indagini difensive, ignote nella versione originaria del codice di rito), nonché le preclusioni che caratterizzano l’accesso ai riti speciali.

Le nuove contestazioni dibattimentali hanno dunque rappresentato, proprio sotto quest’ultimo profilo, un vero e proprio punctum dolens, che ha comportato, sin dai primi tempi di applicazione del nuovo codice di procedura, l’attenzione di questa Corte, dal momento che, a fronte del “nuovo” quadro contestativo, risultavano ormai spirati i termini entro i quali formulare la richiesta di procedimenti speciali e dei meccanismi di definizione anticipata del procedimento (oblazione). Riti e meccanismi che, per giurisprudenza costituzionale costante (da ultimo, sentenza n. 141 del 2018), costituiscono anch’essi modalità di esercizio, e tra le più qualificanti, del diritto di difesa.

Per effetto delle nuove contestazioni elevate dal pubblico ministero nel corso del dibattimento, l’imputato potrebbe infatti trovarsi a dover fronteggiare un’accusa in ordine alla quale sarebbe suo interesse chiedere i citati riti o meccanismi alternativi; ma tali opportunità gli sono normativamente precluse, essendo ormai decorsi i termini utili per le relative richieste.

Da qui, l’avvio di un progressivo percorso di riallineamento costituzionale della disciplina codicistica, le cui tappe salienti non pare superfluo rievocare, anche per giungere alla enunciazione di taluni approdi, che valgano ad esaurire, pro futuro, l’intera tematica.

2.3.– In una prima – e ormai superata – fase, l’atteggiamento della Corte fu, come è noto, improntato ad un rigoroso atteggiamento negativo rispetto a possibilità di “recupero” postumo della facoltà di accedere ai riti alternativi, una volta spirato il termine “fisiologico” del loro espletamento. La Corte ha, infatti, più volte osservato, tanto a proposito dell’applicazione di pena concordata quanto a proposito del giudizio abbreviato, che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi conseguenti a tali giudizi, in tanto rileva, in quanto egli rinunzi al dibattimento e venga perciò effettivamente adottata una sequenza procedimentale che consenta di raggiungere l’obiettivo di rapida definizione del processo perseguito dal legislatore con l’introduzione di detti riti speciali. Ed ha altresì ritenuto, più specificamente, che la preclusione all’ammissione di tali giudizi, in caso di contestazione dibattimentale suppletiva, non risultasse irragionevole. Si tratta, infatti – ha affermato la Corte – di un’evenienza che non è infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento ed è – soprattutto – ben prevedibile, dato lo stretto rapporto intercorrente tra l’imputazione originaria ed il reato connesso; e, per contro, di un’evenienza che è preclusa ove tali riti siano introdotti.

Di conseguenza, si osservò, il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiederli o meno, onde egli non ha che da addebitare a sé medesimo le conseguenze della propria scelta (tra le tante, sentenze n. 129 del 1993, n. 316 del 1992, n. 277 e n. 593 del 1990, nonché l’ordinanza n. 213 del 1992).

Il tema, però, è stato poco dopo approfonditamente riesaminato, specie alla luce della “non colpevole inerzia” serbata dall’imputato a fronte della “tardività” della contestazione nuova mossa dal pubblico ministero, in quanto elevata in forza di elementi già acquisiti all’atto della contestazione originaria, posta a base del provvedimento dispositivo del giudizio.

La giurisprudenza della Corte ha così finito per “adeguare” gradualmente l’accesso ai riti alternativi, a fronte di contestazioni dibattimentali cosiddette “patologiche”, appunto perché frutto di un “ritardo” imputabile al pubblico ministero.

2.4.– Già con la sentenza n. 265 del 1994, la Corte ha rivisto le proprie posizioni, in caso, appunto, di nuove contestazioni “patologiche”. Nel frangente, la Corte ha infatti osservato che, poiché le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale – giudizio abbreviato e di applicazione della pena (“patteggiamento”) – vengono indissolubilmente a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero, e cioè dalla natura dell’addebito, quando non possa rinvenirsi alcun profilo di inerzia dell’imputato e quindi di addebitabilità al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione del rito differenziato – come nel caso di errore, sulla individuazione del fatto e del titolo del reato, in cui è incorso il pubblico ministero – risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente nel corso del dibattimento, dal momento che l’imputazione subisce una variazione sostanziale. E ciò, anche nel caso in cui il procedimento richiesto dall’imputato sia stato ingiustificatamente o erroneamente negato, con la conseguente inapplicabilità, relativamente al “patteggiamento”, del comma 1 dell’art. 448 cod. proc. pen. con riguardo alla nuova contestazione: in tal modo, infatti, risulterebbe inevitabilmente incongrua la pena richiesta, in quanto formulata con riferimento ad imputazione modificata nel corso del dibattimento.

Tale preclusione – ha osservato la Corte – risultava inoltre censurabile in riferimento all’art. 3 Cost., venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione circa le risultanze delle indagini preliminari, operata dal pubblico ministero.

Conseguentemente, con riguardo al procedimento di applicazione della pena su richiesta, avendo la Corte già affermato che è possibile fare applicazione dell’istituto della restituzione nel termine, e quindi non sussistendo ostacoli di carattere logico-sistematico, vennero dichiarati incostituzionali, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concernesse un fatto che già risultava dagli atti di indagine preliminare al momento dell’esercizio dell’azione penale, ovvero quando l’imputato avesse tempestivamente e ritualmente proposto la richiesta di applicazione di pena in ordine alle originarie imputazioni.

Diverse furono le conclusioni in tema di giudizio abbreviato. Si ritenne, infatti, che, pur essendo censurabile, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la preclusione per l’imputato all’accesso ai riti speciali a seguito di nuove contestazioni per fatto diverso o per reato concorrente nel corso del dibattimento nel caso di errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui fosse incorso il pubblico ministero, con riferimento al giudizio abbreviato la questione dovesse tuttavia essere dichiarata inammissibile poiché – come già rilevato dalla Corte in un giudizio su analoga questione – la scelta di un meccanismo di trasformazione del rito, come auspicato dal giudice rimettente, oltre che opinabile da un punto di vista tecnico-sistematico data l’inconciliabilità della procedura del giudizio abbreviato con quella dibattimentale, non potesse ritenersi scelta costituzionalmente obbligata, ponendosi in termini alternativi ad altre possibili opzioni attinenti alla sfera della discrezionalità legislativa (quali – si osservò nel frangente – la possibilità di applicazione della riduzione della pena di un terzo da parte del giudice all’esito del dibattimento verificati i presupposti suddetti ovvero la preclusione, in tali casi, della nuova contestazione, con conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero relativamente ad essa).

2.5.– Il problema del giudizio abbreviato venne, però, novamente affrontato e risolto con la successiva sentenza n. 333 del 2009. Con tale pronuncia, infatti, la Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerneva un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. Premesso – rilevò la Corte – che il dubbio di costituzionalità investiva la fattispecie della contestazione suppletiva tardiva (derivante, cioè, da un’incompletezza già apprezzabile sulla base degli atti di indagine e non dalla fisiologica emersione di nuovi elementi nel corso dell’istruzione dibattimentale), e che oggetto di scrutinio era la perdita, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato, essendo la nuova contestazione intervenuta dopo che era spirato il termine ultimo di proposizione della relativa richiesta, la norma censurata violava gli evocati parametri costituzionali, poiché, come già riconosciuto dalla sentenza n. 265 del 1994, nell’ipotesi di contestazione dibattimentale tardiva, precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali è «lesivo del diritto di difesa», risultando la libera scelta dell’imputato verso il rito alternativo sviata da aspetti di anomalia nella condotta processuale del pubblico ministero, collegati all’erroneità o all’incompletezza dell’imputazione, riscontrabili già sulla base degli elementi acquisiti nel corso delle indagini.

Si ritenne anche violato l’art. 3 Cost., «venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale».

Infatti – si osservò – la citata sentenza del 1994 aveva dichiarato inammissibile l’omologa questione relativa al giudizio abbreviato, ma solo perché il vulnus costituzionale, ugualmente ravvisabile, poteva essere colmato attraverso plurime soluzioni rimesse alla discrezionalità legislativa, stante l’inconciliabilità di fondo del rito abbreviato con la procedura dibattimentale. Tuttavia – osservò ancora la Corte – la successiva evoluzione della disciplina dell’istituto, svincolato dai presupposti della definibilità del processo allo stato degli atti e del consenso del pubblico ministero e dotato di un meccanismo di integrazione probatoria, doveva indurre a ritenere superata la segnalata incompatibilità, sicché lo stesso giudice dibattimentale poteva ritenersi abilitato a disporre e celebrare il giudizio abbreviato.

L’accesso al rito alternativo per il reato oggetto della contestazione suppletiva tardiva, anche quando avvenga in corso di dibattimento, risultava comunque sia idoneo a produrre un effetto di economia processuale, giacché consentiva al giudice del dibattimento di decidere sulla nuova imputazione allo stato degli atti.

La declaratoria di illegittimità della norma censurata, dunque, si imponeva, oltre che per rimuovere i profili di contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. già rilevati dalla sentenza del 1994, anche per eliminare la differenza di regime, in punto di recupero della facoltà di accesso ai riti alternativi a fronte di una contestazione suppletiva tardiva, secondo che si discuta di patteggiamento o di giudizio abbreviato: differenza che, nel rinnovato panorama normativo, si rivelava essa stessa fonte di una discrasia rilevante sul piano del rispetto dell’art. 3 Cost.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., dell’art. 517 cod. proc. pen. comportava la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), dell’art. 516 del medesimo codice, nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concernesse un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale. Infatti, i profili di violazione degli evocati parametri costituzionali, riscontrabili con riferimento all’ipotesi di contestazione nel corso del dibattimento di un reato concorrente, sussistevano, allo stesso modo, anche in rapporto alla parallela ipotesi in cui la nuova contestazione dibattimentale consista, ai sensi dell’art. 516 cod. proc. pen., nella modifica dell’imputazione originaria per diversità del fatto.

2.6.– Il progressivo “sgretolamento” delle preclusioni ai riti alternativi in caso di contestazione “patologica” è stato portato ad ulteriore stadio con la sentenza n. 184 del 2014, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione di pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., in seguito alla contestazione nel dibattimento di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.

2.7.– L’ultimo “tassello” che ha completato l’operazione di “recupero” dei riti alternativi in caso di contestazioni “patologiche” è rappresentato dalla sentenza n. 139 del 2015, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione.

2.8.– Il fulcro delle decisioni di cui innanzi si è detto appare, dunque, essere concentrato essenzialmente sulla “non addebitabilità” all’imputato dello spirare del termine “fisiologico” per la scelta dei riti alternativi, l’opzione per i quali non può non presupporre un completamento della imputazione elevata nei suoi confronti. Solo attraverso una esauriente e tempestiva cristallizzazione del quadro di accusa è infatti possibile assegnare un termine per l’esercizio di facoltà processuali che – come le scelte sui riti alternativi – con quel quadro devono necessariamente misurarsi, traendo esse naturale alimento proprio dalla natura e specificazione delle fattispecie incriminatrici e dalle correlative basi fattuali.

2.9.– La giurisprudenza costituzionale ha però subìto notevoli evoluzioni anche per ciò che attiene al terreno delle nuove contestazioni che nascano da acquisizioni dibattimentali e, dunque, del tutto “fisiologiche” nel quadro della mutatio libelli. Il che, come si è rammentato, costituiva la ragione di fondo che aveva orientato inizialmente la Corte ad escludere qualsiasi “recupero” postumo, sul piano delle richieste di riti alternativi, proprio facendo leva sulla “prevedibilità” che l’imputazione possa subire modifiche alla luce della istruzione probatoria dibattimentale.

Già con la sentenza n. 530 del 1995, infatti, la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost., l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis del codice penale, relativamente al reato concorrente contestato in dibattimento, in quanto – posto che l’istituto dell’oblazione si fonda sia sull’interesse dello Stato di definire con economia di tempo e di spesa i procedimenti relativi ai reati di minore importanza, sia sull’interesse del contravventore di evitare l’ulteriore corso del procedimento e la eventuale condanna (con tutte le conseguenze della stessa); e comporta, come effetto tipico, la estinzione del reato – la preclusione dell’accesso all’istituto stesso (ed ai connessi benefici), nel caso in cui il reato suscettibile di estinzione per oblazione costituisca oggetto di contestazione nel corso dell’istruzione dibattimentale ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., risultava lesiva del diritto di difesa, nonché priva di razionale giustificazione.

Nel frangente, venne dichiarato costituzionalmente illegittimo (ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953), per violazione degli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma, Cost., anche l’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione, ai sensi degli artt. 162 e 162-bis cod. pen., relativamente al fatto diverso contestato in dibattimento.

2.10.– Il “cammino” della Corte è poi proseguito con la sentenza n. 237 del 2012, con la quale è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

Dopo aver sottolineato che la questione di costituzionalità aveva ad oggetto la fattispecie della contestazione suppletiva “fisiologica” di un reato concorrente, vale a dire la nuova contestazione in dibattimento di un fatto emerso solo nel corso dell’istruzione dibattimentale, e che oggetto di scrutinio era la perdita, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato, essendo la nuova contestazione intervenuta dopo che era spirato il termine ultimo di proposizione della relativa richiesta, la Corte ha ritenuto che la norma censurata, valutata nell’odierno panorama ordinamentale, violasse gli evocati parametri costituzionali, dal momento che, rappresentando la contestazione suppletiva di reato concorrente operata ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen. un atto equipollente agli atti tipici di esercizio dell’azione penale, il mancato riconoscimento all’imputato della facoltà di optare, anche in tale caso, per il giudizio abbreviato era fonte di ingiustificata disparità di trattamento e di compressione delle facoltà difensive.

Poiché l’esigenza di corrispettività tra riduzione della pena e deflazione processuale non può prevalere sul principio di uguaglianza, né tantomeno sul diritto di difesa, e atteso che la decisione di valersi del giudizio abbreviato costituisce una delle scelte più delicate attraverso le quali si esplicano le facoltà defensionali, allorché all’accusa originaria ne venga aggiunta un’altra, sia pure connessa, non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni.

Inoltre, l’accesso al rito alternativo per il reato oggetto della contestazione suppletiva tardiva, anche quando avvenga in corso di dibattimento, risulta comunque sia idoneo a produrre un effetto di economia processuale, giacché consente al giudice del dibattimento di decidere sulla nuova imputazione allo stato degli atti.

La declaratoria di incostituzionalità della norma censurata si imponeva, altresì – osservò ancora la Corte – al fine di rimuovere la disparità di trattamento tra giudizio abbreviato e oblazione dopo che la sentenza n. 530 del 1995 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di proporre domanda di oblazione relativamente al fatto diverso e al reato concorrente contestati in dibattimento, indipendentemente dal carattere “patologico” o “fisiologico” della nuova contestazione.

Un rilievo, quest’ultimo, in forza del quale la Corte si fece carico di “armonizzare” fra loro situazioni, scaturite dalle stesse decisioni della Corte, che imponevano un necessario riallineamento sul piano della ammissione ai riti alternativi o meccanismi di soluzione anticipata della regiudicanda; pena, altrimenti, la evidente compromissione del principio di uguaglianza.

2.11.– Un ulteriore “segmento” inerente al critico rapporto tra mutatio libelli e riti alternativi venne rimosso con la sentenza n. 273 del 2014.

Con tale pronuncia, infatti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 24, Cost., l’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione. Sono, infatti, estensibili – osservò la Corte – le considerazioni svolte nella richiamata sentenza n. 237 del 2012 con la quale era stato dichiarato illegittimo l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentiva all’imputato di chiedere il giudizio abbreviato al giudice del dibattimento in relazione al reato concorrente oggetto di contestazione suppletiva “fisiologica”, volta, cioè, ad adeguare l’imputazione alle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale.

Pertanto, anche in rapporto alla contestazione “fisiologica” del fatto diverso, l’imputato che subisce la nuova contestazione viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio. La disposizione censurata, inoltre, determinava – ribadì, ancora una volta, la Corte – una ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe, tenuto conto del possibile recupero, da parte dell’imputato, della facoltà di accesso al giudizio abbreviato per circostanze puramente “occasionali” che determinino la regressione del procedimento, come nel caso in cui, a seguito delle nuove contestazioni, il reato rientri tra quelli per cui si procede con udienza preliminare e questa non sia stata tenuta.

2.12.– A completamento degli interventi che hanno preso in considerazione il tema delle nuove contestazioni “fisiologiche”, va rammentata la sentenza n. 206 del 2017, con la quale la Corte, rievocando precedenti dicta, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale, che forma oggetto della nuova contestazione.

L’importanza di correlare la domanda di applicazione della pena ad un quadro accusatorio “ben sedimentato” giustifica l’assunto secondo il quale al “patteggiamento” non può essere riservato – proprio sul terreno delle nuove contestazioni – un trattamento deteriore rispetto a quello riconosciuto (al lume della richiamata giurisprudenza costituzionale) al giudizio abbreviato.

2.13.– Un punto sostanziale e quasi definitivo di “approdo” della giurisprudenza costituzionale è stato da ultimo raggiunto con la sentenza n. 141 del 2018, con la quale – operandosi un tendenziale superamento della distinzione tra nuove contestazioni “fisiologiche” o “patologiche” – è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.

In tale pronuncia, la Corte ha sottolineato che «[i]n un quadro complessivo di principi, quale quello che, come è stato ricordato, si è andato delineando in modo sempre più nitido attraverso l’evoluzione giurisprudenziale, è chiaro che, nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, non prevedere nell’art. 517 cod. proc. pen. la facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova si risolve, come è stato ritenuto per il patteggiamento e per il giudizio abbreviato, in una violazione degli artt. 3 e 24 Cost.».

La Corte ha, infatti, ribadito che «[l]a richiesta dei riti alternativi “costituisce […] una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)” (sentenza n. 237 del 2012), e si determinerebbe una situazione in contrasto con il principio posto dall’art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli».

D’altra parte, va pure osservato che non avrebbe alcun senso l’aver imposto – anche in ragione di non pochi interventi di questa Corte (fra le altre, sentenze n. 201 del 2016, n. 148 del 2004 e n. 497 del 1995) – la previsione dell’avviso a pena di nullità, rivolto all’imputato nei vari atti con i quali si dispone il giudizio in mancanza di udienza preliminare (a proposito di quest’ultima, ordinanza n. 309 del 2005), circa la facoltà di richiesta dei riti alternativi, ove ad un siffatto avviso – sanzionato, se omesso, in modo così grave, e, dunque, chiamato a svolgere una funzione tutt’altro che meramente “didascalica” – fosse correlata una facoltà processuale che, peraltro, finirebbe per risultare nei fatti sostanzialmente elusa, nelle ipotesi in cui i contorni dell’accusa – oggetto e termine di riferimento delle “scelte” difensive dell’imputato – subiscano in dibattimento (“fisiologicamente” o meno) un significativo e qualificato mutamento contenutistico, senza offrire una possibilità di “rinnovare” quelle scelte in rapporto alla “novazione” della accusa.

Questa Corte ha infatti avuto modo di puntualizzare, nella richiamata sentenza n. 141 del 2018, che «[i]l dato rilevante […] è la sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento, ed è ad essa che deve ricollegarsi la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata».

Se, dunque, la possibilità di richiedere i riti alternativi si salda a fil doppio al diritto di difesa – in particolare, al diritto di scegliere il modello processuale più congeniale all’esercizio di quel diritto – e se è la regiudicanda, nelle sue dimensioni “cristallizzate”, a costituire la base su cui operare tali scelte, non può che desumersi la incoerenza con quel diritto di qualsiasi preclusione che ne limiti l’esercizio concreto, tutte le volte in cui il sistema ammetta una mutatio libelli in sede dibattimentale.

Ciò, tanto più nelle ipotesi – come quella che ricorre nel caso di specie – in cui sono addirittura nuove regiudicande ad aggiungersi a quelle precedentemente contestate, sia pure attraverso il collegamento offerto dalla connessione, di cui all’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen.

2.14.– L’epilogo cui occorre pervenire agli effetti della specifica questione oggetto del presente giudizio è, a questo punto, manifesto. Dal momento che – come si è ricordato – questa Corte ha già ritenuto, con la sentenza n. 184 del 2014, costituzionalmente illegittimo l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà per l’imputato di chiedere il patteggiamento in ipotesi di contestazione “patologica” di una circostanza aggravante, è chiaro che la identica ratio decidendi fa ritenere che la medesima facoltà debba essere riconosciuta anche in rapporto ad una contestazione “fisiologica” di un reato connesso.

Allo stesso modo, coglie nel segno il rilievo del giudice a quo, che evoca la irrazionalità della censurata preclusione che ancora residua nel sistema, a fronte della sentenza additiva n. 237 del 2012, con la quale, nel caso di contestazione “fisiologica” del reato connesso, si è consentito all’imputato di richiedere il giudizio abbreviato: rito, quest’ultimo, il cui “innesto” in sede dibattimentale, risulta ben più problematico del patteggiamento, tant’è che questa Corte – come si è accennato – si era inizialmente orientata (con la sentenza n. 265 del 1994) per la inammissibilità della questione.

Deve d’altra parte porsi in evidenza che l’accoglimento della questione risulta, per certi aspetti ormai dovuto alla luce della sentenza n. 206 del 2017, dal momento che, come già segnalato, con tale pronuncia è stata estesa la facoltà di proporre richiesta di patteggiamento relativamente al fatto diverso emerso nel corso della istruzione dibattimentale, e, dunque, oggetto di nuova contestazione ugualmente “fisiologica”. Fatto diverso e reato connesso, entrambi emersi per la prima volta in dibattimento, integrano, infatti, evenienze processuali che, sul versante dell’accesso ai riti alternativi, non possono non rappresentare situazioni fra loro del tutto analoghe.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al reato concorrente emerso nel corso del dibattimento e che forma oggetto di nuova contestazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 febbraio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2019.

 
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