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Penale.it - Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 14 ottobre 2009 (dep. 29 aprile 2010), n. 16556

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Corte di Cassazione, sezione V penale, sentenza 14 ottobre 2009 (dep. 29 aprile 2010), n. 16556
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Un prima sentenza in tema di "captatori informatici" ed intercettazioni

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CALABRESE Renato Luigi - Presidente

Dott. PIZZUTI Giuseppe - rel. Consigliere

Dott. AMATO Alfonso - Consigliere

Dott. SCALERA Vito - Consigliere

Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA/ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

01) V.G. N. IL (OMISSIS);

02) S.S. N. IL (OMISSIS);

03) M.O. N. IL (OMISSIS);

04) E.F. N. IL (OMISSIS);

05) F.I. N. IL (OMISSIS);

06) B.C. N. IL (OMISSIS);

07) L.G.F. N. IL (OMISSIS);

08) MA.NI. N. IL (OMISSIS);

09) P.G. N. IL (OMISSIS);

10) VA.SE. N. IL (OMISSIS);

11) D.F.G. N. IL (OMISSIS);

12) R.N. N. IL (OMISSIS);

13) R.D. N. IL (OMISSIS);

14) L.M.G. N. IL (OMISSIS);

15) SP.GE. N. IL (OMISSIS);

16) BA.PA. N. IL (OMISSIS);

17) VI.GI. N. IL (OMISSIS);

18) T.A. N. IL (OMISSIS);

19) LA.DU.MA. N. IL (OMISSIS);

20) ASSOCIAZIONE S.O.S IMPRESE - PALERMO;

21) COMUNE DI CASTELDACCIA;

22) CONSORZIO METROPOLI EST S.R.L.;

23) COMUNE DI BAGHERIA;

avverso la sentenza n. 3113/2007 CORTE APPELLO di PALERMO, del 15/07/2008;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 14/10/2009 la relazione fatta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE PIZZUTI;

udito il P.G. in persona del Dott. SALZANO Francesco che ha concluso per l'a.c.r. limitatamente al trattamento sanzionatorio del M., e rigetto nel resto del ricorso del medesimo imputato in accoglimento del secondo motivo del ricorso delle PP.CC.;

chiede l'a.c.r. della sentenza e conclude, poi, per il rigetto di tutti gli altri ricorsi;

udito il dif. delle P.C.: Avv. Amato Fausto Maria;

uditi i dif. avv.ti: Fragalà Vincenzo, Sbacchi Gioacchino, Tricali Roberto Fabio, Vianello Accerredi Valerio, Priola Salvatore, Nascè Maria Teresa, Clementi Marco, Monsignore Raffaele; La Blasca Domenico, Raggio Francesco e Caduogno Carlo.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con sentenza del 15.7.2008 (depositata il 9.1.2009) la Corte d'appello di Palermo, per quanto rileva in questa sede, confermava la responsabilità di:

- BA.Pa. in ordine al reato di cui al capo 1), riducendo la pena ad anni sette di reclusione;

- B.C. in ordine ai reati di cui ai capi 2), 19) e 41), ribadendo la pena di anni sette, mesi sei di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa;

- D.F.G. in ordine ai reati di cui ai capi 1), 16) e 33), esclusa per il reato sub 1) l'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2, riducendo la pena ad anni otto, mesi quattro di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa;

- E.F. in ordine al reato di cui all'art. 379 c.p., comma 1, L. n. 203 del 1991, art. 7 ribadendo la pena (sospesa) di anni uno e mesi quattro di reclusione;

- F.I. in ordine ai reati di cui ai capi 2) e 45), ribadendo la pena di anni dieci di reclusione ed Euro 32.000,00 di multa;

- L.D.M. in ordine al reato di cui al capo 44), ribadendo la pena di anni due di reclusione;

- L.M.G. in ordine al reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 4 e 5, riducendo la pena ad anni quattro e mesi quattro di reclusione;

- L.G.F. in ordine al reato di cui all'art. 378 c.p.p., commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 riducendo la pena ad anni due e mesi quattro di reclusione;

- MA.Ni. in ordine ai reati di cui al capi 1) e 45), riducendo la pena ad anni nove e mesi otto di reclusione;

- M.O. in ordine ai reati di cui al capo 1) ed ai capi da 16) a 31), riducendo la pena ad anni quattordici di reclusione ed Euro 2.300,00 di multa;

- P.G. in ordine ai reati di cui ai capi 1), 14) e 15), riducendo la pena ad anni dieci di reclusione ed Euro 1.400,00 di multa;

- R.D. in ordine al reato di cui al capo 2), riducendo la pena ad anni cinque e mesi otto di reclusione;

- R.N. in ordine al reato di cui al capo 2), riducendo la pena ad anni cinque e mesi otto di reclusione;

- S.S. in ordine ai reati di cui ai capi 1) e 11), riducendo la pena ad anni tredici, mesi quattro ed Euro 2.400,00 di multa;

- SP.Ge. in ordine al reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 4 e 5, riducendo la pena ad anni quattro e mesi quattro di reclusione;

- T.A. in ordine al reato di cui al capo 1), riducendo la pena ad anni sette di reclusione;

- VA.Se. in ordine ai reati di cui ai capi 2) e 14), riducendo la pena ad anni sette, mesi otto di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa;

- VI.Gi. (classe (OMISSIS)) in ordine ai reati di cui ai capi 2) e 15), riducendo la pena ad anni sette, mesi otto di reclusione ed Euro 1.200,00 di multa;

- V.G. (classe (OMISSIS)) in ordine al reato di cui all'art. 378 c..p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 così derubricato l'originario addebito ex art. 416 bis c.p., commi 3, 4 e 6 sub capo 2), riducendo la pena ad anni tre di reclusione;

confermava, nei confronti dei predetti, le statuizioni civili della sentenza di primo grado (pronunciata dal g.u.p. del tribunale di Palermo in data 15.11.2006) Avverso la summenzionata sentenza della Corte d'appello di Palermo i sopra indicati imputati proponevano, per mezzo dei rispettivi difensori, ricorsi per cassazione.

Parimenti, le parti civili Comune di Bagheria, Comune di Casteldaccia, Associazione "S.O.S. Impresa Palermo", Consorzio Metropolis Est Palermo s.r.l. proponevano, per mezzo del medesimo difensore, ricorsi per cassazione.

Il difensore di BA.Pa. deduceva:

1) Violazione di legge (art. 416 bis c.p., artt. 234, 191, 244, 266, 266 bis e 271 c.p.p., artt. 2, 13, 14, 15, 24 e 111 Cost., artt. 359, 360, 189, 128 e 240 c.p.p.) e vizio di motivazione con riferimento all'utilizzazione dei risultati dell'attività di indagine disposta dal P.M. con decreto del 22.4.2004.

Il "decreto di acquisizione di atti ai sensi dell'art. 234 c.p.p.", emesso dal P.M. il 22.4.2004, aveva ad oggetto l'acquisizione in copia della documentazione (informatica) memorizzata all'interno del personal computer, ritenuto in uso a BA.Pa., installato presso gli uffici del depuratore per acque potabili del Comune di Villafrati.

La difesa aveva eccepito con i motivi di appello che il predetto decreto del P.M., pur autorizzando una mera acquisizione in copia di atti, avrebbe costituito di fatto la premessa per condurre un'attività di intercettazione di comunicazioni informatiche ai sensi dell'art. 266 bis e seg. c.p.p.. Invero, il decreto avrebbe disposto la registrazione non solo dei files esistenti, ma anche dei dati che sarebbero stati inseriti in futuro nel personal computer, in modo da acquisirli periodicamente. Confermerebbero tale tesi le concrete modalità esecutive del decreto de quo, consistite nella installazione, all'interno del sistema operativo del personal computer, di un captatore informatico (gosth) in grado di memorizzare i files già esistenti e di registrare in tempo reale tutti i files elaborandi, in tal modo innescando un monitoraggio occulto e continuativo del detto computer (protrattosi per oltre otto mesi).

A fronte dell'illustrata eccezione la Corte d'appello avrebbe contraddittoriamente negato che l'attività captativa posta in essere dalla Polizia di Stato su autorizzazione del P.M. fosse sussumibile nella disposizione introdotta con l'art. 266 bis c.p.p., sul rilievo che la registrazione non avrebbe avuto ad oggetto "un flusso di comunicazioni", presupponente un dialogo con altri soggetti, ma "una relazione operativa tra microprocessore e video del sistema elettronico", "un flusso unidirezionale di dati" confinato all'interno dei circuiti del personal computer.

La corte territoriale, secondo il ricorrente, sarebbe incorsa in un errore di diritto, giacchè le intercettazioni informatiche e telematiche sarebbero dirette a captare "un flusso di comunicazioni relativo a sistemi oppure intercorrenti tra più sistemi informatici o telematici", a nulla rilevando il numero degli utenti (anche uno solo) interagenti con il sistema intercettato.

La novità della previsione normativa contemplata nell'art. 266 bis c.p.p. sarebbe rappresentata non solo dall'avere esteso l'ambito di ammissibilità delle intercettazioni ai procedimenti aventi ad oggetto i computer's crimes, ma dall'avere consentito l'intercettazione del flusso di dati numerici (bit) nell'ambito dei singoli sistemi oppure intercorrenti tra più sistemi, prescindendo dal numero dei soggetti coinvolti nell'interazione elettronica.

L'attività di indagine effettivamente dispiegata dagli investigatori sulla scorta del decreto del P.M. 22.4.2004 (installazione di un congegno di captazione nel sistema operativo, registrazione continuativa, occulta ed in tempo reale, del flusso dei dati ivi inseriti dall'utente) sarebbe consistita in una vera e propria intercettazione di comunicazioni informatiche, ai sensi dell'art. 266 bis c.p.p..

Conseguentemente, i risultati delle captazioni informatiche eseguite, nella specie, in dispregio delle disposizioni degli artt. 266 bis e seg. c.p.p. sarebbero inutilizzabili a norma dell'art. 271 c.p.p..

In ogni caso, il materiale raccolto dagli inquirenti compendierebbe in sè "prove incostituzionali", inutilizzabili a norma dell'art. 191 c.p.p..

Sarebbero, invero, stati violati l'art. 14 Cost., che sancisce l'inviolabilità del domicilio, l'art. 15 Cost., che tutela la libertà e segretezza della corrispondenza. Contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di merito, l'ufficio in cui il BA. svolgeva in modo continuativo e stabile la propria attività lavorative, pur essendo aperto al pubblico, dovrebbe essere ricompresso nel contesto domiciliare, e i messaggi o le missive elaborati o elaborandi costituirebbero corrispondenza epistolare dell'imputato. Il protocollo adottato dal P.M. avrebbe violato anche gli artt. 24 e 111 Cost..

Non sarebbe, altresì, stata osservata la disciplina prevista per gli accertamenti tecnici irripetibili (artt. 359 e 360 c.p.p.) con la realizzazione di ulteriore violazione di legge.

Peraltro la disciplina di cui all'art. 189 c.p.p. avrebbe imposto l'acquisizione in contraddittorio della prova documentale captata dal personal computer.

Il decreto del P.M. 22.4.2004 mancherebbe, inoltre, di data certa per l'assenza di attestazione del relativo deposito. infine, la documentazione captata sarebbe inutilizzabile anche ai sensi dell'art. 240 c.p.p. sugli scritti anonimi, non essendo identificabile la provenienza dei documenti.

2) Illegittimità costituzionale dell'art. 234 c.p.p. siccome interpretato dalla corte d'appello in relazione all'art. 117 Cost., commi 1, art. 8 e art. 6, comma 1, CEDU. Secondo quanto affermato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 348 e 349 del 2007 (22.10.2007), l'art. 117 Cost., comma 1 comporterebbe l'obbligo del legislatore ordinario di rispettare le norme della CEDU, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la CEDU stessa e dunque con gli obblighi internazionali di cui al citato art. 117 Cost., comma 1 violerebbe tale parametro costituzionale.

Nella specie, sarebbe evidente la non conformità dell'art. 234 c.p.p., come interpretato dalla corte territoriale con gli artt. 8 e 6 CEDU, come vivificati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo.

3) Vizio di motivazione con riferimento al rigetto della richiesta di revoca o sospensione della provvisionale ai sensi dell'art. 600 c.p.p., comma 3.

La Corte Costituzionale avrebbe indicato come modulo valutativo non già il danno, ma i gravi motivi, che pure sarebbero stati dedotti.

4) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2.

La corte d'appello avrebbe ritenuto apoditticamente che vi sarebbe coincidenza tra il soggetto che aveva materialmente compilato le missive e colui che ne aveva elaborato il contenuto e cioè che colui che aveva provveduto a scrivere con il computer il testo poi captato ed acquisito ne fosse l'autore e non il mero copista.

Comunque, l'assunto della corte d'appello dimostrerebbe al più che il compilatore fosse un associato, ma non anche un dirigente dell'associazione.

La figura del capo che si presta a fare il postino sarebbe intrinsecamente contraddittoria.

L'identificazione del BA. con il soggetto autore dei files relativi alle missive in questione sarebbe del tutto apodittica.

5) Violazione di legge artt. 62 bis, 69 e 133 c.p.) e vizio di motivazione con riferimento al diniego delle attenuati generiche ed alla mancata applicazione della pena nel minimo edittale.

Il difensore di B.C. deduceva:

1) Mancata assunzione di prova decisiva con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per esaminare la persona offesa D.C.A., al fine di dimostrare che non si sarebbe trattato di un'estorsione, ma di una semplice richiesta di aiuto economico.

2) Violazione di legge (art. 629 c.p., art. 192 c.p.p., commi 1 e 2), vizio di motivazione e travisamento della prova con riferimento alla conferma della responsabilità del B. per il reato di estorsione aggravata sub capo 19).

Il reato non sarebbe configurabile in assenza di minaccia e di metus.

I metodi della richiesta non sarebbero quelli tipici della mafia, la cifra annotata non corrisponderebbe a quella consegnata e quindi l'annotazione sul libro mastro non si riferirebbe alla somma che il B. avrebbe richiesto (a titolo di prestito).

3) Violazione di legge (L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, L. n. 203 del 1991, art. 7 e art. 2 c.p.) in relazione al reato sub capo 41).

La società, di cui il B. si sarebbe attribuito la formale titolarità sin dalla costituzione, risalirebbe al 10.9.1987, epoca, in cui sia il reato de quo, di natura istantanea, sia l'aggravante non erano ancora stati introdotti nell'ordinamento giuridico italiano.

Il fatto, quindi, non costituisce reato.

4) Vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità del B. per il reato sub capo 41).

L'avere utilizzato un atto pubblico, rogato da notaio, per la cessione della "Sicula Marmi", dimostrerebbe che il B. sarebbe stato il reale proprietario della società dalla sua costituzione fino all'aprile del 2004 quando sarebbe stata venduta alla moglie dell' E..

Il difensore di D.F.G. deduceva:

1) Violazione della legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per l'estorsione aggravata in danno di C.G. sub capo 33).

Il D.F. si sarebbe limitato ad effettuare una mera annotazione contabile su due mazzette di denaro e a conservare il denaro presso la sua abitazione, senza essere concorso nell'attività estorsiva per l'assenza di qualsiasi apporto causale, essendosi il suo intervento consumato in un momento successivo alla perpetrazione dell'estorsione.

Non risulterebbe nè dalle intercettazioni nè dalle dichiarazioni della vittima che l'imputato abbia avuto un ruolo nell'estorsione in questione, dalla quale avrebbe dovuto essere assolto.

2) Violazione della legge penale e vizio di motivazione con riferimento alla confisca delle somme di denaro depositate in un libretto di deposito a risparmio, intestato a D.F.G. e Gu. (fratello dell'imputato).

Il D.F. avrebbe dimostrato, anche attraverso una consulenza di parte, che gli investimenti in titoli sarebbero da attribuire a risparmi accumulati dai propri genitori e donati dalla madre ai due figli già diversi anni prima (1996/1997), rispetto al periodo (agosto 2004) in cui egli sarebbe subentrato al M. nella gestione della cassa della famiglia mafiosa di Bagheria.

Sul punto la corte d'appello avrebbe fornito scarne, illogiche ed insufficienti motivazioni.

3) Violazione della legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità del D.F. per partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.).

La corte d'appello avrebbe condannato l'imputato per un fatto diverso, la partecipazione di cui all'art 416 bis c.p., comma 1 rispetto all'imputazione originariamente contestatagli ex art. 416 c.p., comma 2, fattispecie distinta ed autonoma e non circostanza aggravante.

4) Violazione della legge penale sostanziale e processuale con riferimento alla responsabilità del D.F. per il reato di estorsione aggravata in danno di A.U. sub capo 16).

Le annotazioni contenute nel "libro mastro" sarebbero risultate riconducibili alla mano di altro soggetto. Il riconoscimento in fotografia, effettato dall' A., sarebbe inutilizzabile, essendo stato raccolto in assenza delle garanzie di cui all'art. 213 c.p.p..

La corte d'appello non avrebbe risposto alle censure della difesa dell'imputato.

Il difensore di E.F. deduceva violazione della legge penale e difetto di motivazione con riferimento:

1) alla conferma della responsabilità dell'imputato e 2) alla ritenuta sussistenza dell'aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

L'elemento materiale del reato di cui all'art. 379 c.p. sarebbe addirittura insussistente, in quanto l'eventuale intestazione fittizia delle quote della "Sicula Marmi" al B. nell'anno 1987 non avrebbe avuto all'epoca rilievo penale, essendo il reato presupposto L. n. 357 del 1992, ex art. 12 quinquies, di natura istantanea, stato introdotto cinque anni dopo.

Comunque, sarebbe carente l'elemento soggettivo in capo all' E., all'epoca poco più che ventenne.

In ogni caso, non ricorrerebbe l'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, poichè l'imputato avrebbe agito nell'interesse dell'impresa senza avere avuto alcun contatto con altri soggetti appartenenti all'organizzazione mafiosa.

Il difensore di F.I. deduceva:

1) Violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato accoglimento della richiesta di riapertura dell'istruzione dibattimentale (acquisizione di un verbale di interrogatorio, reso da Cu.Ma. in altro procedimento penale a carico del F., indispensabile, secondo la difesa, ai fini del decidere).

2) Violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato.

La corte d'appello avrebbe valorizzato le propalazioni accusatorie dei collaboratori Cu. e Ca., attribuendo reciproco riscontro alle stesse, nonostante gli evidenti (e dedotti) contrasti, in totale assenza di certi ed oggettivi riscontri estrinseci individualizzanti, inerenti sia al fatto che alla specifica condotta posta in essere dall'imputato.

D'altra parte, il contenuto delle conversazioni intercettate non dimostrerebbe l'asserto accusatorio, posto che i servizi di osservazione, pedinamento e controllo non avrebbero documentato mai l'effettivo svolgimento di alcun incontro o riunione.

3) Violazione di legge, carenza ed illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui all'art. 416 bis c.p., commi 4 e 6.

La corte d'appello avrebbe al proposito utilizzato il cd. "dato notorio" e la semplice presunzione.

Nella specie, non sussisterebbero elementi probatori idonei a dimostrare che l'imputato avesse avuto disponibilità di armi all'interno dell'associazione o avesse partecipato attivamente al reinvestimento di profitti illeciti.

4) Violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche ed alla mancata riduzione della pena.

Al riguardo, sarebbe illegittimo il richiamo della sentenza non irrevocabile della Corte d'assise di Palermo, che aveva condannato il F. all'ergastolo per concorso nell'omicidio di G.S.. Mancherebbe, poi, alcuna motivazione in merito al differente trattamento sanzionatorio adottato nei confronti dei correi con grave ed ingiustificata sperequazione a carico del F..

5) Violazione di legge, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all'applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata senza un previo accertamento della pericolosità sociale del F..

Il difensore di L.D.M. deduceva:

1) Violazione di legge (art. 378 c.p., commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7) e mancanza di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità ed alla ritenuta sussistenza dell'aggravante speciale.

Il locale sarebbe stato subaffittato a S.S., non conosciuto dal L.D., per un breve periodo, perchè quest'ultimo sarebbe stato mosso a compassione e nell'inconsapevolezza della "caratura del latitante".

L'aggravante speciale non sussisterebbe, dovendo distinguersi l'aiuto prestato alla persona da quello prestato all'associazione.

2) Violazione di legge (artt. 62 bis, 132 e 133 c.p.) e vizio di motivazione con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche ed alla mancata riduzione della pena.

Il difensore di L.M.G. e SP.Ge., con unico ricorso, deduceva:

1) Inosservanza di norme processuali (artt. 266 bis e ss. e 191 c.p.p., artt. 2, 13, 14, 15 e 24 Cost.), mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta utilizzabilità dei risultati dell'attività di indagine disposta con decreto del P.M. 22.4.2004.

Trattasi di motivo analogo al primo motivo del ricorso di BA.Pa., al quale si rinvia.

2) Inosservanza e/o errata applicazione della legge penale sostanziale (art. 416 bis c.p.) e processuale (art. 192 c.p.p.), mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità degli imputati.

La corte d'appello avrebbe esasperato il metodo della "lettura a mosaico" adottata dal g.u.p., in contrasto con il disposto dell'art. 192 c.p.p., comma 2, senza rispondere adeguatamente alle censure formulate al riguardo nell'atto di appello.

Ciò concernerebbe il presunto incontro tra il L.M., lo S. e lo Sp., le propalazioni del Gi., i cd. "pizzini" in cui non si farebbe mai menzione dei nomi del L.M. e dello SP..

La corte d'appello avrebbe proceduto ad un apprezzamento unitario del materiale raccolto, la cui valenza qualitativa individuale non supererebbe il preliminare scrutinio di gravità e precisione imposto dall'art. 192 c.p.p..

Sul piano argomentativo sarebbe del tutto illogico e, comunque, in contrasto con altri elementi processuali, identificare "il figlio e cognato di P." indicato nei pizzini in SP.Ge. ed il di lui affine in L.M.G..

La corte d'appello avrebbe violato ancora l'art. 192 c.p.p. in relazione ai presunti incontri dei ricorrenti con Sp.Gi. e S.S. nella masseria tra (OMISSIS), supplendo alla mancanza di dati certi, in ordine al motivo ed al tema dei convegni, con il metterli in relazione con le dichiarazioni del Gi. e le lettere del BA..

3) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento al rigetto della richiesta di revoca o sospensione della provvisionale ai sensi dell'art. 600 c.p.p., comma 3.

La Corte Costituzionale avrebbe indicato come modulo valutativo non già il danno, ma i gravi motivi, che pure sarebbero stati dedotti.

4) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza delle aggravanti ex art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, al diniego delle attenuanti generiche ed all'entità della pena.

La difesa di L.G.F. deduceva:

1) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta configurabilità del reato di favoreggiamento pluriaggravato.

La corte d'appello, nel pronunciare la responsabilità dell'imputato, sebbene la configurasse esclusivamente per l'episodio del 29.7.2003, avrebbe trasferita tale responsabiltià in modo "automatico" all'intero arco di tempo in cui S.S. era rimasto latitante.

2) Mancanza e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità del L.G. per il delitto di favoreggiamento relativamente all'episodio del 29.7.2003.

Nessuna attività di ostacolo sarebbe stata realizzata nei confronti delle forze dell'ordine da parte dell'imputato, che non si sarebbe neanche accorto della loro presenza.

3) Mancanza ed illogicità della motivazione riguardo al profilo della conoscenza da parte dell'imputato della qualità di associato mafioso dello S., violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, nonchè violazione di legge in ordine al ritenuto concorso di quest'ultima aggravante con quella prevista dall'art. 378 c.p., comma 2.

La corte d'appello avrebbe ricavato la consapevolezza da parte dell'imputato dell'appartenenza dello S. all'associazione mafiosa dagli elementi investigativi, che dal giudice di primo grado sarebbero stati ritenuti insufficienti per affermare la responsabilità del L.G. per il reato di cui all'art. 416 bis c.p..

La difesa di MA.Ni. deduceva:

1) Violazione di legge e mancanza o manifesta illogicità della motivazione o comunque motivazione apparente con riferimento alla conferma della responsabilità del MA. per il reato ex art. 416 bis c.p..

La corte territoriale avrebbe utilizzato le dichiarazioni accusatorie dei collaboratori di giustizia Cu. e Ca. in violazione delle regole che governano la valutazione della chiamata in correità o in reità.

In particolare, la corte territoriale non avrebbe risposto adeguatamente alle censure formulate nell'atto di appello circa l'inattendibilità intrinseca dei predetti collaboratori, animati da rancore ed astio nei confronti del MA., o comunque avrebbe fornito sul punto una motivazione apparente.

Inoltre, gli esiti delle intercettazioni ambientali delle conversazioni tra il MA. e l'amante sarebbero irrilevanti, in quanto le esternazioni dell'imputato sarebbero state effettuate a seguito di abuso di sostanze stupefacenti (cocaina) e non sarebbero veritiere. Sul punto la corte territoriale non avrebbe risposto alle deduzioni formulate con l'atto di appello.

2) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità del MA. per il reato sub capo 45).

Le risultanze dell'intercettazione della conversazione del 19.2.2004 tra il MA. e l'amante non si risolverebbero in una "involontaria confessione", ma in una invenzione dell'imputato per giustificarsi di avere ancora fatto uso di cocaina al fine di placare l'ira della compagna. Sul punto sussisterebbe carenza di motivazione sulle deduzioni dell'atto di appello.

Il difensore di M.O. deduceva:

1) Violazione dell'art. 597 c.p.p., comma 3 (divieto della reformatio in peius) con riferimento - in relazione alla rideterminazione della pena in appello - all'aumento di pena per la continuazione con il reato ex art. 416 bis c.p. di anni 3 e mesi 4 di reclusione, maggiore di quello operato dal giudice di primo grado nella misura di anni 1 di reclusione.

2) Violazione di legge (art. 603 c.p.p. e art. 441 c.p.p., comma 5), mancata assunzione di una prova decisiva e difetto di motivazione con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione del dibattimento, per acquisire la relazione tecnico grafica redatta dal consulente di parte prof. An. e per esaminare quest'ultimo, ancorchè le prove richiesta fossero necessarie ai fini della decisione, atteso che la responsabilità dell'imputato sarebbe stata fondata essenzialmente sulla consulenza tecnografica disposta dal P.M..

3) Violazione di legge (art. 649 c.p.p.) con riferimento alla ritenuta rilevanza delle dichiarazioni del collaboratore Gi., in quanto aventi ad oggetto circostanze coperte da precedente giudicato, in ragione della sentenza assolutoria irrevocabile, emessa dalla Corte d'appello di Palermo in data 31.10.2001 nei confronti del M. in relazione al medesimo reato di cui all'art 416 bis c.p..

4) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 416 bis c.p. sub capo 1) ed alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui allo stesso art. 416 bis c.p., comma 2 (qualità di organizzatore).

Tale qualità sarebbe incompatibile con il passaggio della gestione della "cassa comune" al coimputato D.F.G..

La corte d'appello avrebbe escluso a carico del D.F. l'ipotesi aggravata di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2, pur in presenza delle medesime contestazioni elevate al M. e riconosciute dai giudici di appello anche a carico del D.F.. Nei confronti di quest'ultimo la corte territoriale avrebbe inspiegabilmente adoperato un metro di valutazione assolutamente diverso e contrastante rispetto a quello utilizzato per la posizione del M..

Il quadro probatorio, esclusa l'ipotesi aggravata di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2, avrebbe dovuto essere sfrondato da una serie di circostanze prive di rilevanza indiziaria (dichiarazioni del Gi. e del Cu., presunto coinvolgimento nel sistema di smistamento dei "pizzini", ecc.), per poi valutare la complessiva tenuta in ordine alla semplice partecipazione ad associazione mafiosa attraverso la cd. "prova di resistenza". 5) Violazione di legge (art. 629 c.p.) e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per i reati di estorsione aggravata sub capi da 16) a 31).

La corte d'appello avrebbe contraddittoriamente adottato con riferimento alla posizione del M. parametri di valutazione diametralmente opposti a quelli utilizzati per il D.F., pur in presenza del denaro contante provento di estorsioni all'interno dell'abitazione del D.F., gestore della "cassa comune" dall'agosto 2004.

Il difensore di P.G. deduceva:

1) Violazione della legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art 416 bis c.p. (capo 1), segnatamente all'assunzione della qualità di capo.

La corte d'appello avrebbe utilizzato le dichiarazioni imprecise e contraddittorie dei collaboratori di giustizia in dispregio delle regole che governano la valutazione delle chiamate in reità o in correità e non avrebbe confutato le deduzioni formulate con i motivi di gravarne.

La partecipazione del P. alla cd. "via dei pizzini" non comproverebbe comunque il ruolo dirigenziale o verticistico contestato al P. medesimo.

La sentenza impugnata si sarebbe limitata a "ricopiare pedissequamente" le argomentazioni svolte nella sentenza di primo grado.

2) Violazione della legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per il reato di estorsione aggravata in concorso in danno di Po.Ag. sub capo 14).

L'analisi del contenuto delle missive tra Pr. e Gi. non consentirebbe di identificare con certezza il soggetto indicato come " P." o " P." con il P. e a tale indicazione non potrebbe essere riconosciuto carattere individualizzante, non trattandosi di elemento certo.

3) Violazione della legge penale sostanziale e processuale e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per il reato di estorsione aggravata in concorso in danno di Gu.Gi. sub capo 15).

La corte d'appello non avrebbe confutato adeguatamente le deduzioni formulate con il gravame, evidenzianti la carenza dell'elemento soggettivo per essere il P. intervenuto al solo fine di ottenere una riduzione della somma richiesta dalla vittima.

Il difensore di R.D. deduceva:

1) Inutilizzabilità degli atti di indagine (compiuti prima del 14.1.2005) per omessa richiesta di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p..

Non varrebbe, nel caso di specie, affermare che gli elementi oggettivi e soggettivi riguarderebbero un fatto diverso.

2) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato.

Il percorso motivazionale si fonderebbe esclusivamente su fatti ipotizzati, che non avrebbero nessun riscontro concreto.

Il contenuto delle intercettazioni ambientali non sarebbe univoco e da esse non potrebbero trarsi condotte specifiche e penalmente rilevanti.

Le dichiarazioni dei collaboratori Cu. e Ca., che avrebbero escluso di essere "uomini d'onore", non supererebbero il vaglio di attendibilità intrinseca e sarebbero prive di riscontri. Dette dichiarazioni, inoltre, sarebbero generiche e de relato.

3) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Il difensore di R.N. deduceva:

1) Inutilizzabilità degli atti compiuti prima del 14.1.2005 per omessa richiesta di riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p..

Il semplice spostamento della data di accertamento del reato non farebbe venir meno l'obbligo dell'autorizzazione per il proseguimento delle indagini. Nè si tratterebbe di fatto diverso.

2) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato.

Il percorso motivazionale si fonderebbe esclusivamente su fatti ipotizzati che non avrebbero nessun riscontro concreto.

Non sussisterebbe alcun elemento dimostrante lo scambio di "pizzini".

Le intercettazioni ambientali non assumerebbero un valore chiaro e le dichiarazioni dei collaboratori Cu. e Ca. sarebbero de relato e generiche.

3) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

Il difensore di S.S. deduceva:

1) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 c.p.p., comma 2.

Il preteso ruolo di capo mandamento di Misilmeri, contestato come assunto dall'imputato dopo la cattura di Sp.Be., costituirebbe una forzature logico - interpretativa delle parole di Gi.An. ed un'enfatizzazione immotivata del contenuto delle captazioni.

Le imprecisioni delle indicazioni del Gi., che non conoscerebbe il cognome dell'imputato, la mancata collocazione temporale del preteso incarico e la dizione adoperata dal pentito ("investitura" "papabile") non comproverebbero, in assenza di qualunque altro elemento, l'assunzione della carica di capo del mandamento da parte dello S.. Nè il preteso ruolo di "capo" dell'imputato emergerebbe dalle captazioni trascritte in sentenza o potrebbe essere ricavato dal rinvenimento di Euro 19.000,00= all'atto dell'arresto.

2) Violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento alla conferma della responsabilità dello S. per il reato sub capo 11).

Gli elementi di prova si ridurrebbero ad un "riconoscimento fotografico anomalo". 3) Violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento alla determinazione della pena, nella parte in cui la corte territoriale ha aggiunto, in continuazione, anni 3 di reclusione ed Euro 300,00= di multa per il reato associativo già giudicato con la sentenza dell'11.4.2003, irrevocabile il 24.6.2004.

Il difensore di T.A. deduceva:

1) Violazione di legge (art. 416 bis c.p.) con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato.

La famiglia mafiosa di Ciminna coinciderebbe con quella di sangue Episcopo - Giglia e sarebbe, alla stregua degli atti, insussistente.

Comunque, i fatti integrerebbero, al più, la fattispecie dell'assistenza agli associati del favoreggiamento personale.

2) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2, che sarebbe insussistente.

Il Gi. avrebbe indicato in altra persona ( c.o., assolto dal reato ex art. 416 bis c.p.) il rappresentante della famiglia di Ciminna.

3) Violazione di legge con riferimento alla mancata concessione delle attenuanti generiche ancorchè il T. fosse incensurato.

Il difensore di VA.Se. deduceva, con unico motivo, violazione ed erronea applicazione dell'art. 192 c.p.p., art. 416 bis c.p., commi 3, 4 e 6, art. 629 c.p., art. 61 c.p., n. 6 e L. n. 203 del 1991, art. 7 nonchè vizio di motivazione in relazione alla conferma della responsabilità dell'imputato.

Il giudizio di colpevolezza sarebbe stato fondato esclusivamente sull'ascolto di alcune intercettazioni ambientali di coimputati, frammentarie e disorganiche, nonchè sulle vaghe, incerte e contraddittorie dichiarazioni rese dal collaboratore Gi.An., prive di alcun riscontro.

Il Gi., peraltro, sarebbe stato incerto anche sull'identificazione nel VA. del "pecoraio", che avrebbe accompagnato la moglie dello stesso Gi., latitante, nel nascondiglio di quest'ultimo.

I "pizzini" non dimostrerebbero la partecipazione del VA. nè all'associazione nè all'estorsione.

Ciò per la loro genericità, inconsistenza e vaghezza, non bastando la semplice indicazione di "Bastiano di Ventimiglia", contenuta nei "pizzini", per poter sic et simpliciter desumere che si tratterebbe del VA.. Anzi, i "pizzini" comproverebbero l'estraneità del VA., emergendo dal loro contenuto che tutto l'affare della discarica di Ventimiglia e dell'imposizione del "pizzo" ai Porcaro sarebbe stato condotto dal P., che, tramite il Pr., avrebbe aggiornato costantemente il Gi. sull'evoluzione della vicenda.

Il difensore di VI.Gi. (classe (OMISSIS)) deduceva:

1) Violazione di legge (artt. 63, 64 e 191 c.p.p.) e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell'eccezione di nullità ed inutilizzabilità dei contenuti dichiarativi dei verbali di interrogatorio resi dai collaboratori D.F.P. (29.6.1996) e Si.An. (9.6.1999) confermati in data 28.6.2001 e 23.8.2001 senza l'osservanza delle sopravvenute prescrizioni di legge.

Vi sarebbe stata una mera "conferma acritica e labiale". Le censure difensive sarebbero state eluse.

2) Violazione di legge (artt. 51 e 54 bis c.p.p., art. 270 c.p.p., comma 2 e art. 191 c.p.p.) e vizio di motivazione con riferimento al rigetto dell'eccezione di nullità ed inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali effettuate dopo il momento nel quale il P.M di Palermo avrebbe dovuto sollevare il contrasto ed il conflitto ai sensi degli artt. 51 e 54 bis c.p.p..

La corte d'appello non avrebbe risposto alle deduzioni difensive.

3) Violazione della legge penale sostanziale (art. 416 bis c.p.) e processuale (artt. 125, 192, 530 e 546 c.p.p.), mancanza e manifesta illogicità della motivazione, travisamento dei fatti con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per il reato di cui all'art. 416 bis c.p..

Non risulterebbe che l'imputato, incensurato sino alla soglia dei 70 anni, abbia avuto rapporti con la quasi totalità dei coimputati e che abbia avuto contatti con il Pr. ed altri esponenti di spicco di "cosa nostra", mentre con il P. vi sarebbe stata una "mera frequentazione".

Nessuno dei "pizzini" citerebbe il VI.. I viaggi di quest'ultimo a Ragusa avrebbero avuto causali e spiegazioni diverse rispetto al ritenuto sistema di smistamento dei pizzini da e per Pr..

Sarebbe indimostrato ed illogico ritenere che destinatario del pizzino, dettato dal P. e registrato in diretta, sarebbe il Pr..

La corte d'appello avrebbe travisato ed utilizzato incongruamente le generiche propalazioni dei collaboratori Si. e D.F., la cui valenza sarebbe carente.

4) Violazione della legge penale sostanziale e processuale, mancanza, manifesta illogicità della motivazione e travisamento dei fatti con riferimento alla conferma della responsabilità dell'imputato per concorso in estorsione aggravata e continuata in danno di Gu.Gi..

Le risultanze probatorie dimostrerebbero un fattivo e benevolo intervento svolto dall'imputato, unitamente al P., all'unico scopo di far ottenere alla vessata persona offesa una considerevole riduzione dell'importo dell'estorsione in denaro con azioni pregresse e del tutto autonome imposto alla medesima persona offesa da terzi ignoti.

La corte territoriale avrebbe travisato e forzato le stesse dichiarazioni rese dalla persona offesa.

Dagli atti, pertanto, si ricaverebbe solo ed unicamente una lodevole e coraggiosa interposizione operata dal VI., che, quindi, sarebbe estraneo al reato sub capo 15).

5) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata derubricazione del reato sub capo 15) nella fattispecie di cui all'art. 378 c.p. o art. 379 c.p..

La corte d'appello non avrebbe risposto alla richiesta subordinata della difesa.

6) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata eliminazione dell'aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

La corte d'appello non avrebbe motivato sulla richiesta di esclusione dell'aggravante, che sarebbe stata erroneamente contestata.

7) Violazione di legge (art. 62 bis c.p.) e vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.

8) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta continuazione in relazione al reato di estorsione aggravata sub capo 15), ancorchè si tratterebbe di un unico reato.

9) Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla pena in concreto irrogata, giustificata con proposizioni enunciative prive di sostanziale significato.

Con motivi aggiunti la difesa dell'imputato insisteva per l'accoglimento del ricorso.

Il difensore di V.G. (classe (OMISSIS)) deduceva violazione della legge penale sostanziale (art. 378 c.p., L. n. 203 del 1991, art. 7) e processuale (artt. 125, 192 e 546 c.p.p.) e vizio di motivazione con riferimento (1) all'affermazione della responsabilità dell'imputato per il reato di favoreggiamento personale aggravato e, comunque, con riferimento (2) alla ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7.

La corte d'appello avrebbe ritenuto che il coacervo probatorio certamente inidoneo a supportare un'accusa di partecipazione all'associazione mafiosa dovesse integrare comunque qualche altro delitto; e, procedendo ad una derubricazione in un'ipotesi più lieve, avrebbe reputato sufficiente fare a meno delle prove che dimostrassero il coinvolgimento dell'imputato nel delitto di favoreggiamento, desunto dalla sola effettuazione di viaggi a Ragusa insieme al cugino omonimo.

In ogni caso, sarebbe carente la prova della volontà dell'imputato di agevolare l'intera organizzazione mafiosa con la conseguente insussistenza della contestata aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7.

Le parti civili Comune di Bagheria, Comune di Casteldaccia, Associazione "S.O.S. Impresa Palermo", Consorzio Metropolis Est s.r.l., per mezzo del comune difensore e con analoghi motivi, deducevano:

1) Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 1 della tariffa penale.

La corte d'appello avrebbe applicato, senza adeguata motivazione, gli onorari medi della tariffa solo in ragione del rito prescelto dagli imputati, senza alcuna considerazione di tutti gli altri indici normativamente previsti.

Segnatamente, detta corte non avrebbe chiarito in alcun modo perchè, nell'applicazione della tariffa forense, avesse fatto riferimento ad uno soltanto dei criteri indicati dall'art. 1 di tale tariffa, quello della difficoltà del procedimento sotto il profilo dell'alligazione probatoria (semplificata in ragione del rito), e non anche a tutti gli altri criteri individuati dalla stessa tariffa.

In effetti, alla luce dei criteri complessivamente indicati dalla citata norma, numerosi parametri avrebbero giustificato il ricorso all'applicazione dei massimi tariffari, se non addirittura il loro superamento ai sensi dell'art. 1, comma 2, della tariffa de qua.

2) Violazione di legge in relazione all'art. 1, comma 5 della tariffa penale.

La corte d'appello avrebbe violato i minimi tariffari con riferimento alla voce 6.2 della tariffa penale.

In particolare, la corte distrettuale avrebbe erroneamente escluso compensi alle parti civili per le udienze di discussione, nelle quali tali parti, oltre alla mera partecipazione, avrebbero assistito passivamente alla discussione del P.M. e dei difensori degli imputati.

Detta esclusione sarebbe in aperto contrasto con la tariffa forense ex D.M. n. 127 del 2004, voce 6.2, che prevedrebbe espressamente la "assistenza discussione altre parti" come voce distinta e separata da quella relativa alla "discussione orale" indicata alla voce 6.3.

Pertanto, la corte d'appello, in evidente violazione del D.M. n. 127 del 2004, non avrebbe liquidato compensi in relazione alle attività difensive espletate in 19 udienze.

Il ricorso di BA.Pa., condannato alla pena di anni sette di reclusione per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4 e 6 (capo 1), deve essere rigettato.

II primo motivo ripropone eccezioni già correttamente respinte, prima dal g.u.p. e poi dalla corte d'appello, con argomentazioni approfondite, esaurienti ed aderenti agli orientamenti della giurisprudenza di legittimità, che non sono scalfite dalle pur pregevoli deduzioni del ricorrente.

La principale eccezione è basata sull'erroneo presupposto che le intercettazioni di comunicazioni informatiche o telematiche di cui all'art. 266 bis c.p.p. sarebbero dirette a captare "un flusso di comunicazioni relativo a sistemi oppure intercorrenti tra più sistemi informatici o telematici", a nulla rilevando il numero dei soggetti (anche uno solo) coinvolti nell'interazione elettronica.

Da tale erroneo presupposto si è tratta la conseguenza, anch'essa erronea, che l'attività captativa disposta dal P.M. con il decreto del 22.4.2004, fosse assoggettabile al regime giuridico previsto dall'art. 266 bis c.p.p., avendo ad oggetto "un flusso di comunicazioni".

I giudici di merito, viceversa, premesso che il predetto decreto del P.M. si era limitato a disporre che, ad opera della polizia giudiziaria, fossero estrapolati dati, sia già formati e contenuti nella memoria del personal computer in uso al BA., sia quelli che in futuro sarebbero stati memorizzati, hanno, correttamente, chiarito che "per flusso di comunicazioni deve intendersi la trasmissione, il trasferimento, di presenza o a distanza, di informazioni da una fonte emittente ad un ricevente, da un soggetto ad altro, ossia il dialogo delle comunicazioni in corso all'interno di un sistema o tra più sistemi infornatici o telematici (Cass. SS.UU. 23.2.2000 n. 6), non potendo ritenersi sufficiente l'elaborazione del pensiero e l'esternazione, anzichè mediante simboli grafici apposti su un supporto cartaceo, in un documento informatico realizzato mediante un sistema di videoscrittura ed in tal modo memorizzato". Nella specie, l'attività autorizzata dal P.M., consistente nel "prelevare e copiare documenti memorizzati sull' "hard disk" dell'apparecchio in uso al BA., aveva avuto ad oggetto non un "flusso di comunicazioni", richiedente un dialogo con altri soggetti, ma "una relazione operativa tra microprocessore e video del sistema elettronico", ossia "un flusso unidirezionale di dati" confinato all'interno dei circuiti del personal computer.

Pertanto, correttamente, i giudici di merito hanno ricondotto l'attività di captazione in questione al concetto di "prova atipica", sottratta alla disciplina prescritta dagli artt. 266 e ss. c.p.p., utilizzandone i risultati.

La corte territoriale ha risposto adeguatamente anche alle altre eccezioni.

Detta corte ha ritenuto, correttamente, che l'attività captativa non avesse violato nè l'art. 14 Cost. nè l'art. 15 Cost.. Invero, l'apparecchio monitorato con l'installazione del captatore informatico non era collocato in un luogo domiciliare ovvero in un luogo di privata dimora, ancorchè intesa nella sua più ampia accezione, bensì in un luogo aperto al pubblico. Il personal computer, infatti, "si trovava nei locali sede di un ufficio pubblico comunale, ove sia l'imputato sia gli altri impiegati avevano accesso per svolgere le loro mansioni ed ove potevano fare ingresso, sia pure in determinate condizioni temporali, il pubblico degli utenti ed il personale delle pulizie, insomma una comunità di soggetti non particolarmente estesa, ma nemmeno limitata o determinabile a priori in ragione di una determinazione personale dell'imputato". D'altra parte, nel caso di specie, non poteva essere invocata la tutela costituzionale della riservatezza della corrispondenza ed in genere delle comunicazioni, giacchè "quanto riprodotto in copia non era un testo inoltrato e trasmesso col sistema informatico, ma soltanto predisposto per essere stampato su supporto cartaceo e successivamente consegnato sino al suo destinatario".

La corte distrettuale ha, altresì, correttamente, escluso che, nella specie, dovesse essere osservata la disciplina prevista per gli accertamenti tecnici irripetibili, atteso che l'attività di riproduzione dei files memorizzati non aveva comportato l'alterazione, nè la distruzione dell'archivio informatico, rimasto immutato, quindi consultabile ed accessibile nelle medesime condizioni, anche dopo l'intervento della polizia giudiziaria. Si era trattato di un'attività sempre reiterabile, alla cui esecuzione non era necessaria la partecipazione del difensore, poichè la stessa avrebbe potuto essere compiuta una seconda volta se si fosse approdato ad uno sviluppo dibattimentale del procedimento.

La corte territoriale ha, pure, correttamente, escluso l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 189 c.p.p., in quanto la mancata acquisizione in contraddittorio della prova documentale estrapolata dal personal computer era dipesa dalla scelta difensiva del rito abbreviato, mentre la prescrizione che impone al giudice di procedere in contraddittorio tra le parti riguarda l'assunzione delle fonti di prova e non dei mezzi di ricerca della prova.

In ordine alla dedotta assenza di data certa sul decreto autorizzativo de quo per la mancata attestazione del relativo deposito, la corte distrettuale ha rilevato, conformemente all'orientamento della giurisprudenza di legittimità, che la certezza circa il momento di esternazione dell'atto giudiziario poteva essere ricavata aliunde da altre attestazioni offrenti eguale certezza e, nella specie, dall'informativa della Squadra Mobile del 26.4.2004, che vi faceva espresso riferimento e che era stata ritualmente depositata nella segreteria della Procura della Repubblica di Palermo.

Relativamente alla dedotta inutilizzabilità, ai sensi dell'art. 240 c.p.p., della documentazione acquisita mediante il decreto del 22.4.2004, la corte di merito ha specificato, nella sentenza impugnata, gli elementi probatori, che dimostravano che i documenti erano stati redatti dal BA., rimarcando, correttamente, che tali documenti, benchè privi di esplicita sottoscrizione, non potevano essere considerati anonimi o di autore incerto ed indeterminato, secondo la nozione fornita dal citato art. 240 c.p.p., che, peraltro, consente l'utilizzazione degli scritti "comunque" provenienti dall'imputato.

Con il secondo motivo, il ricorrente propone un'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 234 c.p.p. manifestamente infondata, giacchè è sostanzialmente basata sulla pretesa violazione delle norme esaminate nel primo motivo, rivelatasi insussistente.

Il terzo motivo è destituito di fondamento, avendo la corte territoriale rigettato la richiesta di revoca o di sospensione della provvisionale ex art. 600 c.p.p., comma 3 per "la genericità della richiesta".

Con il quarto motivo, il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" (per lui più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

Comunque, la corte distrettuale ha motivato la conferma della responsabilità dell'imputato in relazione al reato ascrittogli e, segnatamente, della sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2, con argomentazioni ampie, adeguate ed esenti da vizi logici e giuridici.

In particolare, la corte distrettuale ha evidenziato che le risultanze dell'acquisizione in copia della documentazione memorizzata nel personal computer, in uso al BA. nell'ufficio del depuratore del Comune di Villafrati, delle intercettazioni, dei servizi di pedinamento ed osservazione, nonchè delle relazioni di servizio e delle informative della polizia giudiziaria comprovavano l'appartenenza dell'imputato a "cosa nostra", quale rappresentante della famiglia mafiosa di Villafrati. Era dimostrato, invero, che il BA. aveva diretto la citata famiglia mafiosa, aveva organizzato e partecipato ad incontri con altri esponenti mafiosi, aveva raccolto ed inoltrato al Pr. denaro provento di estorsioni, aveva contribuito in maniera determinante al mantenimento da parte del Pr. delle funzioni di vertice di "cosa nostra", segnatamente costituendo un punto cruciale, quale collettore e distributore di "pizzini" tra le famiglie mafiose, della riservata catena epistolare, attraverso cui il medesimo Pr. dirigeva l'associazione mafiosa. Alcune delle missive ribadivano che il BA. aveva assunto un ruolo direttivo della cosca del suo paese, tanto che egli poteva esprimersi direttamente con il Pr. e per conto di un gruppo di "amici", al cui operato faceva riferimento, garantendo la propria e la loro fedeltà ed obbedienza alle direttive impartite dal capo di "cosa nostra" e trattando argomenti di indubbia valenza mafiosa, come il sistema dei messaggi, i controlli delle forze dell'ordine, i propri poteri di rappresentanza, l'organigramma delle famiglie mafiose di Villafrati e Ce.Di..

L'identificazione del "soggetto autore dei files" con il BA. è questione di fatto, che essendo stata congruamente e plausibilmente motivata dalla corte di merito, non è sindacabile in sede di legittimità.

Il quinto motivo è, parimenti, infondato.

La corte distrettuale ha osservato, correttamente, che la molteplicità e la gravità oggettiva delle condotte poste in essere dal BA., che avevano consentito al Pr. e ad altri mafiosi di continuare ad operare liberi nell'anonimato, il ruolo verticistico assunto dall'imputato nell'ambito della famiglia mafiosa di Villafrati, l'intensità del dolo escludevano che il medesimo imputato fosse meritevole delle attenuanti generiche.

La pena inflitta al BA. dal giudice di primo grado è stata ridotta dalla corte d'appello per la necessità di rapportarsi "al minimo edittale vigente al momento della commissione della condotta criminosa".

Il ricorso di B.C. deve essere rigettato.

Il B., imputato dei reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 3, 4 e 6 (capo 2), art. 110 c.p., art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di D.C.A. (capo 19), art. 110 c.p., L. n. 356 del 1992, 12 quinquies, L. n. 203 del 1991, art. 7 (capo 41), è stato condannato alla pena di anni sette, mesi sei di reclusione ed Euro 1.200,00= di multa sulla scorta delle dichiarazioni del D.C., delle risultanze delle intercettazioni, degli esiti delle indagini della polizia giudiziaria, della documentazione acquisita.

Il primo motivo del ricorso è destituito di fondamento.

La rinnovazione, anche parziale, dell'istruzione dibattimentale in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti.

Nella specie, la corte d'appello ha motivato congruamente il rigetto dell'istanza di rinnovazione parziale del giudizio, osservando, per un verso, che l'imputato non aveva subordinato la richiesta di rito abbreviato all'esame del D.C., per altro verso, che tale esame non era indispensabile per la decisione, avendo il medesimo D.C. già reso esaurienti dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari.

Anche il secondo motivo è infondato.

La corte distrettuale ha giustificato la conferma della responsabilità del B. in relazione al reato sub capo 19) con argomentazioni adeguate ed immuni da vizi logici e giuridici.

Detta corte, invero, ha valorizzato la conformità del comportamento dell'imputato alla tipica attività estorsiva, posta in essere con modalità ormai consuete, della richiesta di sovvenzione sotto forma di un aiuto economico, formulata da soggetto, che è già noto alla persona offesa e può dimostrarle la temibilità della reazione scatenatale a fronte di un rifiuto. La medesima corte ha, altresì, osservato che la non corrispondenza della somma consegnata rispetto a quella annotata sul libro mastro era ininfluente, sia perchè il D.C. si era espresso in termini probabilistici sull'importo consegnato al B., sia perchè non poteva essere escluso l'utilizzo per scopi diversi della parte non annotata, riguardando quegli appunti il denaro entrato come contante in cassa.

Con il terzo ed il quarto motivo il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione (Cass. Pen. SS.UU. 30.4.1997, n. 6402).

Invero, anche dopo la modifica dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per effetto della L. 20 febbraio 2006, n. 46, alla Corte di cassazione restano precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti ritenuti maggiormente plausibili o dotati di migliore capacità esplicativa, dovendosi la Corte limitare al controllo se la motivazione dei giudici di merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito (Cass. Pen. Sez. 1^, 16.11.2006, n. 42369, CED 235507).

D'altra parte, il sindacato della Corte di cassazione si risolve sempre in un giudizio di mera legittimità, per cui, pur dopo la citata novella codicistica introdotta dalla L. n. 46 del 2006, non hanno rilevanza le censure che si limitino ad offrire una lettura alternativa delle risultanze probatorie (Cass. Pen. Sez. 6^, 3.10.2006, n. 36546, CED 235510).

Nella specie, la corte territoriale ha motivato la conferma della responsabilità del B. in relazione al reato sub capo 41) con argomentazioni esaustive e rispettose dei canoni della logica e del diritto.

Per quanto riguarda la dedotta insussistenza del reato di cui al capo 41), deve essere rilevato che, oltre all'iniziale intestazione fittizia al B. delle quote della "Sicula Marmi s.a.s." effettuata nel 1987 (epoca in cui non erano stati ancora introdotti nè la L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, nè la L. n. 203 del 1991, art. 7) vi è stata una successiva intestazione fìttizia delle quote di detta società a c.r. (moglie di E.N. reale proprietario dell'azienda) ed a D.S. (convivente di E.S. figlio di E.N.) con atto notarile di cessione in data 26.4.2004. Quest'ultima intestazione fittizia, a cui ha compartecipato il B. (che peraltro figurava conservare una modesta partecipazione per quote pari ad Euro 1383,87= nella summenzionata società), integra sicuramente il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12 quinquies, contestato al capo 41) "sino al 25 gennaio 2005".

L'utilizzazione di un atto pubblico, rogato da un notaio, per la accennata cessione della "Sicula Marmi" non dimostra affatto che il B. fosse il reale proprietario dell'azienda, in contrasto con tutti gli elementi probatori indicati nella sentenza impugnata.

Il ricorso di D.F.G. deve essere rigettato.

Il D.F., sulla scorta delle risultanze delle intercettazioni, degli esiti delle indagini della polizia giudiziaria, della documentazione acquista e delle dichiarazioni di vittime di estorsioni, è stato condannato alla pena di anni otto, mesi quattro di reclusione ed Euro 1.400,00= di multa per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 3, 4 e 6 c.p. (capo 1), art. 110 c.p., art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di A.U. (capo 16), art. 110 c.p., art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di C.G. (capo 33).

Con il primo ed il quarto motivo, relativi ai capi 16) e 33), il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

In ordine all'estorsione aggravata in danno di A.U. (capo 16), la corte di merito ha rilevato che le dichiarazioni accusatori dell' A. erano state suffragate dalle dichiarazioni dei di lui dipendenti, dalle intercettazioni di conversazioni telefoniche e dalle annotazioni nel "libro mastro".

Relativamente all'estorsione aggravata in danno di C.G., detta corte ha rimarcato che il diretto coinvolgimento del D.F. era desunto dalla significativa presenza della esclusiva grafia dell'imputato sul biglietto che accompagnava la mazzetta di banconote, al fine di ricordarne la provenienza.

Il secondo motivo è destituito di fondamento.

La corte distrettuale ha mantenuto ferma la confisca delle somme di denaro depositate in un libretto di deposito a risparmio ed investite in titoli, osservando che l'imputato non aveva nemmeno illustrato le modalità grazie alle quali egli, la madre ed il fratello avessero potuto nel tempo accumulare disponibilità così ingenti, mentre la certa dedizione alla gestione della cassa della sua cosca ed alla conservazione presso la sua abitazione, la meticolosa annotazione di tutti i movimenti in entrate ed in uscita con riferimento alle risorse finanziarie fatte confluire alla sua persona, la disponibilità di una somma di denaro in contante superiore ad Euro 60.000,00=, provento di estorsione, costituivano elementi probatori che convincevano del fatto che egli, ricevuti gli importi di volta in volta raccolti dagli esponenti della sua stessa famiglia mafiosa, ne aveva disposto, in parte trattenendoli in contanti per importo in sè inconsueto al fine di poterli immediatamente utilizzare, in parte depositandoli su un libretto a lui ed al fratello cointestato, e per altra e maggiore parte investendoli in titoli vari.

Il terzo motivo è, parimenti, infondato.

La corte distrettuale ha giustificato la conferma della responsabilità del D.F. per partecipazione ad associazione di tipo mafioso con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici.

Detta corte, invero, ha rilevato che l'imputato, appartenente alla famiglia mafiosa di Bagheria, aveva mantenuto contatti operativi con numerosi esponenti mafiosi, aveva detenuto ed occultato presso la propria abitazione sia la contabilità che la cassa della citata famiglia mafiosa, aveva investito risorse economiche, provento delle attività criminose della medesima famiglia in operazioni mobiliari all'apparenza ad essa non riconducibili perchè a lui intestate, era coinvolto nel sistema di trasmissione dei "pizzini" da e per Pr..

L'esclusione dell'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2 non ha determinato alcuna immutazione del fatto e, quindi, alcuna violazione dell'art. 521 c.p.p..

Il ricorso di E.F., condannato alla pena (sospesa) di anni uno e mesi quattro di reclusione per il reato di cui all'art. 379 c.p., comma 1, L. n. 203 del 1991, art. 7 deve essere rigettato, essendo i relativi motivi infondati.

La corte territoriale ha giustificato la conferma della responsabilità dell' E. e della sussistenza dell'aggravante speciale con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici.

Detta corte, invero, ha rilevato che, alla stregua delle risultanze delle indagini della polizia giudiziaria e delle intercettazioni, era dimostrato che a far data dal 9.6.2004, ossia dall'arresto del padre ( E.N.) e del fratello ( E.S.), indagati per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., l'imputato aveva costituito lo strumento, mediante il quale il padre, vero proprietario dell'impresa "Sicula Marmi s.a.s.", in precedenza gestita prima da B.C., quindi, per pochi mesi da E.S., aveva conservato il controllo dell'attività e l'aveva potuta proseguire, impartendo ordini ed istruzioni da far pervenire anche al B. e sostenendo l'operato del figlio, inizialmente inesperto ed incerto, ma fedelmente ossequioso alla sua volontà ed alle sue direttive. In tal modo E.N. aveva potuto mantenere e proteggere in un momento delicato di emergenza il proprio investimento, rispetto al quale egli non aveva mai assunto alcun ruolo formale, nè quale proprietario, nè quale amministratore, avendo fittiziamente intestato le quote in un primo momento a B.C., che aveva preposto alla gestione dell'impresa con l'ausilio e la supervisione di M.O., quindi, quando il B. aveva chiesto di essere sollevato da questo incarico, alla moglie c.r. ed alla convivente del figlio S., D.S.. Il programma criminoso di E.N. si era potuto realizzare grazie alla imprescindibile cooperazione del figlio F., ancora in libertà ed unico ritenuto in grado di occuparsi con sufficiente grado di affidabilità di dare attuazione al volere del padre detenuto e di rapportarsi con altri esponenti mafiosi per questi fini; il giovane aveva, quindi, affiancato il B., tornato a dirigere l'attività produttiva quale "capo cantiere", svolgendo una supervisione amministrativa e finanziaria della gestione. La condotta tenuta dall'imputato era stata sostenuta dalla piena consapevolezza dell'assetto degli interessi economici del padre e del fratello detenuti e dalla volontà di mantenere in sicurezza, sotto il loro controllo, quell'attività, che costituiva una forma di reinvestimento, all'apparenza lecita, di denaro di provenienza criminosa, perchè provento di attività estorsiva o di altre iniziative riconducibili a "cosa nostra", nella quale entrambi i congiunti a vario titolo militavano. Era, dunque, provato che E.F. aveva prestato la propria opera per garantire al padre ed al fratello, ma anche alla consorteria criminosa di cui essi facevano parte, di assicurarsi il profitto del reato presupposto in un momento critico di assenza degli stessi e di difficoltà a raccordare le iniziative dei loro sodali ancora in libertà.

Per quanto concerne la dedotta insussistenza del reato presupposto (L. 7 agosto 1992, n. 356, art. 12 quinquies, sub capo 41) e conseguentemente del reato di favoreggiamento reale aggravato ascritto ad E.F., deve essere rimarcato che, oltre all'intestazione fittizia a B.C. delle quote della "Sicula Marmi s.a.s." effettuata nel 1987 (epoca in cui non era stata ancora approvata la L. n. 356 del 1992 che aveva introdotto il citato reato di cui all'art. 12 quinquies, stessa legge), vi è stata una successiva intestazione fittizia delle quote della predetta società a c.r. e D.S. con atto notarile di cessione in data 26.4.2004, che integra sicuramente il reato di cui alla L. n. 356 del 1992, surripetuto art. 12 quinquies contestato al capo 41) "sino al 25 gennaio 2005".

In ordine alla sussistenza dell'aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, la corte distrettuale ha, correttamente, osservato che il mantenimento, da parte di E.F., dell'accennata attività sotto il controllo del padre e la prosecuzione della stessa nonostante la carcerazione in corso dei congiunti aveva agevolato anche l'intera organizzazione mafiosa locale in termini di prestigio, di potere, di elaborazione di nuovi programmi, di una sede logistica sicura in cui effettuare incontri riservati.

Il ricorso di F.I., condannato alla pena di anni dieci di reclusione ed Euro 32.000,00= di multa per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 3, 4, 5 e 6 (capo 2), art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (capo 45), deve essere rigettato.

Il primo motivo è privo di fondamento.

La rinnovazione, anche parziale, dell'istruzione dibattimentale in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti.

Nella specie, la corte d'appello ha motivato congruamente il rigetto dell'istanza di rinnovazione parziale del giudizio, osservando che, da un lato, l'imputato non aveva subordinato la richiesta di rito abbreviato all'esame del Cu., dall'altro lato, che difettava la condizione imprescindibile della non decidibilità della posizione del medesimo imputato sulla base degli atti già acquisiti.

Il secondo motivo propone una "rivalutazione" delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

Comunque, la corte di merito ha giustificato la conferma della responsabilità del F. in relazione ai sopra indicati reati con congrua e corretta motivazione, evidenziando che, sulla base delle concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cu. e Ca. suffragate dalle risultanze delle intercettazioni e dagli esiti delle indagini della polizia giudiziaria, era rimasto provato che l'imputato era affiliato alla famiglia mafiosa di Villabate, di cui era Valter ego o il vice del capo Ma.Ni., aveva mantenuto contatti ed organizzato incontri riservati con esponenti di primo piano di altri mandamenti, era coinvolto nel traffico di droga, aveva partecipato agli spostamenti, alla scorta ed alla protezione del latitante Pr. durante il tragitto di andata e ritorno dal territorio francese ed il soggiorno nella zona di Marsiglia, ove il medesimo Pr. era stato in più occasioni sottoposto ad accertamenti sanitari, analisi di laboratorio ed interventi chirurgici.

Il terzo, il quarto ed il quinto motivo ripropongono censure già discusse e ritenute motivatamente infondate dalla corte di merito, per cui devono essere considerati privi di specificità (Cass. Pen. Sez. 4^, 29.3.2000, n. 5191, CED 216473).

In ogni caso, detta corte ha giustificato adeguatamente sia la sussistenza delle aggravanti di cui al quarto e sesto comma dell'art. 416 bis c.p. per la disponibilità di armi da parte dell'organizzazione criminosa, alla quale apparteneva il F., e per il finanziamento delle attività economiche, condotte dal Ma. con l'ausilio dello stesso F., con i proventi delle estorsioni, della gestione del gioco clandestino e del traffico di droga, sia il diniego delle attenuanti generiche e di riduzione della pena, nonchè il mantenimento della misura di sicurezza per la gravità dei fatti, il rilevante ruolo in essi svolto dall'imputato, la capacità a delinquere e la pericolosità sociale di quest'ultimo, diffusamente specificati.

Il ricorso di L.D.M., condannato alla pena di anni due di reclusione per il reato di cui all'art. 378 c.p., commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 deve essere rigettato.

Il primo motivo ricomprende in effetti due censure: una sulla conferma della responsabilità l'altra sulla sussistenza dell'aggravante speciale.

La censura sulla responsabilità attiene al merito della decisione impugnata, congruamente e correttamente motivata.

In particolare, la corte territoriale ha evidenziato, sulla base delle acquisizioni processuali, che il L.D., attraverso l'artificio della conclusione a nome proprio di un contratto di locazione di un locale da destinare a deposito e magazzino, aveva procurato, in modo occulto ed insospettabile, un alloggio al latitante S.S., il quale vi aveva trovato rifugio ed in tal modo aveva potuto mantenersi in clandestinità per quasi un anno. Il L.D., quindi, aveva fornito un rilevante contributo ad un pericoloso latitante, già più volte condannato per gravi delitti di mafia, nel sottrarsi alle indagini ed alle ricerche conseguenti ed aveva operato nella sicura coscienza della qualità e dell'appartenenza al sodalizio mafioso dello stesso latitante.

La censura relativa all'aggravante speciale è invece destituita di fondamento.

La corte territoriale ha osservato che l'avere il L.D. protetto ed occultato per un periodo di tempo prolungato un latitante posto al vertice di un'articolazione locale di "cosa nostra" aveva comportato una "sensibile forma di agevolazione anche per l'intera organizzazione", dal momento che si era consentito a detto latitante di disporre di un alloggio del tutto autonomo, ove condurre un'esistenza all'apparenza normale e non sospetta, ma dalla quale egli aveva potuto comunicare con i sodali tramite i "pizzini", entrare ed uscire a piacimento, disponendo delle relative chiavi, ricevere visite e tenere riunioni operative, conservare armi, denaro, appunti strategici per la gestione del suo mandamento. L'assenza di vincoli personali, di qualsivoglia legame affettivo, lavorativo od economico con lo S. e la palese inconsistenza delle giustificazioni fornite dal L.D. indicavano che quest'ultimo aveva inteso agevolare il latitante proprio per la sua appartenenza alla mafia e per il ruolo rivestito nella gerarchia del sodalizio, allo scopo di favorire l'organizzazione nel suo insieme ed il suo assetto di potere.

Il secondo motivo è parimenti infondato.

La corte territoriale ha giustificato il diniego delle attenuanti generiche sul corretto rilievo, per un verso, che nessuna lealtà di comportamento poteva ravvisarsi in favore dell'imputato, opportunisticamente presentatosi al P.M. per cercare di evitare un imminente arresto e fornire una tesi difensiva per nulla convincente, incentrata sulla sola evidenza dei fatti, ma nella sostanza mistificatoria, e per altro verso, che non risultava che lo stesso imputato avesse favorito lo S. per bisogno, perchè costretto o minacciato, per debolezza mentale o comunque per qualsiasi ragione che attenuasse la gravità del suo operato e delle relative conseguenze.

Detta corte ha, altresì, rilevato che la pena inflitta al L.D. non poteva essere ridotta, in considerazione delle modalità artificiose ed ingannatorie della condotta, dell'intensità del dolo. della grave scorrettezza contrattuale dell'imputato anche nei confronti del locatore e, comunque, del calcolo della pena base sul minimo edittale.

Il ricorso di L.M.G. e SP.Sa., i quali sono stati condannati alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione ciascuno per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 4 e 6, deve essere rigettato.

Il primo motivo è infondato per le stesse ragioni illustrate nell'esame del primo motivo del ricorso del BA., a cui si rinvia.

Con il secondo motivo, i ricorrenti, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecitano, in effetti, una "rilettura" (per loro più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita, come si è già detto, nel giudizio in cassazione.

Comunque, la corte territoriale ha giustificato la conferma della responsabilità degli imputati in relazione al reato loro ascritto con motivazione diffusa, adeguata, rispettosa dei canoni di valutazione della prova di cui all'art. 192 c.p. ed immune da vizi logici.

In particolare, la corte territoriale ha rilevato che le risultanze dell'acquisizione in copia di due missive memorizzate nel personal computer, in uso a Ba.Pa. nell'ufficio del depuratore del Comune di Villafrati, delle intercettazioni, dei servizi di pedinamento e osservazione nonchè delle relazioni di servizio e delle informative della polizia giudiziaria, offrivano la prova dello stabile ed organico inserimento dei due imputati in "cosa nostra". Era dimostrato, invero, che detti imputati facevano parte della famiglia mafiosa di Ce.Di. sin da epoca anteriore all'arresto di Sp.Be., che avevano accompagnato in incontri con altri capi mafia, erano stati in relazione di conoscenza con il Ba. ed in rapporto epistolare diretto con il Pr., avevano incontrato in convegni riservati e protetti il loro capo mandamento S.S. e Sp.Gi., altro "uomo d'onore".

L'identificazione del "figlio e cognato di P." indicato nei "pizzini" con SP.Ge. e L.M.G. è questione di fatto, che essendo stata congruamente e plausibilmente giustificata dalla corte distrettuale, non è sindacabile in sede di legittimità:

Il terzo motivo è destituito di fondamento, avendo la corte territoriale rigettato la richiesta di revoca o sospensione della provvisionale ex art. 600 c.p.p., comma 3 per "la genericità della richiesta".

Il quarto motivo è parimenti infondato.

In ordine alla sussistenza delle aggravanti di cui al quarto ed all'art. 416 bis c.p., comma 6, la corte distrettuale ha osservato, correttamente, che era irrilevante che gli imputati non fossero stati in prima persona trovati in possesso di armi oppure che non avessero reimpiegato risorse economiche, provenienti dalle condotte criminose degli associati mafiosi, in nuove iniziative produttive, trattandosi di caratteristiche dell'associazione mafiosa, delle quali i singoli aderenti, e quindi anche gli imputati, erano consapevoli.

Relativamente al trattamento sanzionatorio la corte distrettuale, pur negando le attenuanti generiche per la gravità della condotta e la personalità degli imputati ( L.M. pregiudicato per omicidio e detenzione illegale di armi e SP. con ruolo di rilevo in "cosa nostra"), ha ridotto la pena, irrogata ai medesimi imputati dal giudice di primo grado, "in ragione della necessità di rapportarsi al minimo edittale vigente al momento della commissione della condotta criminosa".

Il ricorso di L.G.F., condannato alla pena di anni due e mesi quattro di reclusione per il reato di cui all'art. 378 c.p., commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 deve essere rigettato, essendo i relativi motivi ripetitivi di censure già motivatamente respinte dalla corte d'appello e comunque destituiti di fondamento.

La corte di merito ha giustificato la conferma della responsabilità del L.G. in relazione al reato di favoreggiamento personale pluriaggravato con motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici.

In particolare, detta corte ha evidenziato che l'ausilio prestato il 29.7.2003 dal L.G. al latitante S.S. era stato duplice: da un lato egli aveva svolto funzioni di staffetta, anticipando la marcia della vettura, sulla quale lo S. stava viaggiando, per un consistente tratto di strada da (OMISSIS), in tal modo controllando che la strada fosse libera da pattuglie o da altri impedimenti e garantendo la sicurezza del percorso, dall'altro aveva direttamente accompagnato con la propria autovettura lo S. dal bar (OMISSIS), luogo dal quale il latitante era riuscito a far perdere le proprie tracce e a dileguarsi.

La corte territoriale ha, correttamente, osservato che il descritto singolo episodio era sufficiente per configurare il delitto di favoreggiamento personale, dal momento che il L.G. aveva offerto un concreto apporto operativo, grazie al quale lo S. aveva potuto fare ritorno nel proprio rifugio palermitano senza incorrere in un arresto o comunque in alcun controllo da parte delle forze di polizia. D'altra parte, la norma incriminatrice dell'art. 378 c.p. non richiede una condotta permanente e nemmeno abituale, essendo sufficiente per la realizzazione del delitto de quo, anche un solo atto, con cui si presti aiuto a taluno a sottrarsi alle ricerche della forza pubblica.

La corte territoriale ha, altresì, rilevato che gli accennati accorgimenti e cautele adottati, l'origine del L.G. ((OMISSIS) che era stata sotto il controllo del capo mandamento S.S.), i rapporti intrattenuti dallo stesso L.G. con altri esponenti mafiosi, l'inserimento di quest'ultimo in una rete di relazioni con soggetti appartenenti a diverse famiglie mafiose dimostravano che l'imputato avesse agito nella precisa rappresentazione della condizione dello S. di capo mafia latitante e con l'intento di favorirne il mantenimento in libertà ed al tempo stesso anche la prosecuzione del suo operato per conto dell'intera organizzazione "cosa nostra". Il contributo offerto dal L.G., quindi, non era diretto alla sola persona dello S., ma era funzionale ad agevolare l'intera associazione mafiosa, di guisa che risultavano perfettamente integrate sia l'aggravante, di natura oggettiva, prevista dall'art. 378 c.p., comma 2, sia l'aggravante speciale disciplinata dalla L. n. 203 del 1991, art. 7, le quali possono concorrere tra loro (Cass. Pen. Sez. 6^, 10.6.2005, n. 35680, CED 232577).

Il ricorso di MA.Ni., imputato dei reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4 e 6 (capo 1), art. 110 c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 (capo 45) e condannato alla pena di anni nove e mesi otto di reclusione, deve essere rigettato, essendo i relativi motivi destituiti di fondamento.

La corte territoriale ha giustificato la conferma della responsabilità del MA. in relazione ai predetti reati con motivazione estesa, adeguata ed esente da vizi logici e giuridici.

Detta corte ha osservato che le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cu.Ma. e Ca.Fr., le risultanze delle intercettazioni telefoniche ed ambientali e gli esiti delle indagini della polizia giudiziaria dimostravano ampiamente che il MA. aveva diretto la famiglia mafiosa di Villabate, promuovendo, organizzando e controllando tutte le relative attività illecite, (tra cui le estorsioni, il gioco e le scommesse clandestini), gestendo la cassa comune, intrattenendo rapporti personali e diretti con "uomini d'onore" di famiglie e mandamenti diversi; aveva svolto funzioni di tramite del complesso sistema di "comunicazioni riservate" (cd. pizzini), attraverso il quale Pr.Be. era riuscito ad impartire ordini e disposizioni agli altri associati, ricevendo al contempo informazioni ed anche cospicue somme di denaro; aveva provveduto all'organizzazione degli spostamenti del latitante Pr. dalla provincia di Palermo fino alla zona di Marsiglia, ove quest'ultimo era stato in più occasioni sottoposto ad accertamenti sanitari, analisi di laboratorio ed interventi chirurgici; si era personalmente occupato, insieme ad altri appartenenti alla famiglia mafiosa di Villabate, della scorta e della protezione del latitante Pr. durante il tragitto di andata e ritorno dal territorio francese ed il soggiorno nella zona di Marsiglia.

La corte distrettuale ha ritenuto attendibili le dichiarazioni dei citati collaboratori di giustizia con argomentazioni plausibili e rispettose dei canoni di valutazione della prova di cui all'art. 192 c.p.p., evidenziando, segnatamente, che il racconto del Cu., il quale aveva ammesso in primo luogo le proprie responsabilità in ordine a gravi fatti di reato, era frutto di esperienze personali vissute in prima persona ed era risultato coerente, logico, privo di incertezze e di contraddizioni e non animato da rancore, mentre il Ca. si era presentato di sua spontanea volontà alla polizia giudiziaria, per manifestare il proposito di collaborare con la giustizia, in ciò spinto dal timore per l'incolumità propria e per quella dei congiunti e da motivazioni legate al rimorso per avere pesantemente pregiudicato la situazione propria e dei familiari con condotte illecite anche in danno dell'istituto di credito alle cui dipendenze operava.

Relativamente alla dedotta non veridicità delle rivelazione effettuate dal MA., asseritamene sotto l'effetto di assunzione di cocaina, nel corso di conversazioni, intercettate, con la donna a cui era legato sentimentalmente, si tratta di doglianza già rigettata dalla corte distrettuale con motivazione congrua.

Detta corte, invero, ha rilevato che la giustificazione fornita al riguardo dal MA. non era convincente. Non solo egli non aveva nulla da temere da quelle rivelazioni, fatte in confidenza, senza altri testimoni e nell'inconsapevolezza dell'attività di ascolto da parte della polizia giudiziaria, ma stava parlando con persona di assoluta fiducia ed adusa a condividere con lui i segreti delle sue molteplici attività oltre che l'uso di quella stessa sostanza. Bastava riflettere che in data 2.2.2004 l'imputato aveva illustrato alla donna le modalità con le quali avveniva la rituale iniziazione mafiosa, in altre occasioni le aveva chiesto aghi e materiale per realizzare la "combinazione" del F., le aveva rivelato il proprio ruolo nell'organigramma di "cosa nostra" ed i rischi conseguenti, l'aveva condotta con sè nelle trasferte all'estero e persino quando il Pr. era ricoverato in (OMISSIS).

M.O., sulla scorta delle propalazioni dei collaboratori di giustizia Gi.An., Cu.Ma., Ca.Fr., dell'esito delle indagini della polizia giudiziaria, delle risultanze delle intercettazioni, delle dichiarazioni delle persone offese, della documentazione acquisita, delle conclusioni della consulenza tecnica grafologica del P.M., è stato condannato alla pena di anni quattordici di reclusione ed Euro 2.300,00= di multa per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 3, 4 e 6 (capo 1), art. 110 c.p., art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di imprenditori ed esercenti (capi da 16 a 31), art. 81 c.p., comma 2, L. n. 1423 del 1956, art. 9, commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7.

Il primo motivo del ricorso del M. è fondato.

Questa Corte Suprema ha chiarito che nel giudizio di appello il divieto della reformatio in peius della sentenza impugnata non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua determinazione (Cass. Pen. SS.UU., 27.9.2005, n. 40910, CED 232066, Id. Sez. 6^, 8.10.2009, n. 41388, CED 245018).

La sentenza impugnata deve, perciò, essere annullata senza rinvio, limitatamente alla misura della pena, che deve essere rideterminata in anni dodici, mesi cinque, giorni dieci di reclusione ed Euro 2.300,00 di multa anni 17, mesi 6 di reclusione ed Euro 3.400,00= di multa, pena complessiva per i reati di estorsione aggravata sub capi da 16 a 31 unificati per continuazione + anni 1 di reclusione ed Euro 40,00= di multa per il reato ex art. 416 bis c.p. sub capo 1) + mesi 2 di reclusione ed Euro 10,00= di multa per il reato sub capo 40) = anni 18, mesi 8 di reclusione ed Euro 3.450,00= di multa - 1/3 per il rito abbreviato = anni 12, mesi 5, giorni 10 di reclusione ed 6 2.300,00 di multa.

Il ricorso del M. deve essere rigettato nel resto.

Invero, il secondo motivo è infondato.

La rinnovazione, anche parziale, dell'istruzione dibattimentale in appello è istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso esclusivamente quando il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non potere decidere allo stato degli atti.

Nella specie, la corte d'appello ha motivato congruamente il rigetto dell'istanza di rinnovazione parziale del giudizio, osservando, da un lato, che l'imputato non aveva subordinato la richiesta di rito abbreviato all'acquisizione della consulenza tecnica di parte e nemmeno all'espletamento di perizia grafologica, dall'altro lato, che tale acquisizione non era indispensabile per la decisione.

Il terzo motivo è ripetitivo di analoga censura già motivatamente rigettata dalla corte territoriale ed è, comunque, infondato.

Il principio del divieto di un secondo giudizio di cui all'art. 649 c.p.p. impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato, ma non di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo in riferimento a diverso reato, dovendo la vicenda criminosa essere valutata alla luce di tutte le sue implicazioni penali (Cass. Pen. Sez. 4^, 11.11.2004, n. 10180, CED 231134).

Pertanto, i giudici di merito hanno correttamente utilizzato le dichiarazioni del Gi., ancorchè riferite a precedente reato associativo già coperto da giudicato assolutorio.

Con il quarto ed il quinto motivo, il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" (per lui più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

La corte di merito ha giustificato la conferma della responsabilità del M. in relazione ai sopra indicati reati a lui ascritti con motivazione amplissima, adeguata ed immune da vizi logici e giuridici.

In particolare, detta corte, alla stregua dei suaccennati elementi probatori, ha dimostrato che il M., affiliato alla famiglia maliosa di Bagheria, in stretto collegamento operativo con il suocero E.N., aveva svolto funzioni organizzative per il sodalizio, aveva mantenuto assidui contatti e partecipato ad incontri e riunioni con numerosi esponenti di vertice ed associati di diverse famiglie mafiose, aveva tenuto e gestito fino al 31.7.2004 la "cassa" della famiglia di appartenenza, provvedendo alla contabilizzazione degli illeciti proventi ed alla ripartizione e distribuzione delle relative somme, era coinvolto nell'attività di trasmissione delle comunicazioni riservate da e per il Pr., assicurando lo smistamento di messaggi e "pizzini" e la tutela della latitanza dello stesso Pr., era dedito, unitamente a sodali del suo gruppo, alla realizzazione dell'attività di estorsione in danno di imprenditori ed esercenti.

La discriminazione lamentata dal ricorrente rispetto alla posizione del coimputato D.F. è insussistente, giacchè la corte distrettuale ha congruamente giustificato i parametri di valutazione adottati nei confronti dello stesso ricorrente.

Il ricorso di P.G., imputato dei reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4 e 6 (capo 1), art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 6, art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di Po.Ag. (capo 14), art. 110 c.p., art. 81 c.p., comma 2, art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di Gu.Gi. (capo 15) e condannato alla pena di anni dieci di reclusione ed Euro 1.400,00= di multa, deve essere rigettato.

Il primo motivo è infondato.

La corte territoriale ha motivato la conferma della responsabilità del P. in relazione al reato sub capo 1) con argomentazioni molteplici ed esenti da vizi logici e giuridici.

Detta corte ha rilevato che plurime fonti di prova (propalazioni dei collaboratori di giustizia Si.An., Br.Gi., D.F.P., Gi.An., risultanze delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, esiti dei servizi di osservazione e pedinamento svolti dalla polizia giudiziaria) convergevano nell'indicare il P. come il collettore della corrispondenza ("pizzini") da e verso il Pr., costituendo un anello insostituibile nella catena di smistamento dei messaggi ed essendo a questo scopo finalizzate le numerose trasferte dell'imputato a Ragusa (trentuno tra il 10.11.2001 ed il 18.1.2005), e ciò in forza della sua risalente militanza nel sodalizio e delle sue funzioni di capo della famiglia mafiosa di Baucina, sovraordinato e responsabile dell'operato degli altri "uomini d'onore" della medesima famiglia. Asseveravano le funzioni di capo della citata famiglia mafiosa, assunte dal P., i rapporti con il Pr., al quale poteva rivolgersi direttamente e confidenzialmente dandogli del "tu", il potere decisionale riconosciuto all'imputato dai sottoposti e dai terzi, la partecipazione dello stesso imputato in veste di responsabile della famiglia mafiosa di Baucina a numerosi incontri con altri "uomini d'onore" tra cui con quelli di Agrigento, Caltanissetta e Bagheria.

Il secondo motivo, concernente il reato sub capo 14), è inammissibile, prospettando una questione di fatto non sindacabile in sede di legittimità, tenuto conto che la corte distrettuale ha motivato congruamente l'identificazione del P. con il soggetto indicato come "P" o L. "Pino" nelle missive tra il Pr. ed il Gi..

Il terzo motivo, riguardante il reato sub capo 15), è privo di fondamento.

La corte di merito ha osservato che il P. ed il V., sebbene non fossero stati i primi a rivolgere direttamente le minacce e le richieste al Gu. e non avessero altrettanto in prima persona incassato il prezzo dell'estorsione, ciò nonostante ugualmente ne dovevano rispondere in concorso con gli altri complici, posto che la loro azione si era inserita in un contesto di comportamenti altrui, di cui erano a conoscenza e del cui significato erano consapevoli, ed era stata posta in essere al fine, comune agli altri complici, di costringere la vittima a versare il denaro richiestole. In tal modo, essi avevano evitato di esporsi direttamente con la formulazione della richiesta estorsiva, potendo in quel caso, poichè già conosciuto dal Gu., essere soggetti al rischio di denuncia, ma avevano agito in seconda battuta, simulando un interessamento in favore del Gu., ma nei fatti creando le condizioni, mediante una forma subdola di pressione, che aveva determinato uno stato di soggezione psicologica nella parte lesa, perchè questa non potesse esimersi dal pagamento. Il tutto secondo il tipico operato degli aderenti a "cosa nostra", organizzazione, della quale sia il P. che il V. facevano parte.

La diversa "lettura" dell'episodio, proposta dal ricorrente, non è consentita in sede di legittimità.

Il ricorso di R.N., condannato alla pena di anni cinque e mesi otto di reclusione per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 4, 5 e 6 (capo 2), deve essere rigettato.

Il primo motivo, ripetitivo di analoga eccezione già motivatamente respinta dai giudici di merito, è destituito di fondamento.

La corte territoriale ha osservato, correttamente, che, nella specie, non operava l'effetto preclusivo determinato dal precedente provvedimento di archiviazione (18.4.2002) per la diversità del fatto nelle componenti oggettive, spazio temporali dell'azione ed in quelle soggettive dei partecipanti. Invero, le condotte contestate al R. erano state realizzate in epoca successiva al decreto di archiviazione, quindi mai avrebbero potuto essere investigate in data ad esso antecedente; sotto il profilo temporale poi, anche gli atti di indagine costituiti da attività di osservazione e pedinamento, nonchè da intercettazioni ambientali e telefoniche, riguardanti anche altri coimputati, erano stati posti in essere dopo il 18.4.2002 ed il contesto soggettivo di commissione dei singoli fatti materiali si era notevolmente ampliato, coinvolgendo il latitante Pr. ed altri appartenenti alla famiglia mafiosa di Villabate ed a quelle viciniori.

Questa Corte Suprema, con la sentenza n. 36614 pronunciata in data 7.7.2005 nei confronti del R. nell'ambito del subprocedimento cautelare, ha chiarito che l'inutilizzabilità riguarda esclusivamente le indagini geneticamente compiute in riferimento ai fatti per i quali vi è stata archiviazione, ma non anche quelle espletate, sia pure nei confronti dello stesso soggetto, nel corso di un'autonoma attività investigativa, in relazione a fatti diversi e successivi rispetto ai primi, anche se a questi ultimi collegati. Tale principio deve trovare applicazione anche nei reati permanenti, come quello di associazione di tipo mafioso oggetto del caso in esame, in relazione ai quali l'archiviazione riferita ad indagini concernenti fatti temporalmente cristallizzati al momento dell'adozione del provvedimento non impone di richiedere preventivamente il decreto di riapertura delle indagini, se queste riguardano fatti successivi e diversi, che coinvolgono addirittura un più ampio quadro soggettivo.

Con il secondo motivo, il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" (per lui più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

La corte territoriale ha motivato ampiamente e con argomentazioni immuni da vizi logici e giuridici la conferma della responsabilità dell'imputato in relazione al reato ascrittogli.

In particolare, ha rilevato che le concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cu.Ma. e Ca.Fr., asseverate dagli esiti delle indagini della polizia giudiziaria, dalle risultanze delle intercettazioni e dalla documentazione acquisita comprovavano che R.N. faceva parte della famiglia mafiosa di Villabate, avendo svolto incarichi, anche a contenuto economico, per conto e nell'interesse della stessa famiglia e avendo destinato il bar (OMISSIS), da lui gestito, a sede di convegni riservati con "uomini d'onore" di varie famiglie mafiose, a luogo di ricezione e distribuzione delle corrispondenza ("pizzini") del Pr., in tal modo mantenendo contatti tra affiliati e consentendo a detto "boss" di far pervenire istruzioni e richieste, di acquisire informazioni e conservare il proprio ruolo direttivo dell'associazione, pur nello stato di latitanza.

Il terzo motivo è infondato.

La corte distrettuale ha giustificato il diniego delle attenuanti generiche, rilevando, correttamente, che le stesse caratteristiche oggettive delle condotte di R.N., la gravità e molteplicità degli incarichi disimpegnati dall'imputato, la protrazione nel tempo, le cautele adottate, sintomatiche di una personalità scaltra e di un dolo intenso, non consentivano di ravvisare, al di là dello stato di incensuratezza, alcun elemento positivo per il riconoscimento delle predette attenuanti.

II ricorso di R.D., condannato alla pena di anni cinque e mesi otto di reclusione per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 3, 4, 5 e 6 (capo 2), deve essere rigettato.

Il primo motivo è infondato per le medesime ragioni esposte nell'esame del primo motivo del ricorso di R.N..

Con il secondo motivo, il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" (per lui più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

La corte territoriale ha giustificato la conferma della responsabilità di R.D. in relazione al reato ascrittogli con motivazione ampia ed esente da vizi logici e giuridici.

In particolare, detta corte, fondandosi sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Cu.Ma. e Ca.Fr., sugli esiti delle indagini della polizia giudiziaria e sulle risultanze delle intercettazioni, ha ritenuto dimostrato che R.D. faceva parte della famiglia mafiosa di Villabate e, segnatamente, aveva partecipato, su disposizione, di Ma.Ni. ad attività estorsive ed al traffico di sostanze stupefacenti, posti in essere nell'interesse della medesima famiglia, aveva preso parte alla fase preparatoria o esecutiva di delitti contro la persona, aveva partecipato, in più occasioni, ad incontri e riunioni riservate con "uomini di onore" di altre famiglie e mandamenti.

Secondo la corte territoriale, la valutazione congiunta degli accennati elementi probatori induceva a ritenere che le indicazioni provenienti dal Cu. e dal Ca., oltre a riscontrarsi a vicenda, avevano trovato conferma nelle altre risultanze oggettive, univocamente dimostrative del vincolo di collaborazione, solidarietà e subordinazione, che legava il R. al Ma. ed al tempo stesso anche agli altri imputati della medesima famiglia mafiosa, per conto dei quali egli aveva operato nel settore delle estorsioni, nella preparazione e poi nell'esecuzione di omicidi e nella gestione del traffico di droga. Ciò provava lo stabile inserimento di R.D. nell'organizzazione criminosa "cosa nostra" al di là della formale affiliazione, avendo l'imputato messo al servizio della stessa organizzazione la propria persona ed il proprio impegno ed essendo stato considerato a tutti gli effetti un sodale.

Il terzo motivo è privo di fondamento:

La corte distrettuale ha rilevato, correttamente, che la protrazione e le molteplicità delle condotte poste in essere da R.D., l'impegno sul fronte della droga come delle estorsioni, il coinvolgimento in azioni violente, l'intensità del dolo, le motivazioni delle condotte realizzate in assenza di uno stato di bisogno economico, il ruolo di stretto collaboratore del capo mafia Ma.Ni. costituivano specifici profili negativi, che rendevano l'imputato immeritevole delle invocate attenuanti generiche.

Il ricorso di S.S., imputato dei reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4, 5 e 6, art. 61 c.p., n. 7 (capo 1), art. 629 c.p., L. n. 203 del 1991 (capo 11) e condannato alla pena di anni tredici, mesi quattro di reclusione ed Euro 2.400,00= di multa, deve essere rigettato.

Con i primi due motivi, il ricorrente, mediante la formale prospettazione di vizi di legittimità, sollecita, in effetti, una "rilettura" (per lui più favorevole) delle risultanze processuali, non consentita nel giudizio in cassazione.

Comunque, la corte territoriale ha giustificato la conferma della responsabilità dell'imputato in relazione ai reati contestatigli e, segnatamente, la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416 bis c.p., comma 2 con motivazione ampia, esaustiva ed esente da vizi logici e giuridici.

In particolare, detta corte in ordine al reato sub 1) ha osservato che le dichiarazioni, non generiche nè contraddittorie, del collaboratore di giustizia Gi.An., le risultanze delle intercettazioni, gli esiti delle investigazioni della polizia giudiziaria, il rinvenimento, all'atto dell'arresto dello S., di alcuni foglietti, contenenti un'essenziale contabilità interna, e della somma di Euro 19.000,00=, costituenti la "cassa" del mandamento comprovavano l'assunzione da parte dello stesso S. della reggenza del mandamento di Misilmeri.

In ordine al reato sub 11), la corte distrettuale ha valorizzato non solo le propalazioni del Gi., ma anche le dichiarazioni di I.L., D.M. e L.G., nonchè il riconoscimento fotografico dello S. da parte di questi ultimi, rilevando che la scelta dell'imputato del giudizio abbreviato non condizionato aveva comportato la valida utilizzazione di tutti gli atti di indagine compiuti.

Il terzo motivo non è fondato.

La corte di merito ha spiegato che, nella determinazione della pena, non era possibile contenere ulteriormente gli aumenti di pena, previsti per l'unificazione ai sensi dell'art. 81 cpv. c.p., per la progressione in ascesa della carriera criminale dell'imputato, non interrotta nemmeno dalla precedente condanna per il delitto associativo, per la risalente militanza mafiosa, per il prolungato stato di latitanza, sintomatico di un'elevatissima intensità del dolo e del possesso di ramificate complicità sul territorio, nonchè per la concreta disponibilità di più armi e la dedizione anche ad attività estorsiva, tutti elementi che qualificavano in termini di gravità e di allarmante pericolosità sociale la posizione dello S..

Il ricorso di T.A., condannato alla pena di anni sette di reclusione per il reato di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4 e 6 (capo 1), deve essere rigettato.

Il primo motivo formula censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente motivata con riferimento alla responsabilità dell'imputato in relazione al reato contestatogli.

In particolare, la corte territoriale ha evidenziato che le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gi.An., gli esiti delle indagini della polizia giudiziaria e le risultanze delle intercettazioni avevano dimostrato che il T. aveva curato ed assicurato la latitanza di Pr.Be. e di Sp.Be., aveva svolto le mansioni di autista del Pr. e di latore di messaggi scritti da e per quest'ultimo, aveva organizzato incontri con altri uomini di onore, era coinvolto in estorsioni.

Tali attività erano state svolte dal T. per un lungo lasso di tempo ed in un contesto di adesione a "cosa nostra", di guisa che legittimamente la corte territoriale ha qualificato i fatti ai sensi dell'art. 416 bis c.p., respingendo le richieste difensive di derubricazione in fattispecie criminose meno gravi (favoreggiamento personale o assistenza agli associati).

Il secondo motivo è infondato.

La corte territoriale ha correttamente mantenuto ferma l'aggravante prevista dall'art. 416 bis c.p., comma 2.

Al riguardo detta corte ha rilevato che, oltre alle propalazioni del Gi., la corrispondenza proveniente dal "nr. 1" ( Pr.) e diretta ad "A" di Ciminna ( T.) comprovavano come quest'ultimo non fosse preposto soltanto a mere mansioni esecutive, quale autista o quale postino, in quanto lo stesso capo assoluto di "cosa nostra" gli riconosceva il potere di interloquire direttamente con lui, di acquisire informazioni riservatissime e vitali per la prosecuzione della propria latitanza e per l'esercizio del potere di controllo mafioso sul territorio, di ricevere denaro "per il tuo paese" ossia per la famiglia di Ciminna. L'assunzione delle funzioni di rappresentanza di questa articolazione di "cosa nostra" era confermata dal fatto che il T. aveva rapporti, per questioni attinenti al loro mandamento, anche con i mafiosi dei paesi vicini, i Ba. di Villafrati, Pastoia e Sp.Gi. di Belmonte Mezzagno, "quelli di Bolognetta", Cola La Barbera di Mezzojuso e con lo stesso capo mandamento S.S., il che avvalorava ulteriormente quanto riferito dal Gi. circa la posizione apicale dell'imputato, insieme all' E., nell'ambito della famiglia mafiosa di Ciminna ed il riconoscimento di tale posizione sia all'interno che all'esterno.

Il terzo motivo è, parimenti, privo di fondamento.

La corte territoriale ha negato le attenuanti generiche, rilevando che l'imputato non era affatto incensurato, avendo riportato una condanna per tentata truffa continuata e falsità ideologica, che la condotta partecipativa dello stesso imputato era connotata da gravità per il lungo lasso di tempo di realizzazione, per la qualità personale degli esponenti mafiosi con i quali aveva collaborato ed ai quali aveva offerto un contributo molto rilevante per il mantenimento in libertà, per la molteplicità e l'importanza delle mansioni svolte, per la particolare intensità del dolo che aveva sostenuta detta condotta.

Il ricorso di VA.Se., imputato dei reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 3, 4 e 6 (capo 2), art. 629 c.p., art. 61 c.p., n. 6, L. n. 203 del 1991, art. 7 (capo 14) e condannato alla pena di anni sette, mesi otto di reclusione ed Euro 1.200,00= di multa, deve essere rigettato, essendo le censure, proposte con lo stesso ricorso, infondate.

La corte territoriale ha motivato la conferma della responsabilità del VA. in relazione ai reati contestatigli con argomentazioni estese, adeguate ed immuni da vizi logici e giuridici.

Detta corte, in ordine all'addebito di partecipazione ad associazione mafiosa sub capo 2), si è basata sulle precise dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gi.An., riscontrate dall'esito delle indagini della polizia giudiziaria e da prove documentali (due lettere della moglie del Gi., St.Ro.), per dimostrare che il VA. era "uomo d'onore" della famiglia mafiosa di Ventimiglia di Sicilia, che aveva prestato ausilio logistico - operativo al Gi. nel periodo durante il quale quest'ultimo era rimasto latitante, che il "pecoraio" che aveva accompagnato la St. ad incontri segreti con il marito era proprio il VA., il quale aveva contatti con altri affiliati all'organizzazione criminale ed era coinvolto nelle imposizione del "pizzo" alle imprese operanti nella zona di Ventimiglia di Sicilia.

In ordine all'imputazione di estorsione aggravata in danno di Po.Ag. e soci, ascritta al VA. in concorso con il Gi., il Pr. ed il P., la corte distrettuale, sulla scorta delle propalazioni del Gi. e dei messaggi scritti rinvenuti nel covo del collaboratore, ha evidenziato che il medesimo VA. era coinvolto nella vicenda come mandante, unitamente allo stesso Gi., della richiesta estorsiva ed alla fine come beneficiario delle somme riscosse, tanto da avere ricevuto nel corso di un incontro personale il denaro dal Gi.. Seppure non risultava il compimento di singole condotte minacciose o violente da parte del VA., quest'ultimo nell'inviare il P. dal Po., era cosciente che la forza d'intimidazione, derivante dalla comune adesione al sodalizio mafioso, sarebbe stata determinante nel far presa sulla vittima, la quale, per essere stata vicina al medesimo sodalizio per diverso tempo, era ben consapevole del potere ritorsivo dell'organizzazione e delle già realizzate soppressioni di imprenditori riottosi al pagamento del "pizzo". Non assumeva rilevanza che il VA. non avesse avuto contatti diretti con i Porcaro, avendo provveduto in tal senso il P., che era loro vicino per estrazione territoriale e per competenza mafiosa, e, quindi, poteva essere ancora più convincente nel recapitare il chiaro significato intimidatorio della stessa richiesta di pagamento.

Una diversa "lettura" delle risultanze probatorie, pure adombrata dal ricorrente, non è consentita in sede di legittimità.

Il ricorso di VI.Gi. (classe (OMISSIS)), condannato alla pena di anni sette, mesi otto di reclusione ed Euro 1.200,00= di multa per i reati di cui all'art. 416 bis c.p., commi 2, 4 e 6, (capo 2), art. 110 c.p., art. 81 c.p., comma 2, art. 629 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in danno di Gu.Gi. (capo 15), deve essere rigettato.

Il primo ed il secondo motivo, formulati genericamente, sono ripetitivi di eccezioni già motivatamente respinte dalla corte territoriale.

In ordine al primo motivo, detta corte ha osservato che dalla lettura dei verbali di interrogatorio dei collaboratori di giustizia risultava che erano stati testualmente riportati tutti gli avvertimenti imposti ai sensi dell'art. 64 c.p.p., come modificato dalla L. 1 marzo 2001, n. 63 e prescritto per il regime transitorio nel caso di interrogatori resi in epoca antecedente la vigenza della legge e da rinnovare con l'impartizione degli avvertimenti dalla stessa resi obbligatori, e che vi era stata conferma per relationem delle precedenti dichiarazioni, di cui i collaboratori erano consapevoli per esserne stati edotti. D'altra parte, alcuna disposizione di legge imponeva che, in sede di applicazione provvisoria della nuova disciplina, la rinnovazione degli interrogatori dovesse avvenire con la materiale ripetizione del contenuto delle precedenti dichiarazioni, ben potendo, in assenza di esplicita proibizione, essere ottenuta dall'interessato una conferma con rinvio al contenuto dell'adempimento precedente.

Relativamente al secondo motivo, la corte territoriale ha rilevato che, nel caso di specie, le investigazioni erano state condotte dalle Direzioni Distrettuali Antimafia di Caltanissetta e di Palermo in coordinamento tra loro, secondo quanto previsto dagli artt. 371 e 371 bis c.p.p., senza che fosse mai emersa una situazione di contrasto positivo o negativo.

Il terzo motivo propone sostanzialmente una "rivalutazione" delle risultanze probatorie, non consentita in sede di legittimità.

Comunque, la corte di merito ha evidenziato, motivando congruamente e correttamente, che, sulla base delle risultanze delle intercettazioni, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Si.An. e D.F.P., degli esiti delle attività di pedinamento e di osservazione nonchè delle relazioni di servizio e delle informative della polizia giudiziaria, era dimostrato che il VI. era associato alla famiglia mafiosa di Baucina, coadiuvando il capo P.G. - di cui era la longa manus politica - nella gestione delle attività e degli affari illeciti della stessa famiglia segnatamente della "messa a posto" di imprese e attività produttive e commerciali, aveva mantenuto rapporti e contatti con gli associati delle zone limitrofe, aveva partecipato ad incontri e riunioni con altri capi mafia anche latitanti, era coinvolto nel sistema di smistamento della corrispondenza tra il Pr., di cui aveva protetto la latitanza, e gli altri associati, avendo compiuto a tale fine ben ventidue viaggi a (OMISSIS) in compagnia del P. o del cugino omonimo.

Il quarto motivo è infondato per le stesse ragioni, illustrate nell'esame del terzo motivo del ricorso di P.G..

Tali ragioni spiegano implicitamente la mancata derubricazione del reato sub capo 15) nelle fattispecie di cui all'art. 378 c.p. o art. 379 c.p., rendendo infondato anche il quinto motivo de ricorso del VI..

Il sesto motivo è, parimenti, destituito di fondamento.

La corte di merito ha, correttamente, ritenuto sussistente l'aggravante L. n. 203 del 1991, ex art. 7, rilevando che l'attività delittuosa era stata posta in essere in accordo con altri esponenti mafiosi, in primo luogo il P., nel contesto del programma dell'organizzazione mafiosa, a vantaggio della quale era stata ideata e portata a compimento, per ricavarne un utile da destinare al finanziamento del sodalizio.

Il settimo motivo è, pure, infondato.

La corte distrettuale ha giustificato il diniego delle attenuanti generiche "per la personalità negativa del VI. e per il concreto, duraturo e determinante contributo da lui dato all'associazione mafiosa".

Anche l'ottavo motivo è privo di fondamento.

La corte di merito ha osservato che le due condotte di cui al capo 15) erano separate "temporalmente e materialmente", ancorchè erano riconducibili alla medesima ideazione, sicchè rientravano nella nozione di reato continuato, così come contestato.

Infine, il nono motivo è infondato, avendo la corte distrettuale ridotto la pena inflitta, "pur nella considerazione della particolare gravità dei fatti in contestazione".

Il ricorso di V.G. (classe (OMISSIS)), condannato alla pena di anni tre di reclusione per il reato di cui all'art. 378 c.p., comma 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 deve essere rigettato, essendo i relativi motivi destituiti di fondamento.

La corte territoriale ha motivato l'affermazione di responsabilità dell'imputato in relazione al reato di favoreggiamento personale pluriaggravato, così derubricato l'originario addebito di partecipazione ad associazione mafiosa, con argomentazioni adeguate ed immuni da vizi logici e giuridici.

Segnatamente, detta corte ha rilevato che la condotta di ausilio prestata dall'imputalo in favore di P.G. e del cugino omonimo (classe (OMISSIS)) nello svolgimento delle attività di veicolazione dei messaggi da e per Pr., pur non potendo essere interpretata come sintomatica di uno "stabile inserimento nel sodalizio mafioso", in quanto il contributo dello stesso imputato non era stato prestato in modo continuativo e costante ma si era limitato all'effettuazione di viaggi a Vittoria ed al resoconto sugli esiti sotto la guida e per iniziativa del medesimo cugino, tuttavia integrava, attesa la partecipazione ai viaggi ed il supporto logistico offerto al P. ed al cugino, il meno grave reato di favoreggiamento personale pluriaggravato. Invero, il VI. aveva prestato la propria collaborazione in favore di soggetti partecipi all'associazione mafiosa, il che di per sè implicava l'applicazione dell'art. 378 c.p., comma 2. Inoltre, non poteva ritenersi che egli avesse agito al solo scopo di prestare assistenza ed aiuto al cugino, a cui era legato da vincoli di affetto e di parentela. Al contrario, per avere incontrato personalmente anche il m. ed il F., per avere incontrato anche da solo il P. in diverse occasioni al ritorno da (OMISSIS), per avere assistito ai colloqui tra il cugino ed il P. nelle medesime circostanze, egli aveva preso cognizione del significato di quelle trasferte e della loro importanza per la continuità del sistema di comunicazioni tra associati mafiosi. Ciò nonostante, aveva fattivamente e coscientemente cooperato con costoro al fine di agevolare l'intera organizzazione per il perpetuare della condizione di latitanza del suo capo e per tenimento in efficienza del canale messagistico.

I ricorsi delle parti civili Comune di Bagheria, Comune di Casteldaccia, Associazione "S.O.S. Imprese Palermo" Consorzio Metropolis Est s.r.l., che formulano tutti analoghi motivi, possono essere accolti parzialmente.

Il primo motivo non è fondato.

Dalla lettura della sentenza impugnata si evince che la corte territoriale, nell'applicare gli onorari medi della tariffa penale, aveva tenuto conto implicitamente di tutti i criteri indicati dall'art. 1 di tale tariffa, pur esplicitando quelli ritenuti più significativi del "concreto impegno difensivo richiesto".

Segnatamente, la predetta corte ha evidenziato che l'attività difensiva richiesta alle parti civili impugnanti, "in ragione della scelta del rito alternativo operata dagli imputati", aveva "potuto giovarsi delle risultanze copiosissime dell'attività investigativa svolta sotto la direzione della pubblica accusa nel corso delle indagini preliminari, con ciò essendo sollevate sostanzialmente dall'onere probatorio che gravava quali parti attrici proponenti la domanda civile"; e ancora che "la loro attività difensiva si era tradotta nella prospettazione di identiche questioni e nella redazione di atti...di contenuto molto simile tra loro, pur con qualche differenza secondaria".

Il secondo motivo, con cui si lamenta la violazione del punto 6.2 della tariffa penale, è, invece, fondato.

La corte territoriale, invero, ha erroneamente escluso compensi alle parti civili per le udienze di discussione (diciannove), nelle quali esse avevano "assistito passivamente alla discussione del P.M. e dei difensori degli imputati.".

Tale esclusione è in aperto contrasto con la voce 6.2 della tariffa penale di cui al D.M. n. 127 del 2004, che prevede espressamente la "assistenza alle discussioni delle altre parti" come voce distinta e separata da quella relativa alla "discussione orale" indicata alla voce 6.3.

Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, limitatamente alla mancata liquidazione, in primo grado, degli onorari relativi alle attività difensive svolte nelle accennate diciannove udienze, onorari che determina, ai sensi del punto 6.2 della tabella C delle tariffe forensi allegate al D.M. 8 aprile 2004, n. 127, in complessivi Euro 1.900,00= (Euro 100,00= per ogni udienza) per ciascuna delle parti civili ricorrenti, oltre accessori come per legge.

I ricorsi delle citate parti civili devono essere rigettati nel resto.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione Sezione Quinta Penale annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.O., limitatamente alla misura della pena, che ridetermina in anni dodici, mesi cinque ed Euro 2.300,00= di multa.

Rigetta nel resto il ricorso del M..

Rigetta i ricorsi degli altri imputati.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla esclusione in primo grado, per le parti civili ricorrenti, degli onorari per assistenza alla discussione delle altre parti, che determina, ex art. 6, comma 2 della Tariffa Forense, in Euro 1.900,00=, oltre accessori come per legge, per ciascuna delle parti civili ricorrenti.

Rigetta nel resto i ricorsi delle suddette parti civili.

Condanna ciascuno dei ricorrenti, eccetto il M., al pagamento delle spese processuali.

Condanna tutti gli imputati, in solido, alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili, che liquida in Euro 2.500,00= per ciascuna delle parti civili ricorrenti ed in Euro 1.500,00= per l'Associazione Industriali della Provincia di Palermo, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 14 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 29 aprile 2010

 
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