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Illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico;
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
- Alessandro CRISCUOLO Presidente
- Giuseppe FRIGO Giudice
- Paolo GROSSI ”
- Giorgio LATTANZI ”
- Aldo CAROSI ”
- Marta CARTABIA ”
- Mario Rosario MORELLI ”
- Giancarlo CORAGGIO ”
- Giuliano AMATO ”
- Silvana SCIARRA ”
- Daria de PRETIS ”
- Nicolò ZANON ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-quater, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), aggiunti dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, promossi dalla Corte d’appello di Firenze, con ordinanza del 1° aprile 2014, e dalla Corte d’appello di Catanzaro, con ordinanza del 10 marzo 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 180 e 248 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2014 e n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’8 luglio 2015 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 1° aprile 2014 (r.o. n. 180 del 2014), la Corte d’appello di Firenze ha proposto questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-quater, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente premette di dover decidere un ricorso, depositato nel 2013, con cui talune persone hanno proposto opposizione contro un decreto che ha rigettato una domanda di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001. La domanda si riferiva alla dedotta inosservanza del termine ragionevole di conclusione di un processo penale nei confronti dei ricorrenti, che era stato definito con sentenza della Corte di cassazione del 28 gennaio 2013.
Il giudice a quo osserva che la decisione di rigetto è stata assunta in applicazione delle disposizioni censurate, introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134.
In particolare, la complessiva durata del processo è stata determinata in otto anni e sei mesi, escludendo dal calcolo la fase delle indagini preliminari di «oltre sei anni e mezzo», in applicazione dell’art. 2, comma 2-bis, della legge impugnata, in base al quale il «processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, di parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari».
È stato altresì escluso il periodo, di un anno e due mesi circa, di sospensione del processo di primo grado dovuta alla proposizione di una questione di legittimità costituzionale, in applicazione dell’art. 2, comma 2-quater, impugnato, il quale stabilisce che «Ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso».
Il rimettente, dopo avere motivatamente respinto le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato, e dopo avere escluso, come sollecitavano i ricorrenti, di poter disapplicare le disposizioni censurate in forza dell’adesione dell’Unione europea alla CEDU, osserva che l’art. 6 della CEDU, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, imporrebbe di calcolare la fase delle indagini preliminari, ai fini dell’osservanza dei termini di ragionevole durata del processo penale. Quest’ultimo dovrebbe considerarsi iniziato, a tal fine, con il compimento di atti che comportino la partecipazione dell’indagato o del suo difensore al procedimento. La Corte d’appello aggiunge che, nel caso di specie, taluni ricorrenti hanno ricevuto l’informazione di garanzia il 15 febbraio 1994, mentre altri sono stati soggetti a custodia cautelare fin dal 5 novembre 1994.
Escludendo dal computo il tempo che ha preceduto il momento in cui gli imputati hanno avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU. La conseguente questione di costituzionalità sarebbe rilevante, in ragione dell’applicabilità della norma impugnata, e comunque tenuto conto della «rilevanza concreta della durata delle indagini preliminari (oltre sei anni e mezzo) nella complessiva durata del procedimento» penale.
Quanto alla sospensione del processo di primo grado dal 28 gennaio 2006 al 21 marzo 2007, il rimettente ribadisce la rilevanza delle questioni di costituzionalità che investono l’art. 2, comma 2-quater, della legge n. 89 del 2001, in quanto norma applicabile, e «anche per la rilevanza concreta della durata della sospensione» nella «complessiva durata del procedimento di primo grado».
La disposizione violerebbe gli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, nonché il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), perché escluderebbe dal calcolo del termine di ragionevole durata del processo i periodi di sospensione, «senza distinguere se i motivi della sospensione siano o meno riconducibili alle parti ricorrenti per l’equa riparazione». Tra le cause di sospensione non riconducibili alle parti vi sarebbe la proposizione della questione di legittimità costituzionale che, «seppure fosse stata sollecitata dalle parti ricorrenti è comunque ovviamente un provvedimento giurisdizionale del giudice a quo».
Posto che questi dubbi di costituzionalità non sono risolvibili in via interpretativa, il rimettente ha sollevato le odierne questioni di legittimità costituzionale.
2.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione relativa all’art. 2, comma 2-quater (recte: comma 2-bis), impugnato, sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata, e che altrettanto non fondata sia reputata la questione relativa all’art. 2, comma 2-quater.
L’Avvocatura generale dello Stato dà atto che in base alla giurisprudenza europea il termine di ragionevole durata del processo penale decorre da quando è formulata un’«accusa» nei confronti dell’indagato, e, «potenzialmente, quindi, anche prima dell’assunzione da parte del medesimo della qualità di imputato o prima della legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari».
Tuttavia, l’art. 2, comma 2-bis, impugnato, avrebbe appunto la funzione di stabilire «un momento tipico cui riconnettere l’individuazione del dies a quo ai fini della determinazione della ragionevole durata del processo», che si giustificherebbe in ragione della «fluidità della posizione dell’indagato» fino a quando non siano chiuse le indagini preliminari, o comunque sia stata esercitata l’azione penale. Solo da allora, l’«ipotesi accusatoria» diverrebbe un’«accusa» in senso proprio.
La questione sarebbe in ogni caso priva di rilevanza, perché il rimettente, diversamente dal giudice di prima istanza, non avrebbe considerato che la complessità degli accertamenti compiuti in fase di indagini preliminari sarebbe stata tale da giustificare il superamento del termine di due anni a tal fine previsto dalla legge, giungendo a durare oltre quattro anni.
Quanto all’art. 2, comma 2-quater, la mancata valutazione del periodo di sospensione del processo sarebbe giustificata dal fatto che «la sospensione comunque opera nell’interesse dell’imputato».
La norma impugnata a buon titolo non avrebbe perciò distinto i casi in cui la sospensione è stata chiesta dall’imputato da quelli in cui essa viene disposta d’ufficio dal giudice.
Nel caso di specie, poi, andrebbe considerato che la sospensione conseguente alla proposizione di una questione di legittimità costituzionale verrebbe in ogni modo a soddisfare l’interesse dell’imputato, e comunque renderebbe ragionevole un prolungamento della durata del processo.
Infine, la questione di costituzionalità relativa all’art. 3 Cost. sarebbe non fondata, perché il principio di uguaglianza «non può trovare applicazione diacronica con riferimento alla successione di norme».
3.– Con ordinanza del 10 marzo 2014 (r.o. n. 248 del 2014), la Corte d’appello di Catanzaro ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
Il giudice a quo è investito dell’opposizione avverso il decreto monocratico con cui è stata rigettata la domanda della parte diretta ad ottenere un’equa riparazione, conseguente all’eccessiva durata di un processo penale.
Il giudice monocratico ha stimato la complessiva durata del processo in quattro anni e cinque mesi, assumendo che, ai fini dell’equa riparazione, esso sia stato avviato con la richiesta di rinvio a giudizio e si sia concluso al momento in cui è maturata la prescrizione dei reati addebitati, nel giugno del 2011. Tale durata è stata reputata non eccessiva.
La Corte d’appello osserva che il termine iniziale del procedimento è stato determinato in applicazione dell’art. 2, comma 2-bis, impugnato, nel testo introdotto dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie.
Su eccezione di parte, il rimettente reputa tale previsione normativa di dubbia costituzionalità con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., da porsi in relazione all’art. 6 della CEDU. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, avrebbe ripetutamente e costantemente affermato che il processo penale, ai fini dell’indennizzo, si considera avviato con la «contestazione dell’infrazione penale». Perciò nel caso di specie si sarebbe dovuto individuare il termine iniziale del processo nel giorno in cui l’indagato è stato sottoposto ad una misura cautelare.
Qualora la questione fosse accolta, la durata del processo penale andrebbe stimata in sei anni e quattro mesi, e non sarebbe affatto giustificata neppure alla luce degli «aspetti di complessità connotanti il caso in esame».
4.– E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, nel merito, non fondata.
In punto di ammissibilità, la difesa dello Stato rileva che il processo si è concluso con la prescrizione dei reati addebitati e che l’art. 2, comma 2-quinquies, lettera d), della legge impugnata, nega l’indennizzo nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte.
Il rimettente, ai fini della motivazione sulla rilevanza, avrebbe perciò dovuto verificare se si fosse realizzata quest’ultima ipotesi normativa, la quale comporterebbe il rigetto della domanda, privando con ciò di rilevanza la questione.
Nel merito, l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che la norma impugnata, tenendo in conto l’art. 6 della CEDU, individua un «momento tipico» da cui calcolare la durata del processo penale, e che solo da tale momento, in accordo con la normativa europea, può dirsi «realmente configurata e cristallizzata un’accusa».
Considerato in diritto
1.– La Corte d’appello di Firenze (r.o. n. 180 del 2014) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-quater, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.
Il rimettente giudica dell’opposizione proposta avverso il decreto con cui il giudice monocratico, applicando le norme impugnate, ha rigettato una domanda di equa riparazione conseguente alla durata di un processo penale (stimata in otto anni e sei mesi, per tre gradi di giudizio), che i ricorrenti ritengono irragionevole e pertanto lesiva del diritto garantito dall’art. 2 della legge n. 89 del 2001.
Il giudice a quo premette che, al fine di calcolare la durata complessiva del processo, rilevano entrambe le norme impugnate, introdotte dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134, e applicabili ratione temporis alla fattispecie.
L’art. 2, comma 2-bis, stabilisce che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, parte civile o di responsabile civile, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari. Ne consegue che nel calcolo la legge vieta di includere il tempo occupato dallo svolgimento delle indagini preliminari, che nel caso del processo principale si sono protratte per circa sei anni.
L’art. 2, comma 2-quater, prevede, per quanto ora interessa, che ai fini del computo non si tiene conto del tempo in cui il processo è sospeso. Il rimettente precisa che il giudizio a quo è stato sospeso per un anno e due mesi, in ragione della proposizione di una questione di legittimità costituzionale.
Una volta chiarita la necessità di applicare le norme impugnate, la Corte d’appello rimettente reputa che l’art. 2, comma 2-bis, sia lesivo degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art 6 della CEDU, poiché la giurisprudenza di Strasburgo avrebbe reiteratamente riconosciuto il diritto all’equa riparazione anche per la fase delle indagini preliminari. Parimenti dovrebbe ritenersi che l’art. 2, comma 2-quater, è illegittimo nella parte in cui esclude dal calcolo la durata della sospensione «senza distinguere se i motivi della sospensione siano o meno riconducibili alle parti». In tale ultimo caso, sarebbe leso anche il principio di uguaglianza enunciato dall’art. 3 Cost.
2.– La Corte d’appello di Catanzaro (r.o. n. 248 del 2014) dubita, a sua volta, delle legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., con riguardo all’art. 6 della CEDU.
Il rimettente si trova a giudicare dell’opposizione al decreto con cui il giudice monocratico, applicando le norme impugnate, ha negato la riparazione per i danni subiti dal ricorrente a causa della durata di un processo penale, calcolata in quattro anni e cinque mesi per un grado di giudizio.
Anche in questo caso il giudice a quo è tenuto ratione temporis ad applicare la norma impugnata e quindi ad escludere dal calcolo della durata complessiva del processo la fase delle indagini preliminari (computando la quale, invece, il processo valicherebbe il limite di sei anni). Tale regola pare al rimettente in contrasto con quella opposta che si desumerebbe dalla consolidata giurisprudenza europea, e di conseguenza lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
3.– I giudizi vertono, in parte, sulla medesima disposizione e pongono questioni analoghe. Essi vanno perciò riuniti, ai fini di una decisione congiunta.
4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito l’inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni relative all’art. 2, comma 2-bis, impugnato, osservando che i rimettenti non avrebbero valutato se il superamento del termine di ragionevole durata del processo, ove fosse computata anche la fase preliminare all’esercizio dell’azione penale, potesse ritenersi comunque tollerabile, e tale da non ledere il diritto all’equa riparazione, in ragione della complessità delle indagini. Inoltre, la Corte d’appello di Catanzaro, a fronte della prescrizione del reato, avrebbe dovuto motivare in ordine all’assenza di condotte dilatorie dell’imputato, dato che esse comportano il diniego di indennizzo, ai sensi dell’art. 2, comma 2-quinquies, della legge n. 89 del 2001.
Le eccezioni non sono fondate.
I rimettenti sono tenuti ad applicare le norme impugnate nel compimento di un’operazione logico-giuridica che precede la valutazione relativa alla fondatezza della domanda di riparazione. Per stabilire se la durata del processo, pur valicando i limiti temporali indicati dall’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della legge n. 89 del 2001, sia stata giustificata dalla complessità del caso, o indotta dal comportamento delle parti, è necessario, in via preliminare, sulla base dei criteri indicati dalla legge, determinare tale durata. Questo comporta l’applicazione delle disposizioni censurate e la conseguente rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale di cui esse sono oggetto, che i rimettenti hanno adeguatamente motivato.
5.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, sollevata in modo analogo da entrambi i rimettenti in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., è fondata nei termini che seguono.
Va premesso che i processi principali sono stati avviati da chi ha rivestito, nei giudizi penali di cui si lamenta l’eccessiva durata, la veste di imputato. In accordo con ciò, si desume chiaramente dalle motivazioni delle ordinanze di rimessione che la norma impugnata viene censurata con riferimento alla posizione di tale parte e non anche a quella della parte civile e del responsabile civile, ovvero degli altri soggetti menzionati dall’art. 2, comma 2-bis.
I giudici a quibus, nel valutare il contrasto tra la normativa nazionale e la norma interposta, costituita dall’art. 6 della CEDU, hanno proceduto, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, sia ad escludere la disapplicazione della prima (sentenze n. 80 del 2011, n. 349 e n. 348 del 2007), sia ad assegnare alla seconda il significato che si trae dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo, dalla quale soltanto non è permesso di discostarsi nell’esercizio del potere interpretativo garantito al giudice nazionale dall’art. 101, secondo comma, Cost. (sentenza n. 49 del 2015).
Sotto quest’ultimo profilo, non vi è dubbio che la Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso reiterate pronunce (tra le molte, sentenze 16 luglio 1971, Ringeisen c. Austria; 15 luglio 1982, Eckle c. Germania; 10 dicembre 1982, Corigliano c. Italia; 19 febbraio 1991, Manzoni c. Italia; 26 febbraio 1993, Messina c. Italia; 4 aprile 2006, Kobtsev c. Ucraina), abbia dedotto dall’art. 6 della CEDU la regola che impone, ai fini dell’indennizzo conseguente all’inosservanza del termine di ragionevole durata del processo penale, di tenere conto del periodo che segue la comunicazione ufficiale, proveniente dall’autorità competente, dell’accusa di avere commesso un reato.
Si tratta, peraltro, di un approdo ermeneutico del tutto consono alle finalità perseguite dal giudizio di riparazione e sollecitate dall’osservanza del canone del giusto processo in ambito convenzionale. La violazione del diritto a una celere definizione del processo penale, espresso dall’art. 6 della CEDU, genera infatti la pretesa di un indennizzo idoneo a ristorare il patimento cagionato dalla eccessiva pendenza dell’accusa, quando essa sia stata espressa per mezzo di un atto dell’autorità giudiziaria e abbia in tal modo acquisito una consistenza tale da ripercuotersi significativamente sulla vita dell’indagato (Corte EDU, sentenza 15 luglio 1982, Eckle c. Germania). È questa un’evenienza in alcun modo circoscrivibile alla fase del processo che segue all’esercizio dell’azione penale (art. 405 cod. proc. pen.) e all’assunzione della qualità di imputato (art. 60 cod. proc. pen.), posto che essa tende naturalmente a manifestarsi fin dal tempo in cui una persona è venuta formalmente a conoscenza dell’esistenza di un’indagine a suo carico, in particolare quando si accompagna al compimento di atti invasivi della sfera di libertà dell’individuo.
Pertanto, una volta penetrato nel nostro ordinamento, per effetto della giurisprudenza europea e con valore di fonte sovra-legislativa, il principio che collega alla lesione del diritto alla ragionevole durata del processo, sancito dall’art. 6 della CEDU, una pretesa riparatoria nei confronti dello Stato, viene da sé che l’equa riparazione avrà ad oggetto non soltanto la fase che la normativa nazionale qualifica “processo”, ma anche le attività procedimentali che la precedono, ove idonee a determinare il danno al cui ristoro è preposta l’azione.
In altri termini, se si individua nella CEDU il parametro interposto con cui confrontare la legittimità delle scelte legislative in punto di equa riparazione, la nozione di “processo” si rende per ciò stesso autonoma dalle ripartizioni per fasi dell’attività giudiziaria finalizzata all’accertamento dei reati, per come viene disegnata dal legislatore nazionale. In ciò ancora una volta «si manifesta in modo vivido la natura della CEDU, quale strumento preposto, pur nel rispetto della discrezionalità legislativa degli Stati, a superare i profili di inquadramento formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l’effettività» (sentenza n. 49 del 2015).
La stessa legge n. 89 del 2001 intende dichiaratamente offrire un rimedio interno per i casi di violazione dell’art. 6, comma 1, della CEDU (art. 2, comma 1, della legge n. 89 del 2001), così confermando che nell’ordito normativo è quest’ultima disposizione, nel significato conferitole dalla consolidata giurisprudenza europea, a definire il ventaglio delle opzioni che si offrono al legislatore.
Tra queste vi è la specificazione dei criteri di quantificazione della somma dovuta, purché essi non conducano ad accordare un indennizzo manifestamente incongruo rispetto a quello che sarebbe stato invece conseguito ove fosse stato esperito ricorso avanti alla Corte di Strasburgo. Proprio quest’ultima, nella sua massima composizione e dunque con pronuncia senz’altro valevole ad esprimere l’indirizzo vincolante del giudice europeo, ha accordato agli Stati un largo margine di apprezzamento nella costruzione di un rimedio compensatorio interno, che tenga conto delle peculiarità dell’ordinamento nazionale e dei livelli di vita del paese, fino al punto da giustificare indennizzi, pur sempre adeguati, ma inferiori a quelli ottenibili con un ricorso davanti alla Corte europea (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino c. Italia; sentenza 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia).
Vi è, perciò, uno spazio per scelte discrezionali (sentenza n. 30 del 2014) che incidono sulla determinazione di quanto spetta a titolo di equa riparazione, purché esse siano esercitate nel rispetto dei principi cardine con cui la Corte di Strasburgo colora di significato l’art. 6 della CEDU e purché tali scelte non si prestino, in linea astratta, ad incidere sull’an stesso del diritto, anziché sul quantum.
L’art. 2, comma 2-bis, impugnato, non rispetta nessuna di tali condizioni.
Non la prima, perché il legislatore si è svincolato dalla generale nozione di “processo” penale rilevante ai sensi dell’art. 6 della Convenzione e tale da abbracciare anche parte delle indagini preliminari, per ripiegare sulla qualificazione nazionale di tale istituto, benché essa, come si è visto, non sia conciliabile con la finalità perseguita dal rimedio compensatorio garantito dalla CEDU.
Non la seconda, giacché è senza dubbio possibile che solo aggiungendo il periodo di svolgimento delle indagini al computo della durata del successivo processo penale si superi il limite di tempo, di fase o complessivo, rispettato il quale non sorge diritto alla riparazione. La norma impugnata, amputando il “processo”, per come va inteso ai sensi dell’art. 6 della CEDU, di una sua componente si congiunge alla previsione normativa che vieta di accogliere la domanda di riparazione se il giudizio non ha ecceduto la durata di tre anni in primo grado, di due in secondo grado e di uno innanzi alla Corte di cassazione, e comunque quella complessiva di sei anni. In tal modo, viene formulata una previsione astratta, la cui applicazione si presta ad incidere negativamente non solo sulla misura della riparazione, ma anche sulla sussistenza del relativo diritto. Tale effetto, connaturato alla norma censurata, deve ritenersi precluso al legislatore (sentenza n. 30 del 2014; ordinanza n. 124 del 2014).
Compito di questa Corte è perciò di ricondurre la norma impugnata alla legalità convenzionale, dichiarandone l’illegittimità costituzionale per la parte in cui essa si è allontanata dall’osservanza della normativa interposta, e quindi anche dell’art. 117, primo comma, Cost.
A tal fine, va osservato che la Corte di Strasburgo ha specificamente affermato che l’art. 6 della CEDU non impone di assumere in considerazione l’intera fase delle indagini (sentenza 10 dicembre 1982, Corigliano c. Italia; sentenza 15 luglio 1982, Eckle c. Germania), se esse non hanno comportato la comunicazione formale dell’accusa penale, o comunque il compimento di atti, da parte dell’autorità a ciò competente, che si siano ripercossi sulla sfera giuridica della persona. Una pronuncia di questa Corte che prescrivesse l’obbligo di computare l’intera durata delle indagini preliminari finirebbe perciò per eccedere quanto necessario sul piano della legittimità costituzionale, includendo arbitrariamente fasi durante le quali l’indagato, ignaro dell’iniziativa dell’autorità giudiziaria, non ha subito alcun patimento, e che quindi il legislatore ben può escludere dal periodo rilevante ai fini della riparazione.
Del resto, prima dell’introduzione dell’art. 2, comma 2-bis, impugnato, la giurisprudenza di legittimità si era assestata nel senso che ad assumere rilievo fosse solo il tempo successivo al momento in cui l’indagato aveva avuto concreta notizia del procedimento penale (Corte di cassazione, sezioni unite civili, 23 settembre 2014, n. 19977).
Calando la giurisprudenza europea nel contesto nazionale, risulta che l’autorità competente a conferire all’accusa penale la consistenza necessaria ad interferire con la sfera personale dell’indagato è l’autorità giudiziaria, attraverso il compimento di atti dai quali consegua la conoscenza, da parte della persona, della pendenza di un’indagine a suo carico.
L’art. 2, comma 2-bis, della legge n. 89 del 2001, va conseguentemente dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico.
Va da sé che, pur dopo avere ristabilito la conformità a Costituzione della norma impugnata, ed avere così incluso nel calcolo della durata del processo le indagini preliminari, nei limiti appena indicati, persiste la discrezionalità giudiziaria nel verificare, alla luce dei fattori indicati dalla Corte EDU e dal legislatore, se l’eventuale inosservanza dei termini di legge comporti o meno violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.
Resta assorbita la censura di violazione dell’art. 111 Cost. proposta dalla Corte d’appello di Firenze.
6.– Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quater, della legge n. 89 del 2001, sollevate dalla sola Corte d’appello di Firenze, in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Cost., sono inammissibili.
Il rimettente reputa costituzionalmente illegittima la norma impugnata, nella parte in cui sottrae al computo della durata del processo i periodi di sospensione che non siano «riconducibili» alle parti, ovvero «dovuti al comportamento delle parti».
Questa Corte ha già avuto modo di affermare con riferimento al processo penale, ma con argomenti di carattere sistematico più ampio, che la sospensione è istituto «oggetto non di una disciplina generale, bensì di specifiche regolamentazioni dettate con riguardo alla diversità dei presupposti e delle finalità perseguite» (sentenza n. 24 del 2004).
A ciò si aggiunga che, allo scopo di saggiare la conformità della previsione legislativa impugnata alla Costituzione, e in particolare all’art. 6 della CEDU, sarebbe necessario verificare l’aderenza del divieto di prendere in considerazione le fasi di sospensione del processo, rispetto alle finalità cui deve rispondere la disciplina del diritto all’equa riparazione.
Esse si sostanziano, come si è visto, nel ristoro del patimento subito a causa della pendenza del processo, attribuibile a disfunzioni dell’apparato statuale.
A fronte di ciò, il criterio normativo suggerito dal rimettente per distinguere un’ipotesi di sospensione dall’altra appare anzitutto indeterminato, perché non chiarisce se la “riconducibilità” della causa sospensiva alle parti implichi un giudizio di imputabilità, in ragione di una condotta ostruzionistica che osta al ristoro del danno (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 29 maggio 1986, Deumeland c. Germania), ovvero un apprezzamento in ordine alla domanda delle parti cui consegua la sospensione del processo, ove essa valga quale fatto obiettivo, non imputabile allo Stato, e idoneo ad incidere sul diritto all’equa riparazione (Corte EDU, sentenza 12 maggio 1999, Saccomanno c. Italia), ovvero ancora la corrispondenza della sospensione a un interesse, o anche ad un’esigenza processuale, propria delle sole parti.
L’eterogeneità delle ipotesi di sospensione previste dai diversi settori processuali dell’ordinamento non è, in altri termini, ricondotta a unità per mezzo dell’ambigua formula cui il rimettente ha ancorato il dubbio di costituzionalità.
Tale criterio, oltre che vago, si mostra inoltre inadeguato, poiché appare slegato dalle linee direttrici promananti dalla giurisprudenza europea.
È sufficiente considerare, a tal fine, che la Corte di Strasburgo, in modo costante, include nel periodo rilevante ai fini della ragionevole durata del processo il periodo di sospensione conseguente alla proposizione di un incidente di legittimità costituzionale (Grande Camera, sentenza 29 maggio 1986, Deumeland c. Germania; inoltre, a sezioni semplici, sentenza 4 dicembre 1995, Terranova c. Italia; sentenza 25 febbraio 2000, Gast e Popp c. Germania; sentenza 31 maggio 2001, Metzger c. Germania), ma non quello derivante dal rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’unione europea, per la cui protrazione nulla è imputabile allo Stato (sentenza 26 febbraio 1998, Pafitis e altri c. Grecia; sentenza 30 settembre 2003, Koua Poirrez c. Francia).
È chiaro che tali ipotesi di sospensione sono del tutto equivalenti, quanto all’attività e agli interessi delle parti del processo a quo, ovvero al criterio normativo sposato dal rimettente, ma ben si comprende la ragione per cui, agli effetti dell’equa riparazione per la eccessiva durata del processo, la Corte di Strasburgo non ritenga di accomunarle.
Il giudice a quo, anziché limitarsi a dubitare della legittimità costituzionale della porzione di norma attinente al processo principale, che verteva sulla sospensione per incidente di legittimità costituzionale, ha impugnato l’intera disposizione, propugnandone la declaratoria di incostituzionalità in un senso indeterminato e inadeguato, e comunque non costituzionalmente obbligato.
Tale vizio determina l’inammissibilità delle questioni.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-bis, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), nella parte in cui prevede che il processo penale si considera iniziato con l’assunzione della qualità di imputato, ovvero quando l’indagato ha avuto legale conoscenza della chiusura delle indagini preliminari, anziché quando l’indagato, in seguito a un atto dell’autorità giudiziaria, ha avuto conoscenza del procedimento penale a suo carico;
2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2-quater, della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui sottrae al computo della durata del processo i periodi di sospensione che non siano riconducibili alle parti, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, Cost., dalla Corte d’appello di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 luglio 2015.
F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giorgio LATTANZI, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2015.
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