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Penale.it - Serena Ciliberto, Profili processuali del d.lgs 8 giugno 2001, n. 231. La rappresentanza dell’ente imputato nei casi di conflitto d’interesse: soluzioni giurisprudenziali e indirizzi dottrinali, tra istanze di garantismo e profili di criticità.

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Serena Ciliberto, Profili processuali del d.lgs 8 giugno 2001, n. 231. La rappresentanza dell’ente imputato nei casi di conflitto d’interesse: soluzioni giurisprudenziali e indirizzi dottrinali, tra istanze di garantismo e profili di criticità.
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 L’architettura del processo penale classico che la riflessione giuridica ha consegnato alla modernità ha assunto, per lungo tempo, una connotazione tipicamente antropocentrica, dovendosi intendere per “processo penale” quel contesto fattuale volto all’accertamento della responsabilità del singolo individuo, attraverso una metodologia di ricostruzione della vicenda umana ispirata e presidiata da istanze di garantismo e di legalitài.

Il D.lgs 231/2001, dando i natali ad un inedito schema di procedura penale d’impresa, sembra scardinare, almeno in parte, le coordinate tipiche del procedimento penale tradizionale. Difatti, la disciplina normativa introdotta dal legislatore delegato proietta nelle dinamiche processuali una nuova figura di imputato, un soggetto di diritto metaindividuale che, per tradizione risalente, è stato per lungo tempo considerato come penalmente irresponsabile, sprovvisto cioè di quelle caratteristiche necessarie a fondare una responsabilità personale e colpevole.
Pur sullo sfondo dell’accesa querelle dottrinale ed interpretativa circa la reale natura della responsabilità degli enti collettivi, sul fronte processuale le scelte del legislatore appaiono perentorie ed inequivoche: l’articolo 36 del decreto stabilisce expressis verbis che la responsabilità dell’ente-imputato debba essere ricostruita nel contesto del processo penale e che tale accertamento debba essere attributo alla competenza del giudice penale chiamato a conoscere del reato presupposto. Invero, tracce del favor per il modello processuale penale come sede di accertamento della responsabilità dell’ente, erano rintracciabili già nelle prescrizioni contenute nell’articolo 11 comma 1, lett. q)della legge di delega, 29 settembre 2000, n. 300, laddove si prevedeva che le sanzioni amministrative a carico degli enti dovessero essere applicate dal giudice competente a conoscere del reato presupposto e che, per il procedimento di accertamento della responsabilità, dovessero applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura penale, assicurando l’effettiva partecipazione e difesa degli enti nelle diverse fasi del procedimentoii.
Le ragioni di questa scelta di favore per il modello penalistico, illustrate dettagliatamente nella relazione di accompagnamento al decreto legislativo, traggono origine da due distinti ordini di motivazioni: da una parte, la presa di coscienza dell’inadeguatezza dei poteri istruttori attribuiti alla pubblica amministrazione dalla legge 24 novembre 1981, n. 689; dall’altra, l’opportunità, anche alla luce del rapporto di contiguità tra illecito amministrativo e reato presupposto, di dare cittadinanza ad un modello processuale dotato di garanzie forti, quelle garanzie che solo il processo penale avrebbe potuto offrireiii.
Quantunque l’urgenza di bilanciare esigenze di effettività e istanze di garanzia abbia fatto apparire quasi come doverosa la scelta del modello penale, l’inserimento nel circuito processuale di un nuovo soggetto di diritto ha inevitabilmente prestato il fianco ad ulteriori problematiche. Come si anticipava, difatti, non solo le tradizionali categorie dogmatiche di diritto sostanziale ma anche le complessive dinamiche della fase processuale parevano aderire ad una logica che considerava la sola persona fisica come centro esclusivo di posizioni giuridiche, di diritti, di garanzie, di obblighiiv. Si può dunque certamente concordare con quanti hanno con vigore affermato che, l’ingresso sulla scena penale della modernità di un nuovo soggetto di diritto ha imposto il compimento di un vaglio preliminare di adattabilità del modello al mutato panorama, al fine di verificare, in ultima istanza – e al di là delle enunciazioni di principio – quale fosse il tasso di effettività delle garanzie di «partecipazione e difesa» accordate alla persona giuridica sottoposta a procedimento.
Tale indagine è stata condotta, dagli esperti della materia, soprattutto in riferimento ad uno degli istituti tipici del processo penale alle società: l’istituto della rappresentanza processuale dell’ente imputato. L’elemento di assoluta novità che caratterizza questa nuova procedura penale d’impresa può,difatti, rinvenirsi in un dato oggettivo: l’ente-imputato non esiste nella realtà fenomenica esterna,difetta di una autonoma dimensione di fisicità e, pertanto, per agire nel contesto procedimentale, abbisogna del contributo personale di chi ne possa rappresentare l’articolazione personale. La figura del rappresentante legale dell’ente, tuttavia, è figura circondata da un alone di “ineliminabile ibridismov”: sebbene esso sia funzionalmente preposto ad incarnare e manifestare la volontà societaria, rimane un soggetto fisicamente distinto dal “rappresentato” e, dunque, potenzialmente non estraneo alla commissione di fatti illeciti idonei a fondare una responsabilità individuale e distinta da quella della corporation.
Ai sensi dell’articolo 39 del decreto legislativo, difatti, l’ente partecipa alle dinamiche giurisdizionali per mezzo del soggetto preposto a rappresentarlo, salvo che questi non risulti essere raggiunto da un’ipotesi di imputazione per il reato da cui dipende l’illecito amministrativo. Siffatta previsione di incompatibilità rappresentativa pare evidentemente preordinata ad arginare possibili contaminazioni delle rispettive strategie difensive, potendosi agevolmente immaginare come, in tali circostanze, del tutto evidente sarebbe il conflitto di interessi tra la persona fisica del legale rappresentante e la persona giuridica, certamente interessata a dimostrare – alla luce della clausola di esonero di responsabilità di cui all’articolo 5 del decreto – che l’eventuale violazione sia stata commessa nell’interesse esclusivo del primo, ovvero attraverso l’elusione fraudolenta dei modelli di organizzazione e gestione. E tuttavia il legislatore, limitandosi ad introdurre una presunzione assoluta di incompatibilità «funzionale ad assicurare la piena garanzia del diritto di difesa del soggetto collettivo imputatovi», ha taciuto su quali potessero essere i rimedi più idonei a consentire il superamento di questa fase di empasse, onde accordare all’imputato-persona giuridica il diritto di partecipare al procedimento, sottraendo così la norma a possibili patenti di illegittimità costituzionale per violazione del diritto di difesa.
La questione, evidentemente non di poco momento, ha sollecitato l’attenzione della stessa Suprema Corte di Cassazione che, chiamata a pronunciarsi in merito ad un caso di incompatibilità rappresentativa, è parsa tuttavia orientata a confutare possibili accuse di incostituzionalità dell’articolo 39, individuando per via interpretativa tre distinte soluzioni al conflitto di interessivii. Privilegiando un approccio che affidi all’ente imputato ogni determinazioni in ordine alla propria strategia processuale, è stato affermato che questi, nei casi di patologia della rappresentanza, ben potrebbe comunque provvedere alla nomina di un nuovo rappresentante legale ovvero decidere di rimanere inerte, non operando alcuna sostituzione, o ancora limitarsi a nominare un mero rappresentante ad processum.
Le soluzioni delineate dalla Suprema Corte, tuttavia, ben lungi dall’acquietare il dibattito circa la presunta tensione costituzionale dell’articolo in esame, hanno di contro suscitato una più attenta riflessione dottrinale.
In primo luogo - si è osservato - la possibilità per l’ente imputato di non provvedere ad alcuna modifica dell’incarico rappresentativo, consentirebbe l’operativa del regime contumaciale limitatamente alla sola fase processuale. Nella fase preliminare di indagine, al contrario, la scelta operata dall’imputato di rimanere inerte, impedirebbe, a titolo esemplificativo, tanto la possibilità di procedere ad interrogatorio, tanto la possibilità di rendere dichiarazioni spontanee o di presenziare all’udienza camerale di applicazione di eventuali misure cautelari. Di tale possibile contrazione delle garanzie difensive sembra tuttavia ben consapevole la Suprema Corte, che tuttavia chiarisce come, data per assunta l’impossibilità di affidare il compimento dei cosiddetti “atti personalissimi” alle determinazioni di un soggetto in conflitto di interessi, non potrebbe comunque parlarsi di profili di illegittimità costituzionale della norma per violazione del diritto di difesa, nella misura in cui le disposizioni del codice di procedura penale – e segnatamente dell’articolo 369bis c.p.p. – consentirebbero comunque al pubblico ministero di provvedere, quantomeno, alla nomina di un difensore d’ufficio. Precisato che tale soluzione non sembra essere del tutto esaustiva, stante la diversità di ruoli e di funzioni tra il legale rappresentante dell’ente e la figura di un mero difensore tecnico, è tuttavia possibile dare atto di un ulteriore profilo di problematicità. Più nel dettaglio, la scelta dell’ente di non costituirsi presupporrebbe pur sempre che questi sia stato preventivamente erudito sull’esistenza di un procedimento pendente in capo al proprio legale rappresentante. Ebbene, sarà agevole verificare come la disciplina dettata dal codice di procedura in tema di informazione di garanzia, implicitamente richiamata dall’articolo 57 del decreto, non pare annoverare tra i dati oggetto di comunicazione, le generalità della persona fisica cui è addebitato il reato presupposto. Ciò a dire che, plausibilmente, una reale contrazione delle garanzie difensive non deriverebbe tout court dall’impossibilità per l’ente che non abbia sostituito l’originario rappresentante di prendere parte al procedimento in corso, quanto piuttosto dall’inadeguatezza dei meccanismi informativi volti a consentire all’imputato persona giuridica di avere contezza della situazione di incompatibilità già in una fase preliminare di indagineviii.
La seconda soluzione prospettata dai Giudici di legittimità è individuata nella facoltà, per l’ente imputato, di operare una sostituzione del rappresentante in conflitto. Anche tale ricostruzione esibisce, tuttavia, seppur per motivi parzialmente differenti, alcuni aspetti di criticità. Da una prospettiva squisitamente tecnica, difatti, può osservarsi come ogni eventuale modifica della compagine societaria appaia spesso piuttosto complessa. In altri termini, anche alla luce della necessità di preservare una certa stabilità gestionale, la sostituzione del rappresentante in conflitto comporterebbe una redistribuzione organizzativa di vertice caratterizzata da tempistiche spesso non coincidenti con i naturali ritmi processuali, prospettando inoltre un non trascurabile rischio di compromissione degli equilibri interni della stessa societasix.
Da ultimo, la terza possibile soluzione ai casi di conflittualità rappresentativa è fatta corrispondere con la facoltà, per l’imputato, di provvedere alla nomina di un mero rappresentante ad processum. Sembra proprio tale ultimo rimedio a far convergere il consenso di buona parte della dottrina, nella misura in cui si presenta come una soluzione di equo contemperamento tra le esigenze partecipative dell’ente con e l’opportunità di scongiurare complessi riassetti societari. Ciononostante, neppure tale ultima soluzione è parsa esente da criticità. Si è infatti osservato come – eccezion fatta per quanto indicato nella Relazione governativa di accompagnamento al decreto – la nomina di un rappresentante con procura ad litem sarebbe ammissibile solo a costo di una forzatura del tenore letterale dell’articolo 39. Tale disposizione, difatti, nello stabilire che l’atto di costituzione dell’imputato debba recare l’indicazione delle generalità del legale rappresentante, non pare accennare alla possibilità di conferire una procura limitata ai soli affari processualix. A ciò si aggiunga che, aderendo a quell’interpretazione restrittiva dell’articolo 39 che escluderebbe implicitamente la possibilità di nominare un rappresentante processuale, per l’ente imputato che intendesse prendere parte attivamente al procedimento penale, residuerebbe un’unica opzione. Come è stato osservato, la nomina di un nuovo rappresentante legale, si presenterebbe cioè come una scelta imposta ope judicis, e ciò in aperto contrasto rispetto all’indirizzo finora manifestato dalla stessa giurisprudenza di legittimitàxi.
All’esito di questa breve analisi risulta evidente come la tematica della rappresentanza processuale dell’ente-imputato, nei casi di conflitto d’interessi, rappresenti uno degli snodi più problematici della disciplina introdotta dal legislatore del 2001. Dal confronto tra le soluzioni della giurisprudenza e le critiche della dottrina emerge chiaramente come, pur a distanza di diversi anni dall’entrata in vigore della normativa in materia di responsabilità delle persone giuridiche, il dibattito non sembra essersi esaurito. Pare, dunque, potersi concludere che l’opportunità di contemperare la duplice esigenza di accordare al “nuovo” imputato adeguati meccanismi di partecipazione al procedimento, scongiurando al contempo possibili ingerenze giudiziarie all’interno del suo assetto organizzativo, rimane un compito, ancora una volta, affidato al futuro atteggiarsi della prassi applicativa.
 

Serena Ciliberto, novembre 2013

(riproduzione riservata)

 


 

 
 
i In tema, M. DI BITONTO, Studio sui fondamenti della procedura penale d’impresa, Editoriale scientifica, Napoli, 2012, p. 11 s.
ii In tema, G. FIDELBO, Le attribuzioni del giudice penale e la partecipazione dell’ente al processo, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs 8 giugno 2011, n. 231, a cura di G. Lattanzi, Milano, 2010, p. 436 s.
 
iii In tema, G. PAOLOZZI, Vademecum per gli enti sotto processo, Giappichelli, Torino, 2006, p. 7
 
ivCosì, A. CARMONA, La responsabilità amministrativa degli enti: reati presupposto e modelli organizzativi, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2006, p. 199 s.
v In tema, A. BASSI, E. T. EPIDENDO, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Giuffrè, Milano, 2006, p.532; A. BASSI, Il rappresentante legale dell’ente: una figura problematica, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2006, p. 43 s.; G. VARRASO, La partecipazione e l’assistenza difensiva delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni nel procedimento penale, in AA.VV., La responsabilità amministrativa degli enti: d.lgs 8 giugno 2001, n. 231, Ipsoa, Milano, 2002, p. 233 s.
 
vi Cass., sez. VI., Pen., 28 Ottobre 2009, n. 41398
 
vii Il riferimento è sempre alla sentenza Cass., sez. VI., Pen., 28 Ottobre 2009, n. 41398
 
viii In tal senso, F. PUGLIESE, Divieti di partecipazione al processo degli enti e tentativi di interpretazioni creative di una norma incostituzionale, in Giustizia Penale, 2008, p. 126 s.
 
ix In tal senso, G. FIDELBO, Le attribuzioni del giudice penale e la partecipazione dell’ente al processo, cit., p. 182; G. VARRASO, La partecipazione e l’assistenza difensiva dell’ente nel procedimento penale a suo carico: tra vuoti normativi ed etero integrazione giurisprudenziale, in Cass. pen., 2010, p. 1391.
 
x In tal senso, P. DI GIRONIMO, Aspetti processuali del d.lgs n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti per fatti costituenti reato: prime riflessioni, in Cass. pen., 2002, p. 1568.
 
xi F. PUGLIESE, Divieti di partecipazione al processo degli enti e tentativi di interpretazioni creative di una norma incostituzionale, cit., p. 125.
 
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