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In tema di traduzione degli atti, poiché l’efficacia operativa dell’art. 143 cod. proc. pen. è subordinata all’accertamento dell’ignoranza della lingua italiana da parte dell’imputato, qualora l’imputato straniero mostri, in sede di espletamento dell’attività processuale, di rendersi conto del significato degli atti compiuti con il suo intervento o a lui indirizzati, e non rimanga completamente inerte ma, al contrario, assuma personalmente iniziative, come colloqui, conversazioni telefoniche, interrogatori, rivelatrici della sua capacità di difendersi adeguatamente, al giudice non incombe l’obbligo di provvedere alla nomina dell’interprete, dovuta solo sul presupposto indefettibile della non conoscenza o della difficoltà di comprensione della lingua italiana da parte dell’imputato (Nell’occasione la Corte ha precisato l’accertamento dell’ignoranza della lingua italiana da parte dell’imputato costituisce indagine di mero fatto il cui esito, se riferito dal giudice con argomentazioni esaustive e concludenti, sfugge al sindacato di legittimità).
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RIZZO Aldo - Presidente Dott. CONZATTI Alessandro - Consigliere Dott. CASUCCI Giuliano - Consigliere Dott. MONASTERO Francesco - Consigliere Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA/ORDINANZA
sul ricorso proposto da: 1) S.T. nato il ...; avverso la sentenza del 11/03/2005 della Corte d'Appello di Roma; visti gli atti, la sentenza ed il procedimento; udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. MONASTERO FRANCESCO; Udito il Procuratore Generale in persona del Sost. Dott. CONSOLO Santi che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito il difensore Ciampa che concludeva per l'accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza pronunciata in data 12 marzo 2004, il Tribunale di Roma dichiarava S. T. colpevole dei delitti di sequestro di persona e lesioni personali, e lo condannava, ritenute le attenuanti generiche e la continuazione, applicata la diminuente per il rito abbreviato, alla pena di undici anni e due mesi di reclusione, con l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e l'interdizione legale per la durata della pena.
Il difensore dell'imputato proponeva appello avverso tale decisione deducendo: - La nullita' dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415bis c.p.p., dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, ex art. 419 c.p.p., nonche' del decreto di rinvio a giudizio e di tutti gli atti successivi, in relazione all'art. 143 c.p.p.; - La nullita' della sentenza, per violazione dell'art. 525, comma 2, c.p.p.; - La nullita' dei provvedimenti adottati nell'udienza del 19 novembre 2003, per violazione dell'art. 143 c.p.p.; - L'inutilizzabilita' delle conversazioni telefoniche intercettate e trascritte, con incarico in data 20 novembre 2003, per mancanza del decreto autorizzativo; - La mancata derubricazione del delitto di cui all'art. 630 c.p., in quello di esercizio arbitrano delle proprie ragioni o, al piu', in quello di cui all'art. 605 c.p.
La Corte territoriale dichiarava infondate tutte le censure proposte con i motivi di appello, sia processuali che di merito, confermando integralmente la sentenza impugnata. In particolare la Corte di appello, dopo aver rigettato le eccezioni in rito, prendeva in considerazione la diversa ricostruzione dei fatti operata dal difensore dell'imputato che aveva sostenuto che la condotta del S. poteva integrare, al piu', il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni o quello di sequestro di persona previsto dall'art. 605 c.p., senza alcuna finalita' estortiva non potendo considerarsi "ingiusto" il profitto perche' la somma di denaro richiesta per la liberazione della parte lesa non rappresentava altro che il "rimborso" delle spese che la madre della donna sequestrata aveva sostenuto in Ucraina per mantenere e curare il figlio della stessa parte lesa. La Corte territoriale, ricostruita l'intera vicenda processuale con l'analisi degli esami dei testi, dell'imputato, della parte lesa e considerati gli altri elementi offerti dall'istruzione dibattimentale, riteneva che la tesi prospettata dall'imputato, peraltro considerata poco verosimile, non fosse in alcun modo provata e, per l'effetto, confermava integralmente la sentenza di primo grado.
Ricorre per cassazione il difensore dell'imputato deducendo: - Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' (art. 178, lettera c) c.p., e art. 143 c.p.), in relazione all'art. 606, comma 1, lettera c) c.p.p., con riferimento: 1) alla disciplina prevista dagli artt. 415bis, 419 e 429 c.p.p.; 2) al mancato intervento dell'interprete all'udienza del 19 novembre 2003, con relativa nullita' di tutti gli atti conseguenti; - Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' (art.179 c.p. e art. 525, comma 2, c.p.p., con riferimento al mutamento del collegio giudicante, alla mancata rinnovazione degli atti, con conseguente nullita' di tutti gli atti successivi e conseguenti), in relazione all'art. 606, comma 1, lettera c),c.p.p; - Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' (artt. 267, 268 e 271 c.p.p., con riferimento alle conversazioni telefoniche intercettate e trascritte in data 20 novembre 2003), in relazione all'art. 606, comma 1, lettera c) c.p.p.; - Inosservanza e erronea applicazione della legge penale e conseguente carenza e illogicita' della motivazione risultante dal testo del provvedimento (art. 521c.p.p., nonche' 630, 393 e 605, e art. 43 c.p.), in relazione all'art. 606, comma 1, lettera b) ed e), c.p.p..
Quanto al primo motivo il ricorrente ritiene erronea la lettura operata dalla Corte territoriale con riferimento all'art. 143 c.p.p.; la garanzia dell'assistenza dell'interprete deve, infatti, ad avviso del ricorrente, necessariamente ricomprendere non solo gli atti orali, come affermato nella sentenza impugnata, ma anche tutti gli altri atti del procedimento qualora si accerti la mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato. Sul punto, da un lato, viene richiamata la sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 1993, dalla quale si coglierebbe il citato principio e, dall'altro, si sottolinea che la giurisprudenza di legittimita', della quale vengono riportate alcune decisioni, dopo iniziali oscillazioni, si sarebbe ormai stabilizzata nel senso suggerito dalla Corte regolatrice (viene richiamata, tra le altre, Cass. Sez. Un., n. 5052, 24 settembre 2003, Zalagaitis), affermando, altresi', che anche l'ordinanza di custodia cautelare nei confronti dello straniero che non conosce la lingua italiana deve essere tradotta nella lingua dallo stesso conosciuta.
Quanto al secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce la nullita' per la mancata nomina di un interprete, degli atti compiuti nell'udienza del 19 novembre 2003, durante la quale era stata ascoltata una microcassetta contenente colloqui tra l'imputato e la parte lesa, era stato letto il capo d'imputazione ed erano state ammesse le prove: l'accordo delle parti, richiamato in motivazione dalla Corte territoriale come fonte di legittimazione dei predetti provvedimenti, si riferiva infatti, assume la difesa, solo all'audizione della microcassetta e non anche alle altre attivita' compiute nella stessa udienza.
Quanto al terzo motivo il ricorrente deduce la nullita' degli atti posti in essere all'udienza del 24 ottobre 2003, essendo stati adottati da un collegio diversamente composto rispetto a quello che ha poi deliberato la sentenza.
Quanto al quarto motivo di ricorso il ricorrente deduce la nullita' delle conversazioni telefoniche intercettate e trascritte in data 20 novembre 2003, trattandosi di registrazioni effettuate all'insaputa dell'interlocutore e contestualmente "captate alla presenza e con l'intervento di organi di polizia": le registrazioni de quibus avrebbero natura di vere e proprie intercettazioni che, diversamente dall'ipotesi di conversazioni tra presenti, captate da uno degli interlocutori, esigerebbero il rispetto della disciplina di cui agli artt. 266 e segg. c.p.p.
Quanto al quinto motivo di gravame, il ricorrente ripropone la tesi, gia' sostenuta davanti la Corte territoriale, che la condotta degli imputati integrerebbe la fattispecie di cui all'art. 393 c.p., o, al piu', quella di cui all'art. 605 c.p. e non gia' quella piu' grave contestata in rubrica. Soggiunge il ricorrente che la motivazione della sentenza della Corte di appello, sul punto della qualificazione giuridica dei fatti, sarebbe carente e del tutto illogica perche', da un lato, avrebbe richiamato integralmente e fatto proprie, ai fini della decisione, le dichiarazioni delle parti offese e, dall'altro, avrebbe invece riportato solo parzialmente la dichiarazioni dell'imputato e dei testi della difesa, alle quali non sarebbe stato dato il giusto credito: in particolare la sentenza non avrebbe approfondito congruamente, come sarebbe stato necessario, le motivazioni offerte dall'imputato, fin dall'udienza di convalida, a giustificazione della propria condotta, approfondimento che avrebbe comportato una ben diversa valutazione dei fatti e una loro diversa qualificazione giuridica. Infine, il ricorrente sostiene che il dolo specifico richiesto per integrare il reato di sequestro di persona sarebbe, nella specie, del tutto assente: il comportamento del soggetto attivo del reato sarebbe contrassegnato dalla volonta' di realizzare un profitto "giusto", consistente, infatti, nella volonta' di rimborsare la madre della parte lesa, per le spese sostenute per la cura e il mantenimento del di lei figlio.
Alla pubblica udienza del 6 ottobre 2005, il Procuratore Generale concludeva per il rigetto del ricorso mentre il difensore dell'imputato ne chiedeva l'accoglimento sviluppando le argomentazioni gia' illustrate con i motivi del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso e' infondato.
Quanto al primo motivo (nullita' dell'avviso ex art. 415bis c.p. e di tutti gli atti conseguenti, ivi comprese le sentenze di primo e di secondo grado, per mancata traduzione degli atti nella lingua dell'imputato), il ricorrente richiama i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 10 del 1993, principi che sarebbero stati recepiti dalla successiva giurisprudenza di legittimita'. Questo collegio condivide pienamente il principio fondamentale affermato dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza e cioe' che "il diritto dell'imputato ad essere immediatamente informato, nella lingua da lui conosciuta, della natura e dei motivi dell'imputazione contestatagli, deve essere considerato un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile" e che, di conseguenza, non puo' essere condiviso l'assunto che l'art. 143 c.p.p. vada configurato come norma di stretta interpretazione che tollera come uniche eccezioni alla regola dell'utilizzazione dell'interprete per gli atti orali, solo quelle espressamente previste dallo stesso codice di rito (art. 109, comma 2, e art. 169, comma 3, c.p.p.). L'art.143 cod. proc. pen. va infatti interpretato, conformemente al dictum della citata sentenza, come una clausola generale "destinata a espandersi e a specificarsi, nell'ambito dei fini normativamente riconosciuti, di fronte al verificarsi delle varie esigenze concrete che lo richiedano, quali il tipo di atto cui la persona sottoposta al procedimento deve partecipare ovvero il genere di ausilio di cui la stessa abbisogna"; essendo peraltro finalizzato a garantire all'imputato che non parla la lingua italiana di "comprendere l'accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa" "e' suscettibile di un'applicazione estensibile a tutte le ipotesi in cui l'imputato, ove non potesse giovarsi dell'ausilio di un interprete, sarebbe pregiudicato nel suo diritto di partecipare effettivamente allo svolgimento del processo penale" (ancora Corte Cost., sent. n. 10 del 1993). Cio' posto, va pero' altresi' affermato che l'efficacia operativa dell'art.143 c.p.p., e' ovviamente subordinata al verificarsi di una condizione essenziale e cioe' l'accertamento dell'ignoranza della lingua italiana da parte dell'imputato. Ne consegue che ai fini dell'applicazione dell'art. 143 c.p.p., deve risultare in modo inequivocabile che lo straniero ignori la lingua italiana (Cass., Sez. Unite, n. 12, 31 maggio 2000, Jakani; Cass., Sez. Unite, n. 5052, 24 settembre 2003, Zalagaitis): la disposizione de qua va pertanto interpretata nel senso che presupposto indefettibile per la sua applicazione e' che risulti dagli atti la non conoscenza o la difficolta' di comprensione della lingua italiana da parte dell'imputato. Nel caso di specie, nessuna violazione del diritto di difesa si e' determinata in quanto, come peraltro sottolineato dallo stesso ricorrente, il Tribunale di Roma aveva accertato la conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato e, per l'effetto, l'insussistenza dell'obbligo di traduzione degli atti. Il giudice di merito aveva certamente tratto argomenti di valutazione dagli atti espletati nella fase delle indagini preliminari (interrogatorio dell'imputato in sede di udienza di convalida, ordinanza di custodia cautelare, la cui traduzione non risulta sia stata richiesta dalla difesa), atti avverso i quali nessun rilievo, a quanto e' dato conoscere, era stato sollevato. Inoltre, il Tribunale, nel rigettare l'eccezione di nullita' dell'avviso ex art. 415bis c.p.p. per mancata traduzione dell'atto nella lingua nota all'imputato, aveva affermato, sulla base degli atti esibiti dal Pubblico Ministero ed esaminati ai soli fini di valutare la fondatezza dell'eccezione, che l'imputato aveva conversato telefonicamente con un cittadino italiano (Zuncheddu), che si era espresso in lingua italiana con il suo datore di lavoro (De Cupis) e che dimorava stabilmente in Italia da circa due anni (cfr. verbale di udienza in data 24 ottobre 2003). Tali considerazioni, unitamente al fatto che l'imputato aveva "dimostrato di conoscere anche il russo essendosi avvalso della prestazione di un interprete di lingua russa alle udienze preliminari del 20 marzo 2003, del 17 aprile 2003 e del 12 giugno 2003, senza nulla eccepire ed avendo anche in data odierna partecipato all'udienza con l'assistenza di un interprete che ha espressamente dichiarato di comprendere ma di non parlare l'ucraino e di aver conferito in lingua russa e polacca con l'imputato venendo da questi compreso", determinavano il Tribunale a ritenere positivamente accertata la conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato: trattandosi di argomentazioni corrette, del tutto prive di vizi logici, l'accertamento dell'ignoranza della lingua italiana non puo' essere richiesto in sede di legittimita'. Questa Corte ha infatti affermato che "l'accertamento della conoscenza della lingua italiana da parte dello straniero costituisce un'indagine di mero fatto il cui esito, se riferito dal giudice di merito con argomentazioni esaustive e concludenti, sfugge al sindacato di legittimita'" (Cass., Sez. Unite, n. 12, 31 maggio 2000, Jakani).
Le censure indicate nel secondo e nel terzo motivo di ricorso, tra loro collegate, possono essere congiuntamente decise.
Quanto alla eccezione di nullita' della sentenza per violazione del principio di immutabilita' del giudice ex art.525, comma 2, c.p.p., e' sufficiente rilevare che, all'udienza del 24 ottobre 2003, l'unica attivita' processuale compiuta dal collegio diversamente composto, e' stata quella di rigettare un'eccezione di nullita' dell'avviso ex art. 415bis c.p.p.: la decisione sulla richiesta di giudizio abbreviato, presentata nella stessa udienza, e' stata infatti adottata, contrariamente a quanto affermato nel ricorso, nella successiva udienza del 19 novembre 2003, dal collegio che ha poi provveduto a deliberare la sentenza. Orbene, e' principio costantemente affermato da questa Corte che la regola dell'immutabilita' del giudice riguarda solo l'effettivo svolgimento dell'attivita' dibattimentale, con particolare riferimento alle acquisizioni probatorie, restandone esclusa l'attivita' relativa a procedimenti ordinatori mirati solo all'ordinato svolgimento del processo senza alcuna valenza sul giudizio (Cass., sez. 1^, n. 35669, 17 settembre 2003, Prinzivalli): in altre parole, il principio di cui all'art. 525, comma 2,c.p.p.., trova applicazione solo con riferimento "all'esame delle acquisizioni probatorie funzionali alla decisione, a ogni attivita' istruttoria destinata allo stesso scopo e all'assunzione delle richieste e delle conclusioni delle parti" (cfr., sul punto, anche Corte Cost. sent. n. 484 del 1995). Nessuna nullita' si e', pertanto, nella specie, verificata.
Quanto all'eccezione di nullita' degli atti compiuti all'udienza del 19 novembre 2003 per mancata nomina dell'interprete va rilevato che l'ascolto della cassetta registrata e' stato effettuato con "l'accordo delle parti" e, quanto al resto (lettura del capo d'imputazione, indicazione e ammissione delle prove), la relativa nullita' (a regime intermedio) risulta sanata ai sensi dell'art. 182, comma 2, c.p.p.., non risultando che la parte presente - che peraltro aveva prestato espressamente il consenso all'ascolto della cassetta registrata - abbia rilevato o eccepito alcunche'.
Quanto al quarto motivo in rito - dedotta nullita' delle conversazioni telefoniche intercettate e trascritte in data 20 novembre 2003, in quanto, effettuate all'insaputa dell'interlocutore e "captate alla presenza e con l'intervento di organi di polizia", avrebbero richiesto il rispetto della procedura prevista dagli artt. 266 e segg.c.p.p. - questo collegio ritiene condivisibili talune recenti pronunce di questa Corte (Cass., Sez. 2^, n. 42486, 17 dicembre 2002, Modelfmo; Cass., sez. 1^, n. 30082, 27 agosto 2002, Aquino) nelle quali si e' affermata la legittimita' e, quindi, la piena utilizzabilita', anche in assenza di un provvedimento dell'autorita' giudiziaria, dei colloqui registrati su nastro magnetico da uno degli interlocutori, a nulla rilevando ne' che la registrazione sia stata da lui effettuata su richiesta della polizia giudiziaria ne' che egli stesso agisca utilizzando materiale da questa fornito. Poiche', nella specie, uno degli interlocutori non solo aveva consentito, ma addirittura richiesto la captazione, non si ravvisa quella occulta presa di conoscenza di conversazioni che intercorrono tra soggetti individuati ma del tutto inconsapevoli che impone la rigorosa regolamentazione del codice di rito a garanzia della segretezza delle conversazioni.
Infine, quanto al merito (quinto motivo di gravame), il ricorrente ripropone la tesi, gia' sostenuta davanti la Corte territoriale, che la condotta degli imputati avrebbe potuto integrare, a tutto concedere, la fattispecie di cui all'art. 393 c.p., o, al piu', quella di cui all'art. 605 c.p.: in altre parole, il ricorrente propone un'altra interpretazione dei fatti rispetto a quella operata dai primi giudici, prospettando una diversa, e per esso ricorrente ritenuta piu' adeguata, valutazione delle risultanze processuali e affermando che quella operata dalla Corte territoriale sarebbe palesemente erronea perche' avrebbe valorizzato solo gli elementi a carico dell'imputato, senza tener conto di quelli a favore. Ritiene, viceversa, questo collegio che la motivazione della sentenza della Corte di appello, sia in punto di qualificazione giuridica che di ricostruzione dei fatti, sia del tutto coerente e priva dei connotati di illogicita' manifesta attribuitile nel ricorso. L'illogicita' o la carenza della motivazione come vizio denunciabile, deve peraltro essere evidente e cioe' di spessore tale da risultare immediatamente percepibile esulando dai poteri di questa Corte, quello di una "rilettura", come richiesto dal ricorrente, degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione. Tale valutazione e', in via esclusiva, affidata al giudice di merito e non spetta certo al giudice di legittimita' sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di secondo grado quando, come nella specie, tale valutazione sia stata operata dalla Corte territoriale con completa indicazione degli elementi di prova dai quali ha tratto il proprio convincimento, con scelte coerenti sul piano logico e prendendo in considerazione tutte le risultanze probatorie acquisite agli atti del processo.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cosi' deciso in Roma, il 6 ottobre 2005. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2005
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