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Illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Giorgio LATTANZI Presidente
- Aldo CAROSI Giudice
- Marta CARTABIA ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Franco MODUGNO ”
- Augusto Antonio BARBERA ”
- Giulio PROSPERETTI ”
- Giovanni AMOROSO ”
- Francesco VIGANÒ ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Salerno, nel procedimento a carico di M. A., con ordinanza del 24 marzo 2016, iscritta al n. 40 del registro ordinanze 2017 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2017.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 marzo 2018 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Salerno, in composizione monocratica, con ordinanza del 24 marzo 2016 (r.o. n. 40 del 2017), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che, contestata nel corso del giudizio dibattimentale una circostanza aggravante fondata su elementi già risultanti dagli atti di indagine, l’imputato abbia facoltà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova [ai] sensi degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e ss. c.p.p. relativamente al reato oggetto della nuova contestazione».
Il Tribunale rimettente riferisce che il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva emesso nei confronti dell’imputato un decreto penale di condanna «in data 12/13.2.2014» per il «reato p. e p. dall’art. 186 comma 2 lettera b) e comma 2-sexies del Codice della Strada, perché guidava alle ore 03.30 circa del giorno 01.05.2013 l’autovettura […] in stato di ebbrezza alcolica», e che contro tale decreto, il 18 marzo 2014, era stata proposta opposizione con la richiesta dell’applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., nella misura di quattordici giorni di arresto e 600,00 euro di ammenda, da sostituirsi con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada).
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Salerno aveva rigettato la richiesta di applicazione della pena perché dall’esame degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero era emerso che l’imputato aveva provocato un incidente stradale con feriti, con la conseguente configurabilità dell’aggravante dell’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992, ostativa all’applicazione della sostituzione della pena con il lavoro di pubblica utilità.
Nell’udienza camerale del 20 novembre 2014, fissata «per la delibazione dell’istanza di patteggiamento», il difensore dell’imputato, munito di procura speciale, aveva presentato una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi dell’art. 168-bis del codice penale, ma il Giudice per le indagini preliminari, dopo la pronuncia di rigetto della richiesta di patteggiamento, aveva rimesso ogni ulteriore determinazione sulla nuova richiesta al «primo giudice (quello che aveva emesso il decreto penale)», il quale, a sua volta, aveva dichiarato «non luogo a provvedere» e rimesso la decisione al giudice del dibattimento, emettendo il decreto di giudizio immediato.
Nell’udienza dibattimentale del 28 ottobre 2015, dopo la costituzione delle parti, il difensore dell’imputato, assente ai sensi dell’art. 420-bis cod. proc. pen., aveva nuovamente chiesto la sospensione del procedimento con messa alla prova e il giudice a quo, preso atto del parere favorevole del pubblico ministero, si era riservato di decidere, disponendo, nell’udienza del 19 novembre 2015, l’acquisizione di ulteriore documentazione per «completare il quadro informativo necessario alla delibazione della questione».
Nell’udienza del 25 novembre 2015, il pubblico ministero aveva contestato all’imputato assente l’aggravante prevista dall’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992 e il difensore aveva reiterato la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.
In un’udienza successiva, fissata per la decisione su tale richiesta, il Tribunale ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale sopra indicate.
Il giudice a quo ha ricordato che, a norma dell’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., nel procedimento per decreto la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova deve essere presentata con l’atto di opposizione e che nella specie ciò non era avvenuto perché l’opposizione era stata anteriore all’emanazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), che aveva introdotto il nuovo istituto. Poi nel dibattimento, tardivamente, perché già risultava dagli atti delle indagini, era stata contestata all’imputato, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., la circostanza aggravante prevista dall’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992, e, secondo il giudice a quo, la nuova contestazione avrebbe dovuto consentire all’imputato di chiedere la messa alla prova, così come gli consentiva di chiedere il patteggiamento e il giudizio abbreviato.
Ad avviso del Tribunale rimettente, l’art. 517 cod. proc. pen., prevedendo «la contestazione della circostanza aggravante c.d. tardiva», senza dare all’imputato la possibilità di chiedere la messa alla prova, contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 Cost., e le relative questioni di legittimità costituzionale sarebbero rilevanti, dato che non sussisterebbero ragioni per negare la messa alla prova.
La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, avrebbe rilevato che il nuovo istituto ha effetti sostanziali ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio e destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo.
In considerazione dei suoi effetti premiali, la possibilità di accedere a tale procedimento costituirebbe un’estrinsecazione del diritto di difesa garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost.
Il Tribunale rimettente ricorda che, con la sentenza n. 184 del 2014, la Corte costituzionale ha già riconosciuto all’imputato il diritto di chiedere il procedimento speciale previsto dagli artt. 444 e seguenti cod. proc. pen. nel caso in cui il pubblico ministero opera una modificazione dell’imputazione contestando una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine, e ha ritenuto che l’opzione per un rito di carattere premiale costituisce una declinazione del diritto di difesa.
Dopo aver richiamato altre pronunce di questa Corte relative agli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., il giudice a quo ha osservato che con esse la Corte ha rilevato «il pregiudizio del diritto di difesa, connesso all’impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell’imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari», e ha stigmatizzato la violazione del principio di eguaglianza «correlata alla discriminazione cui l’imputato si trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell’apprezzamento».
Nel caso in esame la situazione processuale sarebbe assimilabile a quelle esaminate dalla Corte con le pronunce richiamate, e non sarebbe possibile, a fronte del disposto dell’art. 517 cod. proc. pen. e dell’art. 464-bis cod. proc. pen., procedere ad interpretazioni volte ad adeguare le chiare previsioni normative ai principi costituzionali.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e comunque non fondate.
L’Avvocatura dello Stato ha ricordato che la richiesta di sospensione del procedimento avrebbe dovuto essere contenuta nell’atto di opposizione, ai sensi dell’art. 464-bis cod. proc. pen., ma che in quel momento non era possibile presentarla perché la legge che ha dato vita al nuovo istituto non era ancora stata emanata. D’altro canto la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 240 del 2015, ha ritenuto che, in mancanza di una disciplina transitoria, rimane preclusa la messa alla prova nei procedimenti in cui al momento dell’entrata in vigore della legge n. 67 del 2014 era già stata superata la fase processuale nella quale la richiesta sarebbe stata proponibile.
Ne discenderebbe che la reiterazione della richiesta «al momento dell’apertura del dibattimento non avrebbe potuto avere corso» e dunque che le questioni non sarebbero rilevanti, non potendo la decisione della Corte incidere sul giudizio a quo. Né inciderebbe sulla rilevanza delle questioni il fatto che l’imputazione era stata modificata.
Secondo l’Avvocatura dello Stato, «la contravvenzione oggetto del procedimento, sia nella forma originariamente contestata, che in quella derivante dalla modifica, avrebbe in ipotesi consentito l’accesso al rito speciale, se non già precluso dalla scansione temporale evidenziata nell’ordinanza di rimessione», e quindi non ci si troverebbe in presenza di una situazione come quelle oggetto delle decisioni di questa Corte richiamate dal Tribunale rimettente, in cui, per l’errore del pubblico ministero che non aveva a suo tempo effettuato una contestazione conforme agli elementi già acquisiti, l’imputato aveva subito un pregiudizio, non avendo chiesto, come avrebbe potuto fare, il procedimento speciale.
Nel caso in questione l’imputato al momento dell’opposizione non avrebbe potuto chiedere la messa alla prova, e di conseguenza anche in seguito la richiesta gli era preclusa, sicché la mancata contestazione dell’aggravante non gli aveva arrecato alcun pregiudizio.
In conclusione, secondo l’Avvocatura dello Stato, «[n]ella fattispecie si può adeguatamente sostenere che la modificazione tardiva dell’imputazione, mediante contestazione della circostanza aggravante di cui all’art. 186 comma 2-bis del codice della strada, già emergente in fase di indagine, è inidonea a determinare una variazione sostanziale ai fini della rivalutazione difensiva per l’accesso al rito alternativo. E ciò perché si tratta di variazione non incidente sulle condizioni di ammissibilità stabilite dai commi 1 e 5 dell’art. 168-bis c.p., senza dunque che sia prospettabile alcuna violazione dei diritti difensivi, in un contesto in cui l’accesso al rito alternativo è precluso in mancanza di disciplina transitoria della legge n. 67/2014».
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Salerno, in composizione monocratica, con ordinanza del 24 marzo 2016 (r.o. n. 40 del 2017), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non prevede che, contestata nel corso del giudizio dibattimentale una circostanza aggravante fondata su elementi già risultanti dagli atti di indagine, l’imputato abbia facoltà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova [ai] sensi degli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e ss. c.p.p. relativamente al reato oggetto della nuova contestazione».
Il Tribunale rimettente procede in seguito all’opposizione a un decreto penale di condanna e la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non era stata formulata con l’atto di opposizione perché in quel momento la legge che ha introdotto il nuovo procedimento speciale non era ancora stata emanata.
Con il decreto penale di condanna era stato contestato all’imputato «il reato p. e p. dall’art. 186 comma 2 lettera b) e comma 2-sexies del Codice della Strada perché guidava […] l’autovettura […] in stato di ebbrezza», e in udienza, prima ancora dell’apertura del dibattimento, il pubblico ministero, a norma dell’art. 517 cod. proc. pen., aveva integrato la contestazione con l’aggravante dell’art. 186, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), perché l’imputato aveva provocato un incidente stradale con feriti. Questa circostanza precludeva la sostituzione della pena dell’arresto e dell’ammenda con quella del lavoro di pubblica utilità, ai sensi dell’art. 186, comma 9-bis, d.lgs. n. 285 del 1992.
Secondo il giudice a quo la nuova contestazione avrebbe dovuto consentire all’imputato di chiedere la messa alla prova, così come gli consentiva di chiedere il patteggiamento e il giudizio abbreviato.
Ad avviso del Tribunale rimettente, la norma censurata viola l’art. 3 Cost., per la discriminazione cui l’imputato si trova esposto «a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza» dell’apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero. Inoltre sarebbe violato l’art. 24 Cost., perché di fronte a «evenienze patologiche che immutano in modo sostanziale la situazione fattuale-processuale originariamente prospettatasi all’imputato e al suo difensore» risulterebbe «lesivo del diritto di difesa dell’imputato precludere l’accesso ai riti speciali».
2.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, osservando che non era stato possibile presentare la richiesta di messa alla prova con l’atto di opposizione, come vuole l’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., perché la legge all’origine del nuovo istituto non era stata ancora emanata, e che quindi, in mancanza di una norma transitoria in tal senso, questa richiesta non avrebbe potuto essere presentata successivamente, nonostante l’avvenuta modificazione dell’imputazione e la sua “tardività”. Perciò un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale non sarebbe in grado di determinare l’accoglimento della richiesta di messa alla prova.
L’eccezione è infondata.
Secondo il giudice rimettente, non consentire all’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, dopo che il pubblico ministero gli ha contestato una nuova circostanza aggravante, dà luogo a una lesione del diritto di difesa e a una violazione dell’art. 3 Cost., ed è per questa ragione che egli ha chiesto una pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen. volta a consentire all’imputato di presentare tale richiesta al giudice del dibattimento, indipendentemente dalle ragioni per le quali non era stata presentata in precedenza.
Tanto basta per rendere rilevanti le questioni, mentre attiene alla valutazione sulla loro fondatezza stabilire se il giudice può accogliere la richiesta di messa alla prova, benchè non sia stato possibile presentarla al momento dell’opposizione al decreto penale di condanna.
3.– Le questioni, oltre che ammissibili, sono fondate.
3.1.– L’istituto della messa alla prova, introdotto con gli artt. 168-bis, 168-ter e 168-quater del codice penale, «ha effetti sostanziali, perché dà luogo all’estinzione del reato, ma è connotato da un’intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova» (sentenza n. 240 del 2015).
L’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen. stabilisce i termini entro i quali, a pena di decadenza, l’imputato può formulare la richiesta di messa alla prova. Sono termini diversi, articolati secondo le sequenze procedimentali dei vari riti, e la loro disciplina è «collegat[a] alle caratteristiche e alla funzione dell’istituto, che è alternativo al giudizio ed è destinato ad avere un rilevante effetto deflattivo» (sentenza n. 240 del 2015).
Come negli altri riti, anche nel procedimento per decreto la mancata presentazione della richiesta nel termine stabilito dall’art. 464-bis, comma 2, cod. proc. pen., e cioè con l’atto di opposizione, determina una decadenza, sicché, nel giudizio conseguente all’opposizione, l’imputato che prima non l’abbia chiesta non può più chiedere la messa alla prova (sentenza n. 201 del 2016).
Nel caso in esame, come si è visto, l’imputato, al momento dell’emanazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), priva di normativa transitoria, non era più in termini per richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova, ma la contestazione, da parte del pubblico ministero, dell’aggravante di cui all’art. 186, comma 2-bis, d.lgs. n. 285 del 1992 ha indotto il giudice a ritenere che, in presenza della nuova situazione accusatoria, impedire all’imputato di chiedere la messa alla prova costituisca una lesione delle sue facoltà difensive e sia in contrasto con l’art. 3 Cost.
Il giudice rimettente si duole, più specificamente, della mancata previsione della facoltà di accesso al nuovo rito speciale della sospensione del procedimento con messa alla prova, in presenza di una contestazione suppletiva cosiddetta “tardiva” o “patologica” di una circostanza aggravante, cioè di una contestazione basata non sulle nuove risultanze dell’istruzione dibattimentale, ma su elementi che già emergevano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale.
Occorre dunque verificare nuovamente la legittimità della preclusione per l’imputato di un rito alternativo a contenuto premiale nonostante la sopravvenienza di nuove contestazioni dibattimentali, posto che non può non valere anche per il nuovo procedimento speciale della messa alla prova il complesso dei principi enucleati al riguardo da questa Corte per gli altri riti alternativi.
3.2.– La giurisprudenza costituzionale sulla facoltà dell’imputato di chiedere il patteggiamento o il giudizio abbreviato dopo nuove contestazioni a norma degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. è andata evolvendo nel tempo in modo significativo.
In una prima fase, relativa agli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del codice di rito, questa Corte ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto le norme sulle nuove contestazioni e ha escluso ogni possibilità di superare l’ordinario limite processuale fissato per la richiesta dei riti alternativi.
Esaminando le questioni sollevate, con riferimento, ora al giudizio abbreviato, ora al patteggiamento, la Corte ha ritenuto infondato il dubbio di legittimità costituzionale in parola, rilevando – sulla scia di quanto già affermato in rapporto alla norma transitoria dell’art. 247 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) (sentenza n. 277 del 1990; ordinanze n. 477 e n. 361 del 1990) – che l’interesse dell’imputato a beneficiare dei vantaggi che discendono dall’instaurazione di tali riti speciali trova tutela «solo in quanto la sua condotta consenta l’effettiva adozione di una sequenza procedimentale, che, evitando il dibattimento», permetta di raggiungere «quell’obiettivo di rapida definizione del processo» che il legislatore ha inteso perseguire attraverso l’introduzione dei riti speciali (sentenza n. 593 del 1990, relativa ad una richiesta di giudizio abbreviato; nello stesso senso, sentenza n. 316 del 1992, relativa ad una richiesta di rito abbreviato; sentenza n. 129 del 1993, relativa ad una richiesta di patteggiamento; ordinanza n. 107 del 1993, relativa ad una richiesta di giudizio abbreviato; ordinanza n. 213 del 1992, relativa ad una richiesta di patteggiamento). Di conseguenza si è ritenuto che se per l’inerzia dell’imputato (che ha omesso di richiedere tempestivamente il rito alternativo) tale scopo non può più essere pienamente raggiunto, essendosi ormai pervenuti al dibattimento, sarebbe del tutto irrazionale procedere egualmente con il rito speciale in base alle contingenti valutazioni dell’imputato (sentenze n. 316 del 1992 e n. 593 del 1990; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
Si è anche affermato che «[n]ell’ipotesi […] di reato concorrente – ma analoghe considerazioni valgono in quelle di modifica dell’imputazione (art. 516) e di circostanza aggravante – l’esclusione di tale possibilità è giustificata dal rilievo che la contestazione è evenienza, per un verso, non infrequente in un sistema processuale imperniato sulla formazione della prova in dibattimento (cfr. ordinanza n. 213 del 1992), e ben prevedibile, dato lo stretto rapporto intercorrente tra l’imputazione originaria e il reato connesso» e che «il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l’imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta» (sentenza n. 316 del 1992; in senso analogo, sentenza n. 129 del 1993; ordinanze n. 107 del 1993 e n. 213 del 1992).
Successivamente però la giurisprudenza costituzionale è andata gradualmente evolvendo, e, già con la sentenza n. 265 del 1994, sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi gli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedevano la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente quando questo ha formato oggetto di contestazione “tardiva”.
Nella ricordata pronuncia, questa Corte ha rilevato che le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono a dipendere anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero; sicché, «quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali». In questo caso, secondo la Corte, è violato anche il principio di eguaglianza, «venendo l’imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell’accesso ai procedimenti speciali, in dipendenza della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero .
3.3.– Alle stesse conclusioni, con la sentenza n. 184 del 2014, questa Corte è giunta nel caso, analogo a quello in questione, della contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, rilevando che la motivazione della sentenza n. 265 del 1994 poteva riferirsi anche alla contestazione “tardiva” di una o più circostanze aggravanti, in quanto «anche la trasformazione dell’originaria imputazione in un’ipotesi circostanziata (o pluricircostanziata) determina un significativo mutamento del quadro processuale». Le circostanze aggravanti possono, infatti, incidere in modo rilevante «sull’entità della sanzione» – tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale – e talvolta «sullo stesso regime di procedibilità del reato, o, ancora, sull’applicabilità di alcune sanzioni sostitutive», come nel caso oggetto del giudizio a quo (sentenza n. 184 del 2014).
L’imputato che si vede contestare in dibattimento una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine si trova in una situazione non dissimile da quella del destinatario della contestazione “tardiva” di un fatto diverso, «evenienza che in realtà potrebbe costituire per l’imputato anche un pregiudizio minore». Sicché, secondo questa Corte, una volta divenuta ammissibile la richiesta di “patteggiamento” nel caso di modificazione dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., la preclusione di essa nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., sarebbe causa di ingiustificate disparità di trattamento (sentenza n. 184 del 2014).
Per le stesse ragioni, con la sentenza n. 139 del 2015, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevedeva la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione.
4.– Con le decisioni ricordate, questa Corte «ha accomunato le fattispecie regolate dagli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. “in analoghe declaratorie di illegittimità costituzionale inerenti alle contestazioni dibattimentali cosiddette ‘tardive’ o ‘patologiche’, relative, cioè, a fatti che già risultavano dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale” (sentenza n. 273 del 2014)» (sentenza n. 206 del 2017), ma nella successiva evoluzione giurisprudenziale questo requisito è stato superato e la Corte con tre sentenze più recenti ha riconosciuto all’imputato la facoltà di accedere ai riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato anche in seguito a nuove contestazioni “fisiologiche”, collegate cioè non a elementi acquisiti nel corso delle indagini ma alle risultanze dell’istruzione dibattimentale.
Così, con la sentenza n. 237 del 2012 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24, secondo comma, Cost.), l’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il reato concorrente, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale. Con la sentenza n. 273 del 2014 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato per il fatto diverso, emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale. Con la sentenza n. 206 del 2017 è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 516 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedeva la facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento l’applicazione della pena, a norma dell’art. 444 cod. proc. pen., per il fatto diverso emerso nel corso dell’istruzione dibattimentale.
Nelle tre ricordate pronunce questa Corte ha precisato che in seguito alla contestazione, ancorché “fisiologica”, del fatto diverso o di un reato concorrente «l’imputato che subisce la nuova contestazione “viene a trovarsi in posizione diversa e deteriore – quanto alla facoltà di accesso ai riti alternativi e alla fruizione della correlata diminuzione di pena – rispetto a chi, della stessa imputazione, fosse stato chiamato a rispondere sin dall’inizio”. Infatti, “condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti” […] (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenze n. 273 del 2014 e n. 206 del 2017).
Si è perciò ritenuto che, sia quando all’accusa originaria ne viene aggiunta una connessa, sia anche quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni» (sentenza n. 237 del 2012) e richiedere il giudizio abbreviato.
Analoga affermazione è stata fatta per il “patteggiamento”, procedimento in cui la valutazione dell’imputato è indissolubilmente legata, «“ancor più che nel giudizio abbreviato, alla natura dell’addebito, trattandosi non solo di avviare una procedura che permette di definire il merito del processo al di fuori e prima del dibattimento, ma di determinare lo stesso contenuto della decisione, il che non può avvenire se non in riferimento a una ben individuata fattispecie penale” (sentenza n. 265 del 1994)» (sentenza n. 206 del 2017). Sicché, anche rispetto al patteggiamento, quando l’accusa è modificata nei suoi aspetti essenziali, «“non possono non essere restituiti all’imputato termini e condizioni per esprimere le proprie opzioni” (sentenza n. 237 del 2012)» (sentenza n. 273 del 2014).
Questa Corte ha aggiunto che la modificazione dell’imputazione, oltre ad alterare in modo significativo la fisionomia fattuale del tema d’accusa, può avere riflessi di rilievo sull’entità della pena irrogabile e, di conseguenza, sull’incidenza quantitativa dell’effetto premiale connesso al rito speciale.
Sono stati considerati non decisivi in senso contrario gli argomenti fatti valere in passato, relativi, da un lato, alla necessaria correlazione, nei procedimenti speciali, tra premialità e deflazione processuale e, dall’altro, all’assunzione, da parte dell’imputato (che non abbia tempestivamente chiesto il rito alternativo), del rischio della modificazione dell’imputazione per effetto di sopravvenienze. Questa Corte ha rilevato che l’accesso al rito alternativo dopo l’inizio del dibattimento rimane comunque idoneo a produrre un’economia processuale, anche se attenuata, e che in ogni caso le ragioni della deflazione processuale debbono recedere di fronte ai princìpi posti dagli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., perché «l’esigenza della “corrispettività” fra riduzione di pena e deflazione processuale non può prendere il sopravvento sul principio di eguaglianza né tantomeno sul diritto di difesa» (sentenza n. 237 del 2012).
5.– In un quadro complessivo di principi, quale quello che, come è stato ricordato, si è andato delineando in modo sempre più nitido attraverso l’evoluzione giurisprudenziale, è chiaro che, nel caso di contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, non prevedere nell’art. 517 cod. proc. pen. la facoltà per l’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova si risolve, come è stato ritenuto per il patteggiamento e per il giudizio abbreviato, in una violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
La richiesta dei riti alternativi infatti «costituisce […] una modalità, tra le più qualificanti (sentenza n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995 e n. 76 del 1993)» (sentenza n. 237 del 2012), e si determinerebbe una situazione in contrasto con il principio posto dall’art. 3 Cost. se nella medesima situazione processuale fosse regolata diversamente la facoltà di chiederli.
Né rileva la circostanza, dedotta dall’Avvocatura dello Stato, che, nel momento processuale in cui nel procedimento a quo avrebbe dovuto essere presentata la richiesta, la legge n. 67 del 2014 non era ancora stata emanata. Infatti per valutare l’ammissibilità della richiesta non è a quel momento che occorre fare riferimento, ma al momento in cui è avvenuta la contestazione suppletiva, dato che, come si è visto, il riconoscimento della facoltà di chiedere il rito speciale non deve più ritenersi condizionato dalla “tardività” della contestazione.
Se si dovesse riconoscere tale facoltà solo nel caso in cui gli elementi alla base della contestazione suppletiva erano già presenti al momento in cui la richiesta avrebbe dovuto essere presentata, la sua ammissibilità in seguito a tale contestazione costituirebbe il recupero di una facoltà difensiva non potuta esercitare a suo tempo per l’errore compiuto dal pubblico ministero, e quindi si potrebbe argomentare che non esistendo all’epoca quella facoltà nessun recupero sarebbe configurabile. Se però, come ha riconosciuto questa Corte con la più recente giurisprudenza, la facoltà di chiedere un rito speciale deve riconoscersi all’imputato anche quando la contestazione suppletiva è determinata, come del resto dovrebbe normalmente avvenire, da una sopravvenienza dibattimentale, allora è nella sopravvenienza, e soprattutto nella correlativa contestazione suppletiva, che trova fondamento la facoltà di chiedere un rito speciale.
Il dato rilevante insomma è la sopravvenienza di una contestazione suppletiva, quali che siano gli elementi che l’hanno giustificata, esistenti fin dalle indagini o acquisiti nel corso del dibattimento, ed è ad essa che deve ricollegarsi la facoltà dell’imputato di chiedere un rito alternativo, indipendentemente dalla ragione per cui la richiesta in precedenza è mancata.
È nel diritto di difesa che la “nuova” facoltà trova il suo fondamento, perché, se, come si è ricordato, la richiesta dei riti alternativi costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio di tale diritto, occorre allora che la relativa facoltà sia collegata anche all’imputazione che, per effetto della contestazione suppletiva, deve effettivamente formare oggetto del giudizio.
6.– In conclusione, per il contrasto con gli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., l’art. 517 cod. proc. pen. va dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui, in seguito alla nuova contestazione di una circostanza aggravante, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 marzo 2018.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente e Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 luglio 2018.
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