Versione per la stampa
Con la legge n. 190 del 06 novembre 2012 “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” il legislatore è intervenuto in modo incisivo in un ambito in cui una riforma incisiva era ormai inevitabile e assolutamente necessaria. Non solo per l’ormai dilagante fenomeno dei fatti di corruzione nell’ambito della vita pubblica, ma anche per le forti spinte provenienti dall’ambito internazionale.
La legge di riforma, in particolare, si ispira alla Convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione del 2003, c.d. Convenzione di Merida, ratificata in Italia con la legge n. 116 del 2009, nonché alla Convenzione penale sulla corruzione del Consiglio d’Europa, c.d. Convenzione di Strasburgo, sottoscritta nel 1999 e ratificata dall’Italia con la legge n. 110 del 2012. Altrettanto importante, nel disegno complessivo, è il rapporto redatto dal GRECO (Group of States against corruption), istituito in seno al Consiglio d’Europa, il quale ha adottato la raccomandazione rivolta agli Stati membri di introdurre, in tema di repressione dell’illegalità, misure efficaci, proporzionate e dissuasive contro la corruzione.
La riforma, oltre che costituire un passaggio necessario per adeguare la legislazione italiana agli impegni assunti a livello internazionale, è stata accolta anche come un momento fondamentale per il rilancio del paese essendo giudicata ormai una via imprescindibile per prevenire e reprimere l’illegalità diffusa nella pubblica amministrazione. Una sorta di adeguamento del diritto all’evoluzione del fenomeno corruttivo divenuto nel tempo sempre più sofisticato e artificioso. Infatti, è generalmente riconosciuto a livello istituzionale che il fatto di corruzione ha perso sempre più il suo tradizionale carattere dualistico (composto da soggetto corrotto e soggetto corruttore), connotandosi invece per il coinvolgimento di soggetti ulteriori, destinati a svolgere funzioni di intermediazione e di filtro. Proprio per arginare questo fenomeno il legislatore italiano ha introdotto la nuova figura di reato denominata “traffico di influenze illecite”, sconosciuta in precedenza nella tradizione normativa italiana ma oggetto di obblighi di incriminazione di matrice internazionale.
E’ da tempo acquisito nelle analisi degli organismi internazionali che un efficace contrasto alla corruzione richiede una politica integrata, volta al rafforzamento dei rimedi di tipo repressivo ed alla contestuale introduzione di strumenti di prevenzione idonei ad incidere in modo razionale, organico e determinato sulle occasioni della corruzione e sui fattori che ne favoriscono la diffusionei.
Per fronteggiare efficacemente il fenomeno della corruzione, il legislatore italiano, con la legge di riforma, ha previsto sia misure di tipo repressivo e punitivo, sia importanti misure di tipo preventivo, nella consapevolezza che la prevenzione è un passaggio necessario per poter in futuro reprimere meno.
Sul piano della prevenzione, la legge è intervenuta a vari livelli.
I PIANI DI PREVENZIONE DELLA CORRUZIONE
Con la legge 190/2012 è stato introdotto anche nel nostro ordinamento un sistema organico di prevenzione della corruzione, il cui aspetto caratterizzante consiste nell’articolazione del processo di formulazione e attuazione delle strategie di prevenzione della corruzione su due livelli. Ad un primo livello, quello nazionale, il Dipartimento della Funzione pubblica predispone, sulla base di linee di indirizzo adottate da un Comitato interministeriale, il Piano nazionale anticorruzione il quale è poi approvato dalla C.I.V.I.T., individuata dalla legge quale Autorità nazionale anticorruzione. Al secondo livello, quello decentrato, ogni amministrazione pubblica definisce un Piano decentrato di prevenzione della corruzione, che, sulla base delle indicazioni presenti nel Piano nazionale anticorruzione, effettua l’analisi e la valutazione dei rischi specifici di corruzione e conseguentemente indica gli interventi organizzativi volti a prevenirli. La funzione principale del Piano nazionale anticorruzione è quella di assicurare l’attuazione coordinata delle strategie di prevenzione della corruzione nella pubblica amministrazione, elaborate a livello nazionale e internazionale. Il sistema deve garantire che le strategie nazionali si sviluppino e si modifichino a seconda delle esigenze e del feedback ricevuto dalle amministrazioni, in modo da mettere via via a punto degli strumenti di prevenzione mirati e sempre più incisivi. In questa logica, l’adozione del Piano nazionale anticorruzione non si configura come un’attività una tantum, bensì come un processo ciclico in cui le strategie e gli strumenti vengono progressivamente affinati, modificati o sostituiti in relazione al feedback ottenuto dalla loro applicazione. Inoltre, l’adozione del Piano nazionale anticorruzione tiene conto dell’esigenza di uno sviluppo graduale e progressivo del sistema di prevenzione, nella consapevolezza che il successo degli interventi dipende in larga misura dal consenso sulle politiche di prevenzione, dalla loro accettazione e dalla concreta promozione delle stesse da parte di tutti gli attori coinvolti ii.
Il Piano permette di disporre di un quadro unitario e strategico di programmazione delle attività per prevenire e contrastare la corruzione nel settore pubblico e crea le premesse perché le amministrazioni possano redigere i loro piani triennali per la prevenzione della corruzione e, di conseguenza, predisporre gli strumenti previsti dalla legge 190/2012iii.
LA TRASPARENZA
Con decreto legislativo n. 33 del 14 marzo 2013, con cui è stata data attuazione ai principi contenuti nell’articolo 1, comma 35, del legge n. 190/2012, si è perseguito l’obiettivo di rafforzare lo strumento della trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione, che rappresenta una misura fondamentale per la prevenzione della corruzione. In particolare, con lo strumento dell’accesso civico, disciplinato all’articolo 5 del decreto legislativo citato, chiunque può vigilare attraverso il sito web istituzionale non solo sul corretto adempimento formale degli obblighi di pubblicazione ma soprattutto sulle finalità e le modalità di utilizzo delle risorse pubbliche da parte delle pubbliche amministrazioni e degli altri enti destinatari delle normeiv. Un forte passo avanti, quindi, nel senso della accentuata trasparenza dell’attività della pubblica amministrazione. Attraverso tale strumento viene così accordato l’accesso ai provvedimenti amministrativi a chiunque intenda monitorare per ragioni di controllo democratico (e non di sola difesa giustiziale o giurisdizionale) l’operato dell’amministrazione: si tratta quindi di un diritto di accesso assolutamente svincolato dai presupposti di legittimazione dell'accesso previsto dalla legge n. 241/1990, legge sul procedimento amministrativo, oggi azionabile senza formalità, senza necessità di motivare l'istanza, senza dover dimostrare l'utilità dell'atto che si intende conoscere rispetto alle esigenze difensive del richiedente, ma sul solo presupposto dell'inadempimento in cui l'amministrazione è incorsa rispetto agli obblighi di pubblicitàv.
Nell’ottica di una sempre maggiore trasparenza, il decreto legislativo n. 33/2013 introduce significative novità. In primo luogo, oltre a riordinare e sistemizzare gli obblighi di pubblicazione on-line che già gravano sulle amministrazioni, riunendo in un corpus normativo unitario, sistematico e semplificato, le numerose previsioni normative disseminate nell'ordinamento, introduce aggiuntivi e rilevanti obblighi di informazione. In particolare:
- i dati concernenti i redditi e la condizione patrimoniale dei titolari degli organi di indirizzo politico (articolo 14);
- i rendiconti dei gruppi consiliari regionali e provinciali, con evidenza delle risorse trasferite a ciascun gruppo, con indicazione del titolo di trasferimento e dell’impiego delle risorse utilizzate, e corredati dagli atti e dalle relazioni degli organi di controllo (articolo 28);
- gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali e consulenziali, con la previsione che la pubblicazione è condizione di efficaciadell'atto di conferimento e condizione, quindi, perché si possa attendere alla liquidazione del previsto trattamento economico.
Ancora, nella sezione relativa agli obblighi di pubblicazione in settori speciali, sono ampliati gli obblighi di pubblicità on-line in materia di opere pubbliche (articolo 38) e contratti pubblici (articolo 37), attività di pianificazione e governo del territorio (articolo 39), servizio sanitario nazionale (articolo 41), interventi straordinari e di emergenza che comportano deroghe alla legislazione vigente (articolo 42 ) vi.
IL CODICE DI COMPORTAMENTO DEI DIPENDENTI PUBBLICI
Il legislatore del 2012 ha imposto anche il rafforzamento del codice di comportamento dei dipendenti pubblici, con la sanzionabilità della relativa violazione in termini di responsabilità disciplinare. Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici è stato adottato con decreto legislativo n. 62 del 16 aprile 2013, anch’esso in attuazione della legge n. 190/2012 la quale all'articolo 1 paragrafo 44 riformula l'articolo 54 decreto legislativo n. 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego).
Episodi sempre più diffusi sia di cattiva amministrazione che di scorretto comportamento di pubblici funzionari, hanno imposto un giro di vite sulla efficacia giuridica delle norme del codice di comportamento già ad opera del decreto legislativo n. 150/2009 (c.d. riforma Brunetta). Lo stesso, nell’introdurre forme più rigorose di disciplina per i dipendenti pubblici , prevede la possibilità del licenziamento disciplinare nell’ipotesi di scarso rendimento dovuto alla reiterata violazione (nell’arco di due anni) non solo di obblighi concernenti la prestazione stessa o altre norme di legge o regolamento, ma anche quelli derivanti dal codice di comportamentovii. La legge n. 190/2012 ha quindi voluto un rafforzamento del profilo costrittivo del codice di comportamento prevedendo che la violazione dei doveri in esso contenuti sia:
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fonte di responsabilità disciplinare;
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fonte di responsabilità civile, amministrativa e contabile;
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motivo di licenziamento disciplinare in caso di gravi o reiterate violazioni del codice di comportamento.
Nel codice è inoltre prevista un'apposita sezione dedicata ai dirigenti il cui ruolo è fondamentale nella costruzione di un ambiente di lavoro positivo che costituisca la più efficace forma di prevenzione dei fenomeni corruttivi o illegali. Al dirigente spetta il compito di individuare i settori più sensibili e quindi maggiormente a rischio di corruzione e di mettere in atto idonee misure preventive.
E’ stato anche giustamente osservato che urgente è che il codice di comportamento non venga solo previsto per i pubblici dipendenti ma anche per i politici viii.
LA DISCIPLINA DEI CASI DI INCONFERIBILITA’, INCOMPATIBILITA’ E INCANDIDABILITA’
Con l’obiettivo di rafforzare l’integritàdel singolo dipendente, la legge n. 190/2012, all’articolo 1, commi 49 e 50, ha delegato il Governo a disciplinare da un lato i casi di non conferibilità e di incompatibilità degli incarichi dirigenziali, così introducendo uno degli elementi fondamentali della strategia di prevenzione dei fenomeni di corruzione e cattiva amministrazione. D’altro lato, è stata prevista la delega al Governo per la adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo. Al primo adempimento il governo ha provveduto attraverso l’adozione del decreto legislativo n. 39 del 08 aprile 2013, mentre al secondo attraverso il decreto legislativo 235 del 31 dicembre 2012 (c.d. legge Severino).
La legge n. 190/2012 persegue, quindi, una organica modifica tanto della disciplina in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali e di incarichi di responsabilità amministrativa di vertice, quanto di quella relativa alle incompatibilità tra i detti incarichi e lo svolgimento di incarichi pubblici elettivi o la titolarità di interessi privati che possano porsi in conflitto con l’esercizio imparziale delle funzioni pubbliche affidate ix.
In sintesi, il decreto legislativo n. 235/2012 prevede che non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di Deputato e di Senatore coloro che:
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hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti consumati o tentati previsti dall’articolo 51, comma 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale (si tratta di particolari tipologie di reato come l’associazione per delinquere, l’associazione di tipo mafioso, alcuni delitti contro la persona, il sequestro di persona a scopo di estorsione, i reati in materia di terrorismo ecc…);
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hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti nel libro II, titolo II, capo primo del codice penale (si tratta dei reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione);
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hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni.
Il decreto legislativo n. 39/2013 stabilisce inoltre che a coloro che siano stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per uno dei reati previsti dal libro II, titolo II, capo I del codice penale (reati dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione) non possono essere attribuiti:
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incarichi amministrativi di vertice nelle amministrazioni statali, regionali e locali;
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incarichi di amministratore di ente pubblico di livello nazionale, regionale e locale;
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incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni, negli enti pubblici e negli enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico;
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incarichi di amministratore di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico;
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incarichi di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali del Servizio sanitario nazionale.
Con i due interventi legislativi indicati, di carattere evidentemente preventivo dei fenomeni di corruzione, si è quindi inteso escludere dalla vita pubblica tutti coloro che si siano resi responsabili di reati contro la pubblica amministrazione o comunque di reati, pur di diversa natura, ma in grado di compromettere la piena legalità dell’attività della pubblica amministrazione (ad esempio i reati in materia di mafia e in genere i reati di tipo associativo).
LA TUTELA DEL WHISTLEBLOWER
Si tratta di una figura introdotta con l’articolo 1, comma 51, della legge n. 190/2012 appunto dedicata alla “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”. Il whistleblower è colui che testimonia un illecito o una irregolarità sul luogo di lavoro, durante lo svolgimento delle proprie mansioni, e decide di segnalarlo ad una persona o ad una autorità che possa agire efficacemente al riguardo.
To blow in the whistle significa letteralmente “soffiare nel fischietto”, immagine che richiama chiaramente quella che in gergo viene definita “la soffiata”, ovvero il fatto di chi, essendo a conoscenza del compimento di atti di corruzione, li segnali alle autorità competenti.
La tutela del cd. whistleblower, è integrata con la specifica previsione del divieto di comminare sanzioni di tipo discriminatorio, in qualche modo correlate alla denuncia di condotte illecite di cui il pubblico dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
Il citato articolo 1, comma 51 ha inserito nel Testo unico del pubblico impiego (adottato con decreto legislativo n. 165/2001) il nuovo articolo 54 bis il quale stabilisce che Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o di diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all'Autorità giudiziaria o alla Corte dei Conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta,avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia.
In primo luogo va evidenziato che la norma pone a carico del denunciante l'eventuale responsabilità per diffamazione o calunnia ovvero per i danni eventualmente cagionati ai sensi dell'articolo 2043 in tema di responsabilità per fatto illecito. Si tratta di una clausola che fa assumere al denunciante la piena responsabilità in caso di affermazioni e accuse false.
I soggetti preposti alla ricezione della segnalazione. Lasegnalazionepuò essere effettuata alternativamente a tre soggetti:
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l'Autorità giudiziaria;
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la Corte dei Conti;
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il superiore gerarchico.
Va evidenziato che, mentre la segnalazione al superiore gerarchico costituisce una semplice comunicazione, quella all'Autorità giudiziaria e alla Corte dei Conti sembra assumere le vesti di una vera e propria denuncia.
Oggetto della segnalazione. Oggetto della segnalazione possono essere solo illeciti di cui il denunciante sia venuto a conoscenza in ragione del suo rapporto di lavoro.
L'anonimato. In cambio della denuncia il legislatore garantisce al denunciante la segretezza circa la sua identità, con un'unica eccezione. Qualora la contestazione sia fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, l'identità può essere rivelata ove la sua conoscenza sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato. E' chiaro che tale previsione, oltre ad essere molto generica e quindi foriera di molti contenziosi, ha inevitabilmente effetto disincentivante in quanto il whistleblower è sempre potenzialmente a rischio di essere smascherato.
In tutti gli altri casi, senza il consenso del denunciante, la sua identità non può essere resa nota. Le segnalazioni vanno pertanto ad aggiungersi alle altre categorie di atti sottratti al diritto di accesso disciplinato dall'articolo 24 della legge n. 241/90 come successivamente modificata.
E' da evidenziare il fatto che il legislatore non ha contemplato l'ipotesi delle segnalazioni anonime, forse al fine di garantire che, costringendo il denunciante a manifestarsi, vi sia maggiore sicurezza in merito alla fondatezza delle segnalazioni le quali invece, se potessero essere anonime, rischierebbero di proliferare e di dar vita a denunce sconsiderate e infondate.
Aver previsto che il denunciante renda nota la propria identità con il soggetto a cui rivolge la segnalazione è certamente un modo per responsabilizzarlo rispetto alle affermazioni fatte.
Non sembra richiesto che il whistleblower con la denuncia fornisca anche le prove di quanto segnalato. Certamente però segnalare un fatto senza averne le prove espone al concreto rischio di vedersi successivamente perseguiti per calunnia o diffamazione e vedersi chiedere i danni.
Effettività della tutela.
La norma disciplina, vietandone il compimento, le possibili ritorsioni contro il denunciante. Le ritorsioni da scongiurare vanno dal licenziamento a varie misure discriminatorie, sia dirette che indirette. La tutela riconosciuta dall’articolo 54 bis è rafforzata dalla previsione secondo cui l'adozione di misure discriminatorie deve essere segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall'interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative all'interno dell'amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.
Sia permessa qualche perplessità in merito alla effettiva protezione riservata, sulla carta, al dipendente pubblico che denuncia un illecito avvenuto, o in corso, nell'ambito del rapporto di lavoro. A prescindere dalle innegabili buone intenzioni del legislatore è inevitabile rilevare alcune criticità. In primo luogo, appaiono assolutamente carenti ed inadeguati gli strumenti o gli istituti finalizzati a promuovere il whistleblowing. In secondo luogo, risulta incomprensibile il motivo per cui tale istituto, e la relativa scarna disciplina, sia stato limitato solo al settore pubblico quando anche nel settore privato si possono verificare esigenze di segnalazione di fatti illeciti.
Per come è formulata, la disciplina del whistleblowing, rischia di diventare un istituto molto poco utilizzato soprattutto per le scarse garanzie di anonimato che offre. C'è però anche da riconoscere che il legislatore, con la previsione secondo cui l'identità del denunciante può essere rivelata quando sia assolutamente indispensabile per la difesa dell'incolpato, ha voluto anche garantire a quest'ultimo di conoscere il suo accusatore per potersi difendere adeguatamente dalla accuse.
L'esigenza di tutelare entrambe le parti rischia di vanificare l'obiettivo della norma e di ridurre il whistleblower a semplice spia con la connotazione negativa che ne deriva. Quando invece la figure del whistleblower andrebbe vista come un valido aiuto per “stanare” l'illegalità più nascosta e artificiosa. Il whistleblower dovrebbe essere visto come un difensore della legalità non come una spia da allontanare o addirittura da punire.
La legge n. 190/2012 è intervenuta, come si anticipava in apertura, non solo sul piano preventivo ma anche sul piano repressivo e punitivo. Sotto quest’ultimo profilo la legge ha operato sostanzialmente su tre livelli.
INASPRIMENTO DELLE PENE PER ALCUNE FATTISCIE DI REATO
Sono infatti stati aumentati, nell’ottica di potenziare l’efficacia dissuasiva delle norme incriminatrici, i minimi edittali, anzitutto, del reato di peculato di cui all’articolo 314 del codice penale, il cui minimo, in precedenza pari ad anni tre di reclusione, è stato portato ad anni quattro, e del reato di abuso di ufficio di cui all’articolo 323, comma 1 la cui pena, prima racchiusa tra un minimo di sei mesi ed un massimo di tre anni di reclusione, è ora ricompresa tra uno e quattro anni di reclusione.
La nuova legge ha anche provveduto ad aumentare le pene relativamente al reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (corruzione propria) di cui all’articolo 319: in luogo della precedente pena della reclusione da due a cinque anni di reclusione è ora stata prevista una forbice edittale da quattro ad otto anni di reclusione.
E’ stata, infine, aumentata la pena anche per il reato di corruzione in atti giudiziari di cui all’articolo 319-ter: la pena prevista per il fatto del primo comma, in precedenza racchiusa tra tre ed otto anni di reclusione, è ora ricompresa tra quattro e dieci anni, mentre, con riguardo all’ipotesi aggravata, prevista nel comma secondo, il minimo edittale è stato elevato a cinque anni di reclusione in luogo dei precedenti quattro, cosicché la forbice edittale spazia ora tra cinque e dodici anni di reclusione. La novella ha infine innalzato il limite edittale minimo del reato di concussione di cui all’articolo 317 (la cui fattispecie come si vedrà meglio in seguito è stata ristretta alla sola ipotesi della costrizione), portato da quattro a sei anni di reclusionex.
RIMODULAZIONE DI ALCUNE FATTISPECIE DI REATO
Fra gli aspetti più innovativi della riforma spicca quello che è stato definito lo spacchettamento del reato di concussione. Dall’unica norma dell’articolo 317 del codice penale sono, infatti, gemmate due distinte fattispecie. Prima della riforma, l’articolo rubricato “concussione” puniva il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o promettere indebitamente a lui o a un terzo denaro o altra utilità.
L’attuale articolo 317, che mantiene la dizione di “concussione”, punisce invece con una pena maggiore nel minimo di quella precedente (oggi da sei a dodici anni di reclusione; ieri da quattro a dodici anni di reclusione) il pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilità.
La condotta di induzione indebita a dare o a promettere utilità, invece, è stata autonomamente formulata nel nuovo articolo 319-quater, primo comma che sanziona con la reclusione da tre ad otto anni, quindi con una pena inferiore sia rispetto all’attuale che alla pregressa condotta di concussione il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo denaro o altra utilitàxi.
La novità più rilevante di quest’ultima norma è, però, contenuta nel suo capoverso, laddove prevede che nei casi previsti dal primo comma, chi dà o promette denaro o altra utilità, è punito con la reclusione fino a tre anni. Viene cioè punito anche il privato che su sollecitazione del pubblico funzionario, acconsente a promettere o a dare qualche utilità, non necessariamente di entità economica.
La punibilità del soggetto destinatario della condotta induttiva del funzionario pubblico, quindi, nel delitto previsto all’articolo 319-quater delcodice penale (induzione indebita a dare o a promettere utilità) vorrebbe, nelle intenzioni del legislatore, fungere da norma propulsiva di un nuovo modo di porsi del privato nel rapporto con la pubblica amministrazione, prevedendo che costui non possa più cedere, rimanendo impunito, nei confronti di una blanda spinta a pagare. Che non possa più essere considerato, come in passato, solo una vittima dei fatti di corruzione.
INTRODUZIONE DELLA NUOVA FIGURA DELITTUOSA DI TRAFFICO DI INFLUENZE ILLECITE
Si tratta di una fattispecie assolutamente nuova nella tradizione normativa italiana, benchè già conosciuta a livello internazionale, funzionale a perseguire condotte prodromiche a successivi accordi corruttivi. La nuova fattispecie di reato è disciplinata dall’articolo 346 bis che puniscechiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter, sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio.
La nuova fattispecie presenta, a prima vista, nella sua prima parte, evidenti tratti del reato di millantato credito di cui al primo comma dell’articolo 346 del codice penale, topograficamente posto subito prima, ove l’utilità o la promessa appaiono collegate, nella rappresentazione dei fatti da parte dell’intermediario, alla necessità, per costui, di esercitare opera di “mediazione” verso il soggetto pubblico rispetto alle attese e richieste del privato. Sembra tuttavia differenziarsene essenzialmente per il fatto che le relazioni con il pubblico funzionario vantate dall’intermediario devono essere, come segnalato dall’aggettivo “esistenti”, reali e non invece meramente vantate dall’agente.
Allo stesso tempo la differenza della nuova figura, nella sua prima parte, rispetto ad un mero concorso nel reato di corruzione parrebbe individuabile nel fatto che il denaro o gli altri vantaggi patrimoniali non rappresentano il prezzo da corrispondere al pubblico ufficiale per far sì che lo stesso pubblico ufficiale ometta o ritardi o abbia omesso o ritardato un atto dell’ufficio ovvero compia od abbia compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, ma vengono rappresentati e destinati a retribuire unicamente l’opera di una mediazione.
Va segnalato come la volontà del legislatore non sia stata tanto quella di tipizzare autonomamente la condotta del “mediatore” nella corruzione (altrimenti punibile per il concorso in tale ultimo reato), per riservare a quest’ultimo un incomprensibile trattamento sanzionatorio di favore, quanto piuttosto e per l’appunto quello di punire condotte prodromiche alla corruzione medesima per il caso che l’accordo corruttivo non si perfezioni.
La peculiare configurazione della clausola di riserva (fuori dei casi di concorso nei reati di cui agli articoli 319 e 319 ter ) esclude la stessa tipicità del fatto qualora la condotta di mediazione (e quella di colui che lo “finanzia”) sia specificamente inquadrabile nel concorso in corruzione propria o in atti giudiziari, quando cioè l’azione del mediatore (e a maggior ragione del suo finanziatore) abbia effettivamente esplicato una efficienza causale nella corruzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizioxii.
Queste dunque, in estrema sintesi, le principali misure adottate dal legislatore in tema di reati contro la pubblica amministrazione. Non è un caso comunque che nell’impianto della legge n. 190 il legislatore abbia disciplinato prima le misure di tipo preventivo e successivamente quelle di tipo punitivo. Come diceva anni fa una nota pubblicità televisiva: prevenire è meglio che curare. Così, pur di fronte alla indispensabilità del trattamento repressivo e punitivo dei fatti di corruzione, appare oggi più che mai essenziale, attraverso una opportuna opera preventiva e rieducativa, recuperare la legalità come cultura, in ossequio ai principi costituzionali che vogliono il funzionario pubblico imparziale, leale e diligente.
Lorena Tosi funzionario amministrativo della Provincia di Verona, dicembre 2013
(iproduzione riservata)
ii Piano nazionale anticorruzione approvato dalla C.I.V.I.T. con delibera n. 72 del 11 settembre 2013.
iv Circolare n. 2/2013 della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della Funzione pubblica.
v R. Garofoli, La nuova legge anticorruzione, tra prevenzione e repressione, rielaborazione della relazione svolta al Convegno "Il contrasto alla corruzione: le prospettive aperte dopo la legge 6 novembre 2012, n. 190", tenuto in Corte di Cassazione il 17 aprile 2013.
vi R. Garofoli, citato alla nota 2
viii P.M. Zerman, citata.
ix R.Garofoli, La nuova legge anticorruzione, tra prevenzione e repressione.
x Relazione della Corte di Cassazione n. III/11/2012 del 15 novembre 2012
xi Relazione della Corte di Cassazione n. 19/2013 del 03 maggio 2013
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